Articoli / Blog / Le Lettere dal carcere | 28 Dicembre 2016

Le Lettere dal carcere – Intervista a Carmelo Musumeci

Ci sono percorsi umani che hanno dell’incredibile. Storie come quella di Carmelo, cresciuto nella provincia catanese e divenuto oggi, tra mille sbarre e mille libri, un simbolo nazionale di riscatto spirituale e culturale.
Nato ad Aci Sant’Antonio, paesino della provincia di Catania, tre lauree (giurisprudenza, filosofia e sociologia), scrittore di sette libri (Gli uomini ombra, 2010; “Undici ore d’amore di un uomo ombra” e “Zanna Blu”con la prefazione di Margherita Hack, 2012; “L’urlo di un uomo ombra”, 2013; “L’assassino dei sogni”, 2014; “Fuga dall’assassino dei sogni”, 2015; “Gli ergastolani senza scampi”, 2016), amico di Marco Pannella ed un certificato di detenzione con scritto “fine pena anno 9999”. Lui è Carmelo Musumeci, ex boss di un gruppo criminale dedito ad omicidi, bische clandestine, estorsioni, traffico di armi e droga in Versilia. In carcere dall’ottobre 1991 e da qualche giorno in regime di semilibertà. Condannato, come altri 1400 circa detenuti in Italia, al cosiddetto “ergastolo ostativo” (art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, modificato dalla legge 356/92) ossia la forma più dura di detenzione prevista dalla Repubblica Italiana. Carmelo non ha mai vuotato il sacco su ex soci e sulle loro responsabilità, si è macchiato di tanti crimini ma ha tutta l’aria di uno che è rinato davvero. E non grazie al carcere. Di fiori nati dal letame, vale la pena ricordare altri ergastolani divenuti brillanti dottori. Spicca certamente la storia di Claudio Conte, super killer della SCU pugliese, laureatosi in legge con lode e menzione accademica con la tesi “Profili costituzionali in materia di ergastolo ostativo e benefici penitenziari”. Anche grazie a Nadia Bizzotto, volontaria presso la Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi, ho potuto rivolgere qualche domanda a Carmelo.

Ergastolo è una parola quasi onomatopeica. Nel pronunciarla si sente il rumore di una grossa chiave che gira e di una porta che si chiude violentemente. Dal latino “ergastulum”, derivato dal greco “ergastérion” ossia officina, casa di lavoro, dal verbo “ergàzomai” lavorare; l’etimologia del termine spinge a riflettere su come l’anima della stessa parola sia stata oggi stravolta o comunque cinicamente ribaltata. “Pena di schiavitù perpetua” la chiamava Cesare Beccaria, pur non condannandone totalmente l’uso e “Pena di morte viva” la chiama lei. Per alcuni una forma di vendetta sociale, per altri un discutibile metodo di recupero del detenuto, per altri ancora una legittima protezione della società civile che non si macchia di reati gravi. Molte le opinioni ma poche le descrizioni su ciò che avviene dentro un animo umano che vive una simile condizione. Passeggiare, leggere, mangiare e dormire. Si, questo accade più o meno in cella. Cosa accade però dentro l’animo? Che tempesta dentro un uomo chiuso a chiave per sempre?

Quello che accade nella testa e nel cuore di un uomo ombra l’ho raccontato in un libro scritto con il costituzionalista Andrea Pugiotto, dal titolo “Gli ergastolani senza scampo” (Editoriale Scientifica): “Alba. Lo ammetto. Il mio cuore è più coraggioso di me. In tutti questi anni di carcere lo ha continuamente dimostrato. E di solito si sveglia prima di me. L’ha fatto anche questa mattina all’alba. Povero scemo. Come al solito, quando si sveglia, è felice come un grillo. E ha iniziato a battermi nel petto come un forsennato. Come se dovesse andare da qualche parte. Tanta fatica per nulla. Neppure oggi andrà da qualche parte. E sarà così per sempre. Fino al suo ultimo battito. Ed è inutile che faccia finta di non sapere che questo suo nuovo giorno è già morto ancora prima di nascere. Mattino. Il mio cuore passa pochissimo tempo in cella con me. In fondo qui non ho bisogno di lui. Ci sono già io che basto e avanzo. Per questo lui al mattino mi lascia. E se ne va fuori. Io, purtroppo, non posso muovermi dalla cella. Il fortunato invece va dappertutto. E sta tutto il giorno fuori, libero. Il figlio di puttana torna da me solo alla sera. E incredibilmente il mio cuore è così furbo che l’Assassino dei Sogni non si accorge mai di nulla. Io, invece, non posso fare altro che trascorrere la mia vita in questo modo. Senza di me. E buona parte della giornata senza di lui. Sera. Finalmente è sera. E a quest’ora i miei pensieri bisticciano fra loro. Mi viene in mente che sono stanco di stare in carcere. E vivo, o anche morto, vorrei finalmente uscire. Spero vivo. Anche se è da folli aspettare un giorno che non arriverà mai. Notte. Ho paura della notte. Non posso però fare altro che aspettarla. Di notte è difficile che ti capiti qualcosa. Pensandoci bene, la cosa più brutta è proprio questa. La certezza che questa notte non mi capