Mauro Leonardi – Sara
“Posso andare a giocare a casa della Simona Peverelli?”, chiese Sara alla mamma. “E’ già un po’ tardi”, disse la mamma senza guardare l’orologio. “Poi rimango lì a dormire.” “Rimani lì a dormire?”, la guardò la mamma. “Proprio non so se il papà vuole. Oggi è sabato e lui è a casa. Lo sai che vuole che stiamo tutti insieme almeno il fine settimana”. “Uh, ciao Rita…”, cambiò il tono di voce mentre si interrompeva e rispondeva al telefonino uscendo dalla cucina. Sara si appoggiò all’incavo del muro e cominciò a contare coprendosi gli occhi con un braccio. Per stare bella comoda, la mamma si era messa di là in soggiorno a parlare con la sua amica. Si era seduta sul divano azzurro e aveva poggiato i piedi sul tavolino sfilandoli dalle pantofole. Sara aveva messo la testa fuori dalla cucina per guardare dov’era la mamma e aveva visto la sua bella sagoma nera in controluce. Era d’inverno e il sole tramontava presto. Non c’erano tende. Si vedevano i rami nudi degli alberi e il cielo rosa e blu. Sopra i termosifoni l’aria calda tremolava leggera. Sara non la vedeva bene perché il sole le veniva negli occhi. La mamma parlava dolcemente e ogni tanto si voltava da una parte per ascoltare meglio. “Non guardare!”, squittì Sara alla mamma correndo rumorosamente nel soggiorno e andandosi a nascondere sotto la finestra tra il divano e il termosifone. La mamma aveva avuto un soprassalto e poi si era diretta verso di lei attraversando il soggiorno. Sara la vedeva mentre, sempre al cellulare, passava tra il tavolino e la poltrona venendo verso di lei. Poi sembrò cambiare idea e si fermò in piedi, rigida. “Sul serio?”, esclamò e per un po’ rimase lì in silenzio. Adesso non era più la sua bella mamma di prima ma un’altra signora che le assomigliava solo un po’. Molto seria. Sara fece mezzo giro intorno al divano, riattraversò carponi il soggiorno e si stese sul parquet a pancia in giù senza respirare, dietro la poltrona in fondo. Sbirciando al di sotto, vedeva i piedi della mamma che erano rimasti scalzi. La mamma era ferma in mezzo alla stanza e guardava soprapensiero a destra e a sinistra per cercare Sara, ma sempre attenta a quanto diceva l’amica. Adesso si stava allontanando di nuovo, riattraversava il soggiorno e si metteva a cercarla dall’altra parte, dove stava prima. Guardava dietro il divano. Proprio dove Sara le aveva detto di non guardare. Viste da sotto, le foglie grandi del filodendro sembravano a Sara le mani di un povero che chiedono l’elemosina. Doveva essere molto povero perché le dita erano più di cinque. Le contò. Uno, due, fino a nove. Sì, dovevano essere nove, anche se Sara non era molto sicura perché uno dei lobi della foglia era molto piccolo e forse contarlo come dito non valeva. Il ficus invece stava lì bello lucido e impettito. Consuelo spolverava le foglie tutte le mattine quando faceva il giro delle pulizie. Però Sara adesso è già stufa di stare dietro la poltrona. Vede passare la mamma al di là del divano; “già, già… certo… assolutamente…” borbottava. Girava, ma non guardava in basso dov’era lei e quindi anche se passava vicinissima non la vedeva mai. La mamma appariva e spariva al di là dei piedini dei divani e delle poltrone, e ogni tanto si fermava a osservare qualcosa. Poi andò nello studio in fondo e passò oltre le tende di velluto rosso. Aveva sciolto il nodo a fiocco che le tratteneva e queste si erano chiuse come un sipario, senza fretta. Sara se ne accorse perché non sentì più la voce della mamma. Sbirciò di nuovo sotto il divano, guardò, ma la mamma non era più lì. Delle voci che ridevano, passarono correndo lungo la strada privata che fiancheggiava la villa. Sara si mise sulle punte dei piedi e vide dei bambini. Li seguivano due o tre signore che parlavano tra loro. Avevano la faccia da mamme che accompagnano le figlie alla feste delle Simone. Poi sparirono in fondo alla stradina. Allora Sara uscì da dietro la tenda e attraversò il piccolo studio d’angolo, guardandosi intorno. Andò nel corridoio e guardò dietro le porte e dietro altre tende, poi fece il giro delle scale per salire di sopra. Vide la mamma quasi dentro l’enorme armadio a muro dei vestiti. Era chinata e non poteva vederle il volto. Prendeva degli abiti, se li appoggiava lungo il corpo, poi si curvava a guardarne altri. “Sono qui” disse Sara, ma la mamma non la sentì perché era dentro, quasi nel fondo. “Sono qui” gridò Sara facendole segno con la mano. Ma in quel momento la mamma era voltata dall’altra parte e misurava l’orlo di una gonna. Sara si accovacciò tra la sporgenza dell’armadio e il muro, dietro il mucchio di abiti che la mamma stava accumulando su una poltroncina. Da lì non poteva vedere nulla. Sentì dei passi e pensò che fosse la mamma. I passi si fermarono a poca distanza dal mucchio, poi si allontanarono di nuovo e sparirono in fondo al corridoio. Sara mise fuori la testa e vide solo Consuelo. Poi il soprabito della mamma apparire e sparire al di là di una pelliccia. “Eccoti, Consuelo, finalmente!” sentì la voce della mamma. “Ma dove l’avevi messo quel soprabito?”. Si chinò per guardarlo bene e si accorse di Sara. “Sara…” disse. La sua voce sembrò a Sara molto lontana. “Posso andare alla festa della Simona Peverelli?”. “Ti ho già detto che lo devi chiedere al papà”, ribadì con decisione la mamma. “Consuelo!” ordinò “porta Sara dal signor René perché gli deve chiedere una cosa”. Consuelo sorrise alla bambina. “Prendimi” gridò Sara, mettendosi a correre in direzione opposta. Consuelo fece tutto il giro del mucchio di vestiti e, passando per un’altra stanza, sbucò davanti alla bimba. Abbassò gli occhi e guardò Sara. Sara cercò di nascondersi di nuovo dietro una colonna, ma non fece abbastanza in fretta perché Consuelo la vide e si mise a correre verso di lei. Sara allora sgattaiolò giù per le scale, lungo il corridoio che portava all’ufficio del papà. Correva più forte di Consuelo perché uno dei vestiti che stava trasportando le si impigliava tra le gambe. Quando Sara arrivò nella zona della casa dove c’era la stanza di Consuelo, invece di passare oltre entrò. Il cuore le batteva forte perché era proibito. Sopra il lenzuolo della stanza di Consuelo c’è un copriletto di lana fatto a mano, a scacchi rossi gialli e verdi, che viene dal Venezuela, Caraibi, Caribe. Sopra il tavolo brilla sommesso Nelson, una cornice elettronica comprata a poco prezzo. Nelson è il nome cromato di una marca sconosciuta e senza dignità. René l’ha comprato per Consuelo proprio per il personaggio illustre che evoca. Forse con quel nome d’ammiraglio, aveva pensato, può essere il cannocchiale che Consuelo usa per guardare il mondo da lontano. Nelson non è un granché, è solo una cornice elettronica con un software da niente che mostra le immagini preferite da Consuelo. Adesso per esempio Sara vede la foto di una spiaggia bianca bagnata da acque trasparenti e cinta dalla foresta tropicale. Non sono di un atollo qualsiasi, ma di Aruba, Caribe, l’isolotto di dieci chilometri dove c’è