Articoli / Blog | 05 Giugno 2017

FarodiRoma – Se la Champions fa cancellare la Veglia di Pentecoste

“Una domanda la vorrei fare: secondo lei è giusto cancellare in parrocchia la Veglia di Pentecoste, appuntamento fisso di ogni anno, a causa della partita di Champions? Perchè io vorrei dire al parroco, uno molto aperto, che aver messo la partita al posto dello Spirito Santo non è stata un’idea molto condivisibile”. È uno dei tanti messaggi e mail che mi sono arrivati oggi dopo la finale di ieri a Cardiff.

Non credo fosse la ripicca di una signora anti-juventina: piuttosto è lo sconcerto per qualcosa che non si capisce. Non penso però che il parroco sia “anti Spirito Santo” come dice la mittente, credo piuttosto abbia sofferto una sorta di “horror vacui”. È stato attanagliato dalla paura di rimanere con la Chiesa vuota, i giovani tutti davanti alla Tv, e lo spauracchio di quattro vecchine a scaldare i banchi. Come affrontare il crampo della sconfitta “come prete” che in quel caso ti attanaglia le viscere?

Per chi non lo sapesse, devo premettere che la Veglia di Pentecoste non ammette stratagemmi organizzativi. Il suo orario non è flessibile come per qualsiasi altra pia riunione: la Veglia di Pentecoste, come quella di Pasqua, si può fare solo la sera del sabato che precede la domenica di Pentecoste. Insomma, sì, c’era solo il 3 giugno dalle 21.00 in poi: l’orario della partita. Chiarito questo, sconsiglio, per vincere il crampo da horror vacui, di ripetersi che lo Spirito Santo avrà più audience del Real Madrid. È molto probabile che ciò avvenga ma non è la strategia vincente. Ho un caro amico – Carlo Climati – che ieri sera ha avuto ottimi ascolti a quell’ora su Radio Maria (e non parlava di calcio). Ma la strada per sconfiggere la paura della sconfitta, del buco, della morte, del vuoto, del deserto, non è immaginarsi che sconfitte, buchi, assenze e vuoti non avvengano.

È invece molto importante darsi la possibilità di entrare in quella sconfitta, di viverla: perché la sconfitta fa parte della vita e fuggire da essa significa dire che il valore che attribuiamo alle nostre azioni dipende dal successo che esse hanno. È vero: il valore di alcune nostre azioni dipende dal riscontro positivo che esse incontrano ma non vale per sempre e per tutto. Se vendo hamburger è chiaro che è importante capire se il mio pubblico preferisce quello con la senape da quello col formaggio, ma questo non è vero per quelle azioni che decidono l’identità della mia vita, del chi sono io. Io non sono “chi sono” in proporzione al successo che incontro. Nessuno di noi dipende dai like, come non dipende dalla promozione sul lavoro, e neppure dall’amore di chi dovrebbe amarlo ma non lo ama più.

Se le ore della Veglia di Pentecoste fossero state davvero importanti per don Guido (nome di fantasia) tali sarebbero rimaste anche se fosse stato assolutamente da solo. Anzi, paradossalmente, la sua azione avrebbe comunicato il proprio senso alla comunità parrocchiale molto meglio con la sua solitudine, con il suo insuccesso, che con il pienone della chiesa. Quanto sto affermando viene prima dell’esplicito discorso religioso: è chiaro che lo Spirito Santo vale più di Ronaldo ma, a ben vedere, non è questo il punto.

Non è il focus della questione perché sul territorio di una parrocchia pochi credono allo Spirito Santo ma moltissimi non sanno attribuire valore al proprio tempo e alla propria vita. Che senso ha, se non questo, il bisogno malato di dipendere ogni istante dalla notifica sullo smartphone, dal like del social, dalla e-mail cui posso benissimo non rispondere?

Don Guido che celebra da solo in Chiesa la Veglia allo Spirito Santo dice – al di là della sua Fede nel Paraclito – che crede a ciò che fa, che ritiene le sue scelte importanti, che quella decisione più o meno remota di essere colui che è (prete, in questo caso, ma potrebbe essere qualsiasi altra decisione identitaria cosciente e libera) non dipende da nessun altro se non da se stesso. E per questo, a partire da quel “sapere chi è”, può donarsi ad altri e diventare erogatore di senso, ovvero di felicità.

Tratto da FarodiRoma