Blog / Lettere | 18 Marzo 2017

Giovanni Marcotullio – Ma quale Gesù, don Leonardi… Per piacere!

A fini di documentazione pubblichiamo questo articolo di Giovanni Marotullio, caporedattore de La Croce di Mario Adinolfi

Per molto tempo ho taciuto,
ho fatto silenzio, mi sono contenuto;
ora griderò come una partoriente,
mi affannerò e sbufferò insieme.

Is 42,14

Reverendo don Mauro,
come sa mi sono sempre astenuto dall’entrare in polemica con Lei, malgrado spesso io mi sia ritrovato a dissentire dalle Sue affermazioni. L’ho fatto soprattutto per riguardo ad alcuni nostri amici comuni, i quali vorranno ora perdonarmi (spero) per le cose che vado a dirLe. Nulla di personale, ma come sta scritto:

A tante parole non si darà risposta?
O il loquace dovrà aver ragione?
I tuoi sproloqui faranno tacere la gente?
Ti farai beffe, senza che alcuno ti svergogni?

Gb 11,2-3

E sì che ne ho visti, di preti vanesî che si venderebbero l’anima per un pugno di clic! Ne ho incontrati a dozzine, sì, di consacrati narcisisti che bighellonano tutto il giorno tra i social network e gli studî televisivi, tempestando gli sventurati follower di selfie con questo famoso giornalista o con quella discussa attrice. Conosco piuttosto a fondo l’ambiente, dovrei averci fatto il callo… e in effetti sono passati parecchi anni dall’ultima volta che mi sono scandalizzato per i vizî di un ecclesiastico. Perlopiù miserie comuni di cui non vale la pena stupirsi, figuriamoci scandalizzarsi: non mi abituo ancora, invece, a quello smalto di affettata religiosità con cui si vorrebbero camuffare certi affetti disordinati da “afflato pastorale”. Il prete che va a prostitute sulla Salaria in laicis commette un peccato tanto più visibilmente turpe dell’etereo tarlo della mondanità spirituale, ma in una cosa resta molto migliore di quegli altri: sta semplicemente assecondando un affetto disordinato, non intende illudere né sé stesso né altri di essere intento ad “opere di apostolato”. Dio mi perdoni se sbaglio, don Mauro, ma non credo di essere temerario nel dirlo: Lei è uno di questi preti mondani. E se vuole che Le affidi un’intenzione per la Sua messa di domattina, come un paio di ore fa chiedeva ai Suoi follower su Twitter, Glie ne offro una che mi sgorga calda dal cuore, la prenda sul serio: offra la Messa per la Sua conversione.

Il famigerato “odore delle pecore”, che il Papa raccomanda come distintivo di un buon prete, Lei non ce l’ha. L’ho seguita e l’ho osservata da vicino: niente. Vedo in Lei un’incontrollata smania di protagonismo mediatico (che nasconderà non so cosa: ne parlerà col Suo confessore e col Suo analista, immagino) inglobata in una narrazione irenista cui sta sottesa una selezione staliniana dei giri da frequentare. Anche per questo Le dico da qui, da casa mia, quello che penso della Sua inqualificabile scelta odierna, quella di ospitare la “lettera” di Andrea Rubera: sono troppi gli amici che mi hanno confidato di essersi visto censurare il commento dalla Sua benevola mano. Non mi dica che li ha censurati perché “offendevano”, non sia spudorato fino a questo punto!

Sul «blog inclusivo che minimizza gli aspetti divisivi presenti nelle relazioni» Lei ha potuto permettere a un personaggio come Rubera, che dire divisivo è poco, di esporre al pubblico dileggio il volto e il nome di un libero e incensurato cittadino, attaccato frontalmente in ragione delle sue convinzioni etiche, politiche e religiose. E ha pure avuto la faccia tosta di mandare a dire a Danilo Leonardi (la persona di cui sopra) che il Suo blog era a disposizione per un’eventuale replica. Ora io non so decidermi se siano arie da Eugenio Scalfari o da Maria De Filippi, quelle che Lei si dà, ma di sicuro il nome del Suo blog non c’entra nemmeno da lontano. Ovviamente Danilo Leonardi ha rispedito al mittente la Sua proposta (ed è stato garbato!): al Suo ego avrebbe fatto piacere ricevere l’implicito riconoscimento della “legittimità della corte”… ma il Suo “piccolo blog” (ah, queste compiaciute false modestie paramanzoniane!) non è un tribunale che una persona sensata e libera possa accettare. Di certo non trovandovisi trascinata da un compratore di bambini.