Chichù il chiosco di Consuelo e Gregorio. Eccolo adesso il primo piano del chiosco di legno con la tettoia di foglie di palma e i bottiglioni gelati di orzata, menta e limone, le granade classiche che piacciono agli europei come René. Quel signore con la barba e il sorriso buono è Gregorio e la bimbetta con cui parla è Isabel, Isabeu, la loro figlia di sette anni. Nella foto ne ha cinque, come Sara adesso, e i segni della malattia ancora non si vedono. Ama il rosa, i cuori e le foto di cuccioli, e sicuramente sta facendo al papà una domanda molto intelligente. Dalle foglie del chiosco, Nelson passa alle foglie degli ombrelloni sulla spiaggia bianca. In particolare c’è quello di René che come tutti i turisti ricchi vuole molto vuoto attorno. I signori europei hanno molto bisogno di spazio e di silenzio per riposare. Fanno un lungo viaggio in aereo, due ore da Milano a Amsterdam, e poi altre otto. Ed ecco Consuelo. Consuelo è quella della foto. Anche lei ama il rosa però preferisce il fucsia. Nella scrivania sotto Nelson c’è un cassetto. Basta aprire quello, per capire tante cose di Consuelo. Lì ci sono dei quadernini fucsia dove Consuelo scrive tutto quello che non riesce a dire attraverso Skype a Gregorio e a Isabeu. I quadernini non sono pochi perché sono quasi due anni che lavora da René. René era un tipo simpatico, un cliente alla mano, uno pischiatra di origine olandese che da tanti anni abita in Italia. Era molto conosciuto per i suoi studi su il tempo e la presenza in famiglia. Un suo bestseller per esempio si intitolava Come esserci veramente nella vita di chi si ama. Un giorno Gregorio gli aveva confidato che Isabel, la loro Isabeu, è malata. E’ asmatica. Per lei respirare non è scontato. E’ allergica a tutto ma non in modo regolare. Quello che è innocuo oggi potrebbe non esserlo domani. René un giorno si era avvicinato a Chichù per l’aperitivo. Hola Gregorio, aveva detto. Buon giorno dottor René. Hai la faccia stanca. Questa notte non abbiamo chiuso occhio. Come mai? E’ per via di Isabeu. E’ asmatica. Per lei respirare non è scontato. E’ allergica a tutto ma non in modo regolare. Quello che è innocuo oggi potrebbe non esserlo domani. René aveva alzato gli occhi su Isabeu che in fondo al chiosco era intenta al suo gioco. Anche Isabeu aveva alzato gli occhi su René e aveva sorriso. Isabeu è una bambina tonda. Bella. Tondi gli occhi, tondo il naso, tonda la bocca, tonda le guance e tutto il viso. René le aveva sorriso di rimando. E’ piccola, aveva detto a René. Sì, ma è un po’ più piccola perché prende tanto cortisone. A volte, quando fa caldo, si gratta anche di notte e con Consuelo dobbiamo vegliarla per non permetterle di ferirsi. L’ultima notte è stata lunga. Ha tutti i segni nell’incavo dei gomiti, dietro le ginocchia e all’inguine, perché si gratta a sangue. Vieni qui Isabeu, il signore è un dottore. E aveva mostrato Isabeu a René. Abbiamo bisogno di tanti soldi dottore, perché in Venezuela ci si può curare solo nelle cliniche private, gli ospedali per ricchi. Ho bisogno di lavorare per guadagnare. Posso venire da te a Milano, dottore? E’ per curare Isabeu. Cosa sai fare Gregorio? Tutto. Per loro, la loro spiaggia era quelle delle tartarughe. Una lingua di spiaggia di pochi metri tra due pareti alte, e in mezzo una roccia affiorante che sembrava il dorso di una tartaruga. Lì ci venivano davvero le tartarughe giganti in certi momenti dell’anno e a sentirle bene, mentre si trascinavano, facevano chi-chù chi-chù. Era lì che