Le Lettere di Sandokan – Artisti
«Nel 2007 lo scrittore francese Jean Echenoz ha scritto un romanzo sulla vita del compositore, “Ravel”.
Nel libro l’autore del Boléro viene descritto come un uomo che fatica a raggiungere un equilibrio, un essere sopraffatto dalla vita che non trova un centro, non incontra il “guru” né fuori né dentro di sé.
Ciò che mi interessa, a prescindere dalla somiglianza del personaggio al vero Ravel, è che questo tormento nelle sue opere non si sente.
Nella musica di Ravel non c’è spazio per l’ignoto, ogni virgola è al suo posto e non potrebbe essere altrove. Considerato il caos che c’è nel mondo, nella vita, nell’amore, nella salute, nel sesso, almeno quando faccio musica, sembra dire Ravel, lasciatemi apporre un principio e una fine. Voglio una struttura precisa, io rispondo a regole armoniche, ancorché inventate da me (perché Ravel è avanti, mica usa lo stile di un altro). E sa restarci dentro, come Raymond Quenenau, Italo Calvino o Georges Perec, tutti scrittori che hanno inventato un sistema di regole entro il quale far convergere la propria creatività. Pensate a “La scomparsa” di Perec, un romanzo scritto senza mai usare la lettera E. Forse pare un esempio eccessivo, ma rende l’idea di come un artista possa creare e autoimporsi delle regole. Può sembrare un limite, ma è un metodo che per alcuni è rassicurante, è ideale per esprimersi. Nella musica sinfonica dell’Ottocento inoltrato accade praticamente sempre così: se si comincia in Do minore si finisce in Do minore. Questa è la regola.
Che enorme differenza rispetto alla vita! Della vita nessuno ricorda l’inizio e nessuno può conoscere in anteprima il finale. La vita è una canzone alla quale chiunque può cambiare un verso, ma nessuno, lo sappiamo, può permettersi di cambiare una nota a Beethoven.
Molte persone sono attaccate alle forme, alle regole, per poche semplici ragioni: perché sono conosciute, perché sono rassicuranti, perché non comportano imprevisti. La sinfonia esiste da tanti anni, il balletto e il teatro di prosa pure: ti siedi, le luci si spengono e intervengono Le Forme a farti tirare un sospiro di sollievo dal caos della tua vita. L’Orologiaio [Ravel] tenta di costruire un mondo perfetto, dove non esiste la noia. Dove non esiste molto cuore, dal momento che la realtà piace talmente poco a questo Orologiaio, che l’unico modo per scamparla è creare una forma dannatamente chiara. Una forma nuova perché, così com’è, il mondo non si può proprio vedere!».
(“Il monello, il guru e l’alchimista e altre storie di musicisti” di S. Bollani, Mondadori)
Alcuni sostengono che nasciamo tutti artisti, ossia “creativi”, anche se la parola “artista” la riserviamo a chi ha sviluppato la sua forma d’arte (di un certo tipo, tra l’altro). È una idea ragionevole, in fondo siamo stati creati da un artista, dallo stesso artista che ha creato i tramonti.
Questa idea mi è utile per ragionare di persone comuni partendo da quanto ho letto su Ravel, che non era una persona “comune”.
Mi ricordo che, al liceo, non ci facevano leggere le biografie dei filosofi. Si studiava Platone, per dirne uno, senza conoscere la sua vita. In questo modo si riduceva Platone al suo pensiero, che sembrava a tutti noi alunni che fosse nato dal nulla e che poggiasse sul nulla. Niente, in realtà, accade così.
Ma che tipo di legame esiste tra la vita di un “artista” (o di un filosofo, o di un ragioniere) e le sue opere (o il suo agire manifesto)?
Esistono persone nelle quali la vita e le opere si parlano costantemente. Tu leggi, per esempio, un romanzo e ne riconosci l’origine nella vita del suo autore, vita che conosci personalmente o di cui hai letto in qualche sua biografia. In questo caso l’opera risente delle imperfezioni del suo autore, che non possono che essere presenti al suo interno, contiene giudizi sul mondo e mostra sentimenti.
Esistono poi altre persone che, attraverso le loro opere, vogliono veicolare “messaggi”, obbligandosi (non necessariamente per ingannare, magari solo perché lo ritengono giusto) a somigliare alle loro “opere” diventando, per così dire, anch’essi “pubblici”.
In questo caso sia l’opera, sia la vita dell’artista, diventano strumentali al messaggio (come il povero Platone, secondo il mio professore di filosofia), “costrette” ad essere in sintonia con il messaggio
Ma nessuno è un messaggio e quindi sorge un problema: come si fa a dare vita, carne, a un messaggio, se uno è per forza di cose “diverso” dal messaggio che vuole trasmettere? Si fa usando la vita degli altri.
Gli altri diventano strumenti necessari, che l’artista frequenta come un ladro frequenta le camere d’albergo, per rubare frasi, o scene, “compatibili” con il proprio messaggio (che è la cosa più importante di tutte, per questo genere di artista). Poi, con la sua tecnica, carica il suo “bottino” di immagini suggestive e iperboliche, seducenti, creando un ambiente artificiale in cui il centro di tutto è l’artista stesso, che diventa come Dio creatore.
C’è una alternativa all’«usare» la vita degli altri ed è osservarla sinceramente tutta intera – voglio dire senza portarsi appresso “messaggi” in cerca di casa e senza volerla riassumere in “messaggi” o “casi morali” – e poi descriverla così come viene.
Anna Karenina, per dire, è una storia, un racconto, ed è fatto così. Se uno avesse voluto scrivere un romanzo per condannare l’adulterio (o per giustificarlo “nel caso in cui”) sarebbe venuto fuori un romanzo moralistico in cui ogni cosa sarebbe stata obbligata a servire questa idea, questo messaggio. Tolstoj invece ci fa entrare in una casa e, alla fine della lettura, uno non si porta appresso il “messaggio” di Tolstoj, ma tanti messaggi che ognuno ricava da una lettura sincera di una realtà possibile. Perché Tolstoj non vuole forzarti in una direzione: ti ha solo raccontato una storia. Come devi vivere non te lo dice Anna Karenina, rimangono fatti tuoi.
Infine esiste Ravel (e quelli come lui).
Ravel è un uomo che ha avuto una vita complessa ed è un uomo che ha bisogno di certezze, di riposo, di equilibrio, e, per farlo, si costruisce un mondo con la sua musica. Tale mondo non esisterebbe se la sua vita fosse stata diversa e quindi, indirettamente, ci parla sempre della sua vita, essenzialmente però di quello che gli è mancato. Non vuole insegnare al mondo la perfezione, Ravel, con la sua musica e non vuole essere imitato. La sua musica gli serve per respirare. Non è il suo paradiso: non vuole costruire il paradiso degli uomini, nessuno può farlo. Però, senza quel mondo perfetto, dentro la sua vita difficile si sentirebbe perduto.
Quindi, per Ravel, la sua opera è un’oasi di “perfezione” in un mondo “imperfetto”. Non ha messaggi, se non il suo desiderio di felicità che non trova nei suoi casini quotidiani e che “risolve” presentando a tutti un mondo diverso, eterno, che non è semplicemente il mondo di prima depurato dai suoi vizi: è un mondo che va “riscritto”, con criteri diversi, non si sa bene da chi. Un mondo nuovo, che ha un senso chiaro e una felicità certa.