Sì perché, vede don Mauro, mentre dice di voler comprendere e accogliere tutti, Lei (come altri Suoi confratelli in cerca di plausi) non è mai sembrato interessato a comprendere e ad accogliere quanti si ritraggono disgustati da strutture di peccato come quelle costruite da Rubera e dal suo compagno De Gregorio: tanto sdegno sarà davvero fomentato dallo sciovinismo politico di alcuni militanti del Popolo della Famiglia (altro bersaglio della “lettera” di Rubera)? Se fossimo così influenti, ne converrà, saremmo (già) al governo del Paese… Ma chiunque vede che non è questo il caso.

Quindi come Le è mai saltato in mente di scrivere: «Nel 2009 si sono sposati in Canada»? Ma davvero dobbiamo prendere sul serio quella carnevalata per credere alla quale loro stessi sono i primi a doversi sforzare? E davvero vorrebbe giustificare la Sua sciagurata iniziativa di dar spazio a una simile provocazione con la foglia di fico del “la Chiesa italiana come accoglie questi tre bambini?”. Mi dica che non Si aspetta realmente di essere preso sul serio, quanto a questo!

Lasci che le risponda a mia volta ricordandoLe una cosa che accadde nella nostra Roma ormai trent’anni fa. Era stato emanato un documento dalla Congregazione per la Dottrina della Fede: Donum Vitæ aveva il delicato compito di affrontare dal punto di vista etico e teologico alcuni problemi che le biotecnologie avanzanti cominciavano a sollevare. Tra queste c’erano i problemi inerenti alla crioconservazione degli embrioni umani prodotti in laboratorio: per ogni fivet se ne producevano da cinque a dieci, alcuni venivano impiantati e altri congelati – che fare con questi? Scongelarli e impiantarli? Usarli per la sperimentazione? Darli in adozione prenatale e impiantarli quindi negli uteri di altre donne? Buttarli via? Il documento – Se lo ricorderà – non riusciva a dare risposte, anzi quasi non toccava il problema, con grande delusione di molti. Come dicevo, era il 1987 e io avevo appena tre anni, ma forse Lei era a Roma, quel giorno d’inverno, ed era andato alla presentazione in Gregoriana: forse era pure seduto accanto a Mark Attard, il mio docente di morale sessuale (da cui ho appreso l’aneddoto, peraltro sfuggito alle cronache). Alla conferenza stampa era attesissimo il “prefetto di ferro”, il Panzerkardinal che stava rivoluzionando l’ex Sant’Uffizio: Joseph Ratzinger. Un religioso lo introduceva commentando le parti del commento. A quest’ultimo i giornalisti presenti posero insistentemente la domanda sugli embrioni: «Ma quindi nel documento non c’è niente a riguardo?» «Come potete non prendere posizione?». Finché Ratzinger – il mitissimo bavarese – prese di forza il microfono ed esclamò (all’incirca): «Ora basta! La Chiesa non è responsabile della situazione degli embrioni crioconservati, l’ha sempre avversata. Non potete chiederle ora di porvi un rimedio!».

