L’ultima Lettera di don Andrea Santoro – I fili d’erba crescono anche nella steppa

Oggi è l’anniversario della morte di don Andrea Santoro, martirizzato a Trabzon, in Turchia, il 5 febbraio 2006. Pubblichiamo questa che è la sua ultima lettera. L’ha resa nota sua sorella Maddalena che l’ha consegnata ad Avvenire. La lettera, terminata circa 10 giorni prima di venire ucciso era indirizzata a tutti gli amici. L’anno scorso, per i dieci anni della morte di don Andrea, avevo scritto due articoli: uno su Huffington Post e l’altro su Ilsussidiario

Carissimi,
voglio cominciare con delle cose buone, perché è giusto lodare Dio quando c’è il sereno, e non soltanto invocare il sole quando c’è la pioggia. Inoltre è giusto vedere il filo d’erba verde anche quando stiamo attraversando una steppa.

Ecco dunque alcuni fili d’erba verde. Qualche giorno prima di rientrare in Italia, nell’ora della visita in chiesa si è presentato un folto gruppo di ragazzi piuttosto vocianti e rumorosi. Ci sono abituato: per ottenere silenzio e rispetto basta avvicinarsi, ricordare loro che la chiesa è, come la moschea, un luogo di preghiera che Dio ama e in cui si compiace. Un gruppetto di 4-5 ragazzi, sui 14-15 anni mi si sono avvicinati e hanno cominciato a farmi domande: «Ma sei qui perché ti hanno obbligato?». «No, sono venuto volentieri, liberamente». «E perché?». «Perché mi piace la Turchia. Perché c’era qui una chiesa e un gruppo di cristiani senza prete e allora mi sono reso disponibile. Per favorire dei buoni rapporti tra cristiani e musulmani…». «Ma sei contento?» (hanno usato la parola mutlu che in turco vuol dire felice). «Certo che sono contento. Adesso poi ho conosciuto voi, sono ancora più contento. Vi voglio bene». A questo punto gli occhi di una ragazza si sono illuminati, mi ha guardato con profondità e mi ha detto con slancio: «Anche noi ti vogliamo bene». Dirsi «ti vogliamo bene», dentro una chiesa, tra cristiani e musulmani mi è sembrato un raggio di luce. Basterebbe questo a giustificare la mia venuta. Il regno dei cieli non è forse simile a un granellino di senape, il più piccolo di tutti i semi? Lo getti e poi lo lasci fare…E non è forse vero che «se ami conosci Dio» e lo fai conoscere e se non ami, quand’anche possedessi la scienza o parlassi tutte le lingue, o distribuissi i beni ai poveri, non sei nulla ma solo un tamburo che rimbomba?

Un altro filo d’erba. Una sera verso gli inizi di dicembre, ero in strada con il mio pulmino. Dovevo girare, ho messo la freccia e ho cominciato a voltare. Veniva una macchina velocissima. Ha dovuto frenare per non investirmi. Uno è sceso e ha cominciato a urlare. Conoscendo l’irascibilità dei turchi, soprattutto se sono ubriachi, ho proseguito, temendo brutte intenzioni. Mi sono accorto che mi inseguivano. Arrivato in piazza mi hanno sbarrato la strada. Mi sono trovato con la portiera aperta, uno che mi ha sferrato un pugno, un altro che mi strappava dal sedile e l’altro ancora che voleva trascinarmi. Ho portato il segno di quel pugno per qualche giorno e la spalla, tirata, che a volte mi fa ancora male. È intervenuta la polizia: erano ubriachi ed è stato fatto un verbale a loro carico. Me ne sono tornato a casa stordito, chiedendomi come si potesse diventare delle bestie. Mi sono venuti in mente i litigi in cui ci scappa un morto, le violenze fatte a una ragazza sola, il divertimento sadico ai danni di qualche povero disgraziato. Devo dirvi la verità: ho avuto paura e per qualche notte non ho dormito. Continuavo a chiedermi: perché? Come è possibile? Una settimana dopo, verso sera, hanno suonato al campanello della chiesa. Sono andato ad aprire, erano tre giovani sui 25-30 anni. Uno mi ha chiesto: «Si ricorda di me?». Ho guardato bene e ho riconosciuto quello che mi aveva tirato per la spalla. «Sono venuto a chiederle scusa. Ero ubriaco e mi sono comportato molto male. Padre mi perdoni». «Va bene, gli ho detto, stai tranquillo. Ma non farlo più, per chiunque altro». Poi mi hanno chiesto di visitare la chiesa. Continuava a chiedermi scusa ad ogni passo. Ha visto una pagina del vangelo esposta nella bacheca: «Amate i vostri nemici» e allora ha capito perché lo avevo perdonato. Poi mi fa: anche da noi c’è un detto: «Getta i fiori a chi ti getta i sassi». Quindi ha continuato: «Abbiamo avuto un incidente qualche giorno dopo che l’avevamo picchiata. La macchina è rimasta distrutta, uno è ancora in ospedale e noi due siamo ammaccati. Da noi si dice che se uno fa del male a una persona e poi muore non può presentarsi a Dio. Perché Dio gli dice: è da quella persona che dovevi andare. Da voi padre è la stessa cosa?». «Anche noi diciamo che non basta rivolgersi a Dio, ma che bisogna riparare il male fatto al prossimo. Diciamo però anche che se l’innocente offre il suo dolore per il colpevole, questo ottiene da Dio il perdono per chi ha fatto il male, come Gesù che ha offerto la sua vita innocente per salvare i peccatori. Gesù si è fatto agnello per i lupi che lo sbranavano e ha pregato: Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno. Con la sua croce ha spezzato la lancia». A quel punto hanno guardato la croce. Il terzo che era con loro era un mio vicino di casa, che aveva loro indicato la chiesa e si era fatto loro mediatore. Era felice di mostrare loro la chiesa e di aver ottenuto la riconciliazione col prete che conosceva. C’è scappato anche un invito a cena, al ritorno dall’Italia. Vedremo se il pugno ha fruttato anche un bel piatto di agnello arrosto!