avevano deciso il nome del loro chiosco, era stato lì. Era stato quando avevano deciso di sposarsi. Il giorno dopo quel colloquio però, René aveva detto a Gregorio che a Milano non ci voleva lui ma la moglie. Consuelo aveva detto subito di sì. Non capisco perché non vuoi. Non capisco perché non vuole che vada io. Non ha bisogno di te. Ha bisogno di me. Gregorio guarda Consuelo. Per che cosa? E’ questo che mi fa paura. Non hai capito? Ha bisogno di un’ assistente. Una persona che gli tenga in ordine l’ufficio ma anche la casa e sua moglie non può farlo perché ha un altro lavoro. Ci vuole una donna. Non è vero. Potrei benissimo farlo anch’io. No, da loro questo lavoro può farlo solo una donna. Questo mi preoccupa. Lui ti vuole perché sei donna. Adesso è Consuelo a guardare René. Non sarai geloso? Non sono geloso, sono preoccupato. Ma Gregorio, mormora sommessamente Consuelo, non vedi che el señor René è sposato? Quella donna non c’entra con René. Non è la sua donna. Che ne sai? Queste cose un uomo le capisce subito. Sai quanto ci dà? Ci paga tutta la cura per Isabeu. Sono tantissimi soldi. Sono troppi soldi anche per un olandese che abita a Milano. Sono troppi soldi per il lavoro che ti chiede di fare. Un’ assistente non si paga così. Sai bene com’è andata. Il prezzo è la terapia di Isabel. Lo so benissimo. E questo mi fa ancora più paura. Ma perché devi sempre pensare male?, alza la voce Consuelo allontanandosi dal marito. Sei stato tu a parlargli di Isabeu. Adesso Nelson mostra Consuelo e Gregorio che sono in piedi l’uno davanti all’altro. Il blu dell’acqua laggiù è diverso dal blu del cielo. C’è una linea sottile. Vicino a riva è verde. Poi bianca per via della sabbia. E poi un ricciolo dove si spezza l’onda, un risucchio, un laghetto di un istante, l’acqua tra i granelli, ed ecco Consuelo e Gregorio. Consuelo è dolce e poggia una mano sul braccio del marito. Sara scopre che sotto il letto di Consuleo è proprio un bel nascondiglio. Si stende immobile. Sente un cane abbaiare là fuori in strada. Vede i piedi di Consuelo ferma in mezzo alla stanza. La sta cercando o sta pensando qualcosa? Poi si gira e torna sui suoi passi. Forse va via anche lei come la mamma, pensa Sara. Allora esce e fa per andarle dietro, sta per gridare “aspettami” ma qualcosa la blocca e la spinge di nuovo sotto il letto. Consuelo è di spalle ma davanti a lei c’è René. “René…” dice a suo padre. Sara non sa perché, ma quella parola la fa stare ancora più zitta. Adesso vede Consuelo, ma all’indietro. E poi le scarpe di suo padre. “René…” ripete Consuelo e suo padre non si arrabbia. La sua paura sa una cosa che però non può dire a Sara. Solo la mamma chiama così René. “René” ripetè Consuelo a bassa voce e poi con voce squillante, come chi scommette, grida “esci Sara ti ho visto!”. Sara capisce. Il gioco è cambiato. E sguscia da sotto. René è immobile per la sorpresa. Poi davanti a lui si materializza una via d’uscita. Sulla scrivania, accanto a Nelson, c’è il fascicolo di una sua conferenza. “La stavo cercando da tutto il pomeriggio”, dice. “Te la sei scordata qui…” mormora Consuelo. “Sei matta? Chi ti ha dato il permesso di darmi del tu?” la fulmina René. Poi, rivolto a Sara “E tu oggi non vai da nessuna parte. Il fine settimana si stà in famiglia.” E se ne va. Sara è in piedi e Consuelo accanto a lei, in ginocchio, singhiozza. Alla parete sopra il letto c’è La Virgen de Coromoto. “Papà si è arrabbiato perché vengo qui?”. “Tu vieni qui, amore, che mi salvi la vita”.