Una risposta incompleta, ne convengo, e forse anche frettolosa. Dovette pensarla così anche lo stesso Ratzinger, perché nel ventennale della Donum Vitæ volle aggiornare il punto, e lo fece fare ai suoi fidatissimi William Levada e Luis Ladaria. Nel nuovo documento, Dignitas personæ, quella repentina e viscerale replica dell’ex prefetto risultò meglio illustrata:

Occorre costatare, in definitiva, che le migliaia di embrioni in stato di abbandono determinano una situazione di ingiustizia di fatto irreparabile. Perciò Giovanni Paolo II lanciò un «appello alla coscienza dei responsabili del mondo scientifico ed in modo particolare ai medici perché venga fermata la produzione di embrioni umani, tenendo conto che non si intravede una via d’uscita moralmente lecita per il destino umano delle migliaia e migliaia di embrioni “congelati”, i quali sono e restano pur sempre titolari dei diritti essenziali e quindi da tutelare giuridicamente come persone umane».

Dignitas personæ 19
(il discorso citato è quello ai partecipanti al Simposio su “Evangelium vitæ e diritto” e al XI Colloquio internazionale romanistico canonistico – 24 maggio 1996)

“Una situazione di ingiustizia di fatto irreparabile”. Ecco la risposta che meriterebbe la Sua domanda “la Chiesa italiana come accoglie questi tre bambini?”, sempre se alle domande cretine toccassero mai risposte sensate. I bambini sono innocenti, certo, però si trovano in una situazione di immane confusione, e questo non può essere negato. Se ora chi ha già approfittato della povertà di una donna tenta di suscitare sentimenti di superficiale pietà in noi, usando quelle creature come grimaldello per estorcerci la frase “sì, va tutto bene, avete agito secondo diritto e giustizia”, mi pare chiaro che a questi individui non si deve risposta alcuna. Ma dico, Le risulta che viviamo nello scisma di Novaziano, che siamo tra Donatisti, tra Giansenisti? Che razza di stupido quesito pone? Mi creda, smetto di credere nella Sua buona fede ma Le salvo almeno il raziocinio, affermando che questa domanda è per Lei una mera foglia di fico.

Perché peraltro la situazione di Artemisia, Cloe e Iacopo, non è neppure “irreparabile” – non quanto quella degli embrioni congelati, almeno. La madre di questi bambini esiste, grazie a Dio, e con buona pace dei suoi due sfruttatori non è un “concetto antropologico”: se Rubera e De Gregorio avessero coscienza del gravissimo vulnus da loro deliberatamente inferto a questi innocenti, e se volessero fare ammenda, una riparazione (ancorché parziale) sarebbe ancora a portata di mano.

E invece no. Loro non vogliono ammettere di essere dei proletaristi, cioè due che hanno lavorato trent’anni per fare soldi sufficienti a comprare tre bambini, e i cattivi saremmo noi? Guardi che qui, se ci penso troppo, non riesco a salvarLe più neanche il raziocinio. Davvero Le pare che il problema sia “come verranno accolti in Chiesa?”.

Rispondendo a Mario Adinolfi, che comprensibilmente è intervenuto per difendere politicamente il partito (poiché era stato attaccato da Rubera), Lei ha voluto scrivere:

Potrà da solo verificare che sul blog ci sono moltissimi interventi di convincimento profondamente diverso da quello di Andrea Rubera, e vicinissimi o anche totalmente sovrapponibili a quelli del PdF.
[…] Ribadisco per altro che sarei felicissimo di ospitare gli interventi del mio quasi omonimo: e aggiungo per lei che, da parte mia, non c’è nessun “colpo su colpo” a cui ribattere ma semplicemente un dialogo da portare avanti.
Lei, come Andrea, ci racconta la sua vicenda personale: quella del suo primo matrimonio. Come saprà bene la Chiesa ha felicemente cambiato la pastorale – la pastorale, non la dottrina – rispetto a situazioni simili alla sua. Amoris Laetitia ne è un esempio. Nella meditazione di Santa Marta del 8 maggio 2013 Papa Francesco diceva: ” io ricordo quando ero bambino si sentiva nelle famiglie cattoliche, anche nella mia: “No, a casa loro non possiamo andare, perché non sono sposati per la Chiesa, eh”. Era come una esclusione. No, non potevi andare! O perché sono socialisti o atei, non possiamo andare. Adesso, grazie a Dio, no, non si dice».” Quindi, quando Papa Francesco era giovane – ma anche ai miei tempi giovanili – per lei non ci sarebbe stato nessuno spazio. Ora invece, grazie al Cielo, di spazio ce n’è, e abbondante.
[…] Nel frattempo, Adinolfi, se vuole le posso dire cosa mi aspetto io: mi aspetto che accada per lui e per i suoi figli qualcosa di simile a quanto accaduto per lei.
La questione della lettera di Rubera è “come” e “se”, in pratica, i figli possano essere educati nella chiesa. Non è una questione di principio: è una questione pratica. Ci ha raccontato di aver trovato un bravo parroco, del Buon Pastore, che gli ha detto che avrebbe fatto di tutto “ma che non poteva garantire per i fedeli”. Ecco di questo io, come prete, mi preoccupo. Perché Cristo, prima che il Papa, mi dice che dobbiamo essere inclusivi: come lo siamo stati per lei dovremmo esserlo anche per loro. Invece, non sempre è così. In un articolo su L’Huffington Post del 30 luglio 2015 raccontai come, nei fatti, non in linea di principio, nei fatti, il battesimo venne rifiutato.
Da allora, in soli due anni, le cose so che stanno cambiando. E molto. E in meglio.
Questo piccolo blog è una goccia nel mare. Se vuole c’è spazio anche per lei. A testa alta, se è la posizione che preferisce.
Non so se c’è nel Vangelo questa espressione ma sono sicuro che a nostro Signore va bene lo stesso.
Lui è inclusivo.

In ordine dunque Le faccio osservare:

  1. O Lei è davvero convinto di essere il presidente della Rai o dovrà pur capire che giocare a ospitare tutto e il contrario di tutto, nascondendosi dietro al dito della “linea editoriale aperta” (quando poi l’indirizzo è invece ben più che chiaro), non è pluralismo – è paraculismo.

  2. Chiaramente sarebbe felice di ospitare gli interventi di Danilo Leonardi (dopo averlo messo alla gogna senza neanche preavvisarlo!): tanto basta che la polemica vada avanti e i clic si moltiplichino… complimenti!

  3. Il riferimento alle posizioni personali di Adinolfi (risponde lui per sé, io contesto il senso dialettico dell’argomento) è totalmente gratuito: Adinolfi non ha mai rivendicato niente, in merito, e non per un’ansia di espiazione ma perché sa e crede che non sarebbe una sentenza rotale a cancellare il disordine di un legame spezzato. Nella sua vita e in quella dei suoi cari.

  4. Quello che il Papa dice è che all’epoca non si poteva andare a trovarli per non dare approvazione sociale alla loro condizione, non che oggi si può affermare che i due sarebbero realmente sposati: solo che Lei da una parte dice «cambia la pastorale, non la dottrina!», e dall’altra considera “sposati” perfino Rubera e De Gregorio. Cf. supra, n. 1.

  5. Lei come prete si preoccupi un po’ meno delle cose su cui non può far nulla, come ad esempio le questioni peregrine su “come la gente accoglierà questi bambini?”. Le do una notizia: Lei non è un opinion maker, è solo utile a qualche testata che usa le Sue banalità in quanto le dice uno col clergyman. Si preoccupi invece delle cose rispetto alle quali può fare qualcosa: per esempio, se vuole un consiglio, non si faccia un punto d’onore di recare scandalo e confusione tra i fedeli ogni giorno.

  6. Il battesimo, Le ricordo, può essere procrastinato in mancanza delle condizioni necessarie (sulle quali d’altro canto si è sempre potuto discutere). È sempre stato così. Stia sereno: non sarà Lei a cambiare questo.

  7. Nel Vangelo (visto che vogliamo vivere “come Gesù”) non trovo neanche un loghion che raccomandi “l’inclusione” – anzi, sono innumerevoli quelli del tenore di “chi non raccoglie con me disperde” –; però in compenso si descrivono alcune posizioni assunte da Gesù in momenti cruciali della sua esistenza teandrica. Penso in particolare a Lc 9,51b («[…] καὶ αὐτὸς τὸ πρόσωπον ἐστήρισεν τοῦ πορεύεσθαι εἰς Ἰερουσαλήμ»): se non vuole leggerlo nel senso di una mutazione coriacea della cute di Gesù, deve proprio ammettere che, sì, Gesù ci mostra come incontro al destino si debba andare «a testa alta».