Qualche altro filo d’erba? Un venerdì in chiesa un gruppo di ragazzi è stato particolarmente maleducato e strafottente. Altri tre, più grandi, assistevano da lontano. Alla fine mi hanno chiesto di parlare. Con molta educazione hanno fatto ogni genere di domande, ascoltando con rispetto le mie risposte e facendo con garbo le loro obiezioni. Ci siamo salutati. La mattina seguente un giovane ha suonato: ho riconosciuto uno dei tre. Mi ha consegnato dei cioccolatini: «Padre, accetti il mio regalo. Le chiedo scusa per quei ragazzi maleducati di ieri».

Un’altra volta entrano due ragazze: «Padre mi riconosce?», mi fa una. «Si, certo!». «Lei una volta mi ha detto che Gesù non ha mai usato la spada, è così?». «Sì, è così». «Maometto – mi fa – l’ha usata è vero, ma solo come ultima possibilità…». «Gesù – le rispondo – neanche come ultima possibilità. Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi, disse, e lui stesso s’è fatto agnello per guadagnare i lupi. Se contro la violenza usi la violenza si fa doppia violenza. Male più male uguale doppio male. Ci vuole il doppio di bene per arginare il male. Se scoppia un incendio che fai? Butti legna?». «No, acqua». «Ecco, appunto. Ma non è facile. Questo però è il vangelo. Nelle mani di Gesù non c’è la spada, ma la croce…». Mi ha seguito attenta, ma frastornata. Perché mi meraviglio? Quanti cristiani sono non solo frastornati, ma neppure guardano più la croce? Non colgono più la sapienza, la forza, la vittoria della croce. Si sono convertiti alla spada: nella vita pubblica e in quella privata. Se lo fa un musulmano in fondo non è strano: segue il suo fondatore. Ma se lo fa un cristiano non segue il proprio Fondatore, anche se ha croci da ogni parte, al collo, in casa e su ogni campanile.

Un altro filettino verde delicato. Sull’aereo, di ritorno da una riunione col vescovo a Iskenderun, c’erano accanto a me due anziani coniugi e una giovane ragazza, elegante e carina. I due anziani erano piuttosto malmessi e inesperti. La ragazza con molta delicatezza ha sistemato ad entrambi la cintura, si è piegata a terra a raccogliere alcune cose cadute, si è prodigata in ogni modo, non con rispetto ma con venerazione. Lui continuava a sgranare il suo rosario musulmano, accompagnando le mani con le labbra che pronunciavano i 99 nomi di Dio. Lei al suo fianco, muta e col velo sul capo, dava l’idea di sentirsi contenta accanto al suo bravo marito in preghiera.

Ora vi faccio intravedere qualcosa della steppa in cui mi è faticoso a volte camminare, ma in cui volentieri do tutto me stesso, cercando di essere io stesso un filo d’erba, anche se a volte mi sento una rosa piena di spine pungenti. Quando avverto che per difendermi dalle spine tiro fuori le mie, mi rimetto sotto la croce, la guardo e mi ripropongo di seguire il «mio» Fondatore, quello che non usa né spada né spine, ma ha subìto e l’una e le altre per spezzare la spada e toglierci le spine del risentimento, dell’inimicizia, dell’ostilità. Gli chiedo di farmi grazia del «suo» Spirito per tenere a bada il mio.

Cominciamo dai bambini. Accanto a quelli sorridenti, affettuosi, rispettosi si è intensificato in questi ultimi mesi un nugolo di lanciatori di sassi, di disturbatori, di «piccoli provocatori» di ogni genere. I bambini sono lo specchio del mondo degli adulti. A casa, a scuola, in televisione si dicono spesso di noi cristiani bugie e calunnie. Il risultato non può che essere lo scherno di quei «piccoli» che Gesù voleva a sé ma di cui metteva in guardia quanti li «scandalizzano» cioè quanti sono per essi «motivo di inciampo e di induzione al male». Mi sono ricordato di quando da bambino sentivo «parlare male» dell’unica famiglia protestante del mio paese o di quando sentivo dire che «tutti i turchi fanno cose turche». Il male che si riceve, a volte ti rimette sotto gli occhi il male fatto anche se dimenticato. In altri momenti mi tornano in mente le parole di Giobbe sofferente, figura della passione di Gesù: «Tutto il mio vicinato mi è addosso… anche i monelli hanno ribrezzo di me… mi danno la baia…» (Giobbe 18,7 e 19,18). Stiamo studiando una strategia ancora maggiore di affabilità e accoglienza, di silenzio, di sorriso, di persuasione.

Una famiglia di musulmani diventati cristiani prima che io arrivassi a Trabzon, mi ha parlato del pianto dei suoi bambini a scuola quando si diceva ogni sorta di male dei cristiani. Ne hanno parlato con l’insegnante ricevendo le scuse e un impegno di maggiore onestà e correttezza.

Un padre di famiglia, registrato musulmano sul documento di identità (in Turchia sulla carta di identità è annotata la religione), desidera ritornare alla fede cristiana dei suoi antenati. Ma si scontra con gli insulti e le minacce di alcuni del suo villaggio. «Se mi assalgono e io rispondo sono ancora cristiano?», mi chiedeva preoccupato e pensoso. «Sì – gli rispondevo – perché il Signore capisce la tua debolezza. Ma ricordati che a noi cristiani non è lecito ‘l’occhio per occhio e dente per dente’. Noi siamo discepoli di Colui che porta le piaghe su tutto il suo corpo e che ha detto a Pietro: ‘Rimetti la spada nel fodero…’. Contro il peccato Gesù ha eretto come baluardo il suo corpo sacrificato e il suo sangue versato. Il cristianesimo è nato dal sangue dei martiri, non dalla violenza come risposta alla violenza’.

Un giovane che per motivi sinceri e retti si era accostato alla chiesa non ha resistito all’ostilità degli amici, dei familiari, dei vicini di casa e alle «premure» della polizia che pur garantendogli piena libertà («la Turchia è uno stato laico, sei libero», gli hanno detto) gli chiedeva comunque perché andava, cosa accadeva in chiesa e se conosceva tizio e caio…

Una signora cristiana di nazionalità russa, sposata con un musulmano e madre di un bambino, mi raccontava le angherie della suocera, il disprezzo dei parenti perché «pagana e idolatra», e le ripetute spinte a divenire musulmana. Appena ha letto, entrando in chiesa, una frase scritta in russo, gli si è rischiarato il volto. Le ho dato una Bibbia in russo e altri libri di preghiera sempre in russo. Si è sentita finalmente «libera» e davvero «sorella».

Consentitemi ora una riflessione a voce alta, alla luce di quanto vi ho raccontato. Si dice e si scrive spesso che nel Corano i cristiani sono ritenuti i migliori amici dei musulmani, di essi si elogia la mitezza, la misericordia, l’umiltà, anche per essi è possibile il paradiso. È vero. Ma è altrettanto vero il contrario: si invita a non prenderli assolutamente per amici, si dice che la loro fede è piena di ignoranza e di falsità, che occorre combatterli e imporre loro un tributo… Cristiani ed ebrei sono ritenuti credenti e cittadini di seconda categoria. Perché dico questo? Perché credo che mentre sia giusto e doveroso che ci si rallegri dei buoni pensieri, delle buone intenzioni, dei buoni comportamenti e dei passi in avanti, ci si deve altrettanto convincere che nel cuore dell’Islam e nel cuore degli stati e delle nazioni dove abitano prevalentemente musulmani debba essere realizzato un pieno rispetto, una piena stima, una piena parità di cittadinanza e di coscienza. Dialogo e convivenza non è quando si è d’accordo con le idee e le scelte altrui (questo non è chiesto a nessun musulmano, a nessun cristiano, a nessun uomo) ma quando gli si lascia posto accanto alle proprie e quando ci si scambia come dono il proprio patrimonio spirituale, quando a ognuno è dato di poterlo esprimere, testimoniare e immettere nella vita pubblica oltre che privata. Il cammino da fare è lungo e non facile. Due errori credo siano da evitare: pensare che non sia possibile la convivenza tra uomini di religione diversa oppure credere che sia possibile solo sottovalutando o accantonando i reali problemi, lasciando da parte i punti su cui lo stridore è maggiore, riguardino essi la vita pubblica o privata, le libertà individuali o quelle comunitarie, la coscienza singola o l’assetto giuridico degli stati.

La ricchezza del Medio Oriente non è il petrolio ma il suo tessuto religioso, la sua anima intrisa di fede, il suo essere «terra santa» per ebrei, cristiani e musulmani, il suo passato segnato dalla «rivelazione» di Dio oltre che da un’altissima civiltà. Anche la complessità del Medio Oriente non è legata al petrolio o alla sua posizione strategica ma alla sua anima religiosa. Il Dio che «si rivela» e che «appassionatamente» si serve è un Dio che divide, un Dio che privilegia qualcuno contro qualcun altro e autorizza qualcuno contro qualcun altro. In questo cuore nello stesso tempo «luminoso», «unico» e «malato» del medio oriente è necessario entrare: in punta di piedi, con umiltà, ma anche con coraggio. La chiarezza va unita all’amorevolezza. Il vantaggio di noi cristiani nel credere in un Dio inerme, in un Cristo che invita ad amare i nemici, a servire per essere «signori» della casa, a farsi ultimo per risultare primo, in un vangelo che proibisce l’odio, l’ira, il giudizio, il dominio, in un Dio che si fa agnello e si lascia colpire per uccidere in sé l’orgoglio e l’odio, in un Dio che attira con l’amore e non domina col potere, è un vantaggio da non perdere. È un «vantaggio» che può sembrare «svantaggioso» e perdente e lo è, agli occhi del mondo, ma è vittorioso agli occhi di Dio e capace di conquistare il cuore del mondo.

Diceva S.Giovanni Crisostomo: Cristo pasce agnelli, non lupi. Se ci faremo agnelli vinceremo, se diventeremo lupi perderemo. Non è facile, come non è facile la croce di Cristo sempre tentata dal fascino della spada. Ci sarà chi voglia regalare al mondo la presenza di «questo» Cristo? Ci sarà chi voglia essere presente in questo mondo mediorientale semplicemente come «cristiano», «sale» nella minestra, «lievito» nella pasta, «luce» nella stanza, «finestra» tra muri innalzati, «ponte» tra rive opposte, «offerta» di riconciliazione? Molti ci sono ma di molti di più c’è bisogno. Il mio è un invito oltre che una riflessione. Venite!

Vi lascio ringraziandovi dell’accoglienza nelle tre settimane trascorse a Roma. Desidero ringraziare in particolare i tanti parroci romani e i responsabili di varie realtà studentesche che mi hanno invitato a tenere degli incontri o delle testimonianze.

Ringrazio Dio per quanti hanno aperto il loro cuore. Ma sia ancora più aperto e ancora più coraggioso. La mente sia aperta a capire, l’anima ad amare, la volontà a dire «sì» alla chiamata. Aperti anche quando il Signore ci guida su strade di dolore e ci fa assaporare più la steppa che i fili d’erba. Il dolore vissuto con abbandono e la steppa attraversata con amore diventa cattedra di sapienza, fonte di ricchezza, grembo di fecondità. Ci sentiremo ancora. Uniti nella preghiera vi saluto con affetto. Potete scrivere i vostri pensieri, fare le vostre domande, esprimere le vostre proposte. Insieme si serve meglio il Signore.

don Andrea
Roma-Trabzon 22 gennaio 2006

Prega per noi!