Blog / Sandokan | 11 Febbraio 2017

Le Lettere di Sandokan – Garpez

– «Cos’è ‘sta roba? Scusate ma … 170 milioni per questa merdina qua? Ma dai, è una follia!».

– «Ma che follia, che follia!? Ma lo sai che questo qui è un Garpez, uno dei più grandi scultori viventi?».

«Ma scultore che cosa? Ma guarda che il mio falegname con trentamila lire la fa meglio, vah, non ha neanche le unghie!».

– Lo sai come so’ fatti ‘sti artisti… Mezzi drogati, mezzi froci… ma comunque, se ‘more, la gamba fa un sarto, uno zompo, e va a trecento milioni! Ma che sto a di’, a te, che nun capisci niente, su!

Mi è tornato in mente questo dialogo di un film, l’altro giorno, mentre, passeggiando, pensavo ai pochi momenti che ho passato con Vittoria, qualche ora, e a quello che ci siamo scritti – in pubblico e in privato – in questi anni, raccontandoci cose che mi sono andato a rileggere, dopo la sua morte, perché le avevo dimenticate: non erano cose importanti, non avevano neanche le unghie!

Avevo lasciato l’auto lontano dal centro e camminavo un po’ di fretta per la via principale della mia città: temevo che piovesse ed ero senza ombrello. Ogni tanto mi fermavo e chiacchieravo con qualcuno di mia conoscenza che incrociavo e che non aveva voglia di risolvere quella casualità con un ‘ciao’ e basta, con qualcuno che non sapeva che il negozio dove ero diretto stava per chiudere e io dovevo restituire un buono d’acquisto di una lampada da tavolo, che alcuni amici mi avevano regalato per il mio compleanno.

Arrivai in tempo. La lampada l’avevo già ritirata da qualche giorno e così consegnai il “buono” e feci per uscire, ma il negoziante mi fermò: «Aspetti, metto un timbro e glielo ridò, ci sono le firme dei suoi amici e forse lo vuole tenere».

Non lo volevo tenere, ma dissi di “sì”, perché mi sembrò giusto comportarmi così, non mostrarmi insensibile ai suoi occhi. Tra qualche tempo finirà nella spazzatura, lo so, ma per qualche giorno, grazie alla frase di un negoziante sconosciuto, una cosa da niente – un cartoncino stampato con un po’ di firme – rimarrà a occupare spazio a casa mia.

Uscendo dal negozio, ripensai improvvisamente a tutta la gente che avevo incontrato per strada pochi minuti prima, alle cose che ci eravamo detti. E poi alle vetrine che avevo fissato, ai volti degli sconosciuti che avevo incrociato, ai marciapiedi bagnati e alla bellezza del Teatro comunale illuminato. E dissi tra me e me: «Se tu morissi domani qualcuno si ricorderà di tutto questo: che ti aveva parlato proprio il giorno prima, per esempio, e cercherà di ricordare cosa tu gli avessi detto. Doveva essere qualcosa di importante, questo si dirà, perché poco dopo sei morto e non potrai dire più nulla a nessuno. Si sentirà lui “importante”, perché forse le ultime cose che avevi da dire nella vita, le hai dette a lui. Magari era solo un comunissimo ‘Ciao, come stai?’ e però era l’ultimo e ci si attaccherà come se gli avessi recitato l’Infinito di Leopardi. E lo andrà a dire in giro, a regalarsi importanza con una cosa da niente che, morendo, tu gli hai regalato. Però devi fargli il favore di non morire come muoiono tutti: che almeno possa indicare la tua foto sul giornale». Pensavo questo e sorridevo, con un po’ di malinconia. Perché io sono allegro e malinconico, e non ci posso fare nulla.

Camminando diedi un’occhiata allo smartphone, come faccio spesso. Una tipa aveva condiviso su Facebook un articolo di un quotidiano: “Meningite, insegnante ricoverata a Milano: è in gravissime condizioni”. E poi il suo commento: «Una notizia impersonale, come quasi tutte quelle che si leggono quotidianamente sui giornali. Quando, tuttavia, la notizia assume il volto preciso di una persona cara al tuo cuore, tutto cambia».

Sì, tutto cambia: risorgono le parole e fatti, che non possono essere più seppelliti da parole e fatti più importanti. Anche le gambe senza unghie. Almeno per un po’. Poi la vita va avanti e le cose si fanno lontane e ritornano in fondo ai cassetti, come i vestiti di quando uno era bambino. Ma certe cose rimangono per sempre ‘come allora’, proprio per il fatto che non possono ripetersi, neanche per finta. Forse la resurrezione, questo mi veniva da pensare, inizia subito con cose piccole così, abbastanza normali in fondo, che non stupiscono nessuno.

Mi è sempre sembrata molto bella una poesia di Roberto Lerici, che Proietti recitava in un suo famoso spettacolo tanti anni fa. Parla di un ragazzo morto giovane – era partigiano e giocava nella Roma primavera – che appare a suo figlio in sogno, dopo molti anni, con il desiderio di sapere da lui come è continuato tutto, dopo la sua morte, e se tutti fossero felici.

Lo sai, da quanno mamma s’è sposata

co’ mi’ padre, che invece è er mi’ patrigno…

credo sett’anni dopo la tua morte… –

 

A ‘ste parole ho visto che strigneva un poco l’occhi,

come quanno se sta ar sole troppo forte.

– Scusa papa’, credevo lo sapessi –

Ma lui, ridenno senza facce caso,

spavardo, spenzierato, m’ha risposto:

 

Ma che ne so io de quello che è successo,

io so’ rimasto come v’ho lassato,

quanno giocavo, giocavo, giocavo…

giocavo a calcio e mica me stancavo,

giocavo co’ tu madre e l’abbracciavo,

giocavo co’ la vita e nun volevo …

Qui comunque c’è tutta la poesia recitata, se vi facesse piacere ascoltarla