La lascio infine con le parole di un’amica, una che conosce le nostre materie e i nostri ambienti, una che ha pagato in prima persona la ferma fedeltà a Pietro, in questo tempo confuso. Non badi a me, se vuole: io sono cattivo, divisivo e aggressivo, come ha potuto constatare. A Claudia, invece, dedichi un po’ di attenzione.

Caro padre Mauro Leonardi,
è un bene che si interroghi sull’accoglienza nella Chiesa Cattolica dei bambini nati dall’utero in affitto (questo è il termine, padre). Di più: è un bene che si interroghi non solo riguardo ai bambini, ma anche riguardo a quelle persone che vanno a comprarseli all’estero (sì, è così). Perché, in fondo, padre, il vero problema non è tanto l’accoglienza dei bambini, quanto quella degli adulti che li hanno voluti a tutti i costi. Riguardo a loro, agli adulti, il nostro modello d’accoglienza dovrebbe essere quello del Padre buono, che non attende che il figlio chieda scusa, gli va incontro appena lo vede, lo abbraccia e lo perdona. C’è un’opera di Sieger Köder – ispirata proprio alla parabola lucana (cf. Lc 15, 11-32) – in cui il figlio è avvolto da questo abbraccio paterno e chiude gli occhi, come rapito in uno stato di beatitudine dopo la sofferenza. Tutte le volte che, invece di abbracciare come il Padre, insultiamo e dileggiamo, ci siamo allontanati da questo modello (anche se usare lo screenshot dei commenti sui social – dove spesso la tensione sale alle stelle – per mostrare quanto gli altri siano poco caritatevoli non è il massimo della carità).

Al tempo stesso, però, tutti noi conosciamo l’antefatto di quell’abbraccio: il figlio rientra in se stesso (cf. Lc 15, 17). Nella lontananza dal Padre, tutto quello che sembrava libertà ha rivelato il sapore amaro della schiavitù. Il figlio accetta umilmente di rientrare in famiglia, dopo aver sperimentato – a sue spese – che l’amore e la vita sregolati (in tutti i modi in cui possono esserlo) imputridiscono l’anima. Molti di noi l’hanno provato, come quel figlio: è stato necessario cadere per capire. E ci ha fatto sentire bene che la Chiesa fosse lì, con quel suo abbraccio caldo, sicuro, sovrabbondante nell’amore.
Perché non vada sprecato, però, si accompagna all’accettazione da parte del figlio (di noi figli) del vestito più bello e dell’anello al dito. Cioè della nuova condizione di vita: l’amore di Dio ci cambia. «Sei diventato nuova creatura e ti sei rivestito di Cristo. Questa veste bianca, sia segno della tua nuova dignità: aiutato dalle parole e dall’esempio dei tuoi cari, portala senza macchia per la vita eterna» (dal Rito del Battesimo dei bambini): viene detto ai bambini, ma non perde valore con gli adulti, neanche con quelli che sbagliano.
Il Padre, nella parabola lucana, non segue il figlio nella sua vecchia vita; non cambia il nome ai peccati da lui commessi per normalizzarli. Non propone un’accoglienza al ribasso, venendo incontro a quei desideri che già una volta hanno condotto il giovane all’infelicità. Né il figlio lo chiede: «Non sono più degno di essere chiamato tuo figlio» (Lc 15, 19) è una straordinaria professione di umiltà. Tutte le volte che dalla Chiesa pretendiamo che cambi per i nostri desiderata, dobbiamo chiederci se quell’abbraccio, poi, avrà lo stesso potere rigenerante. Questo vale per me, per lei, per ognuno.

Un saluto in Cristo.

Claudia Cirami

Tratto da giovannimarcotullio.com

 

18 marzo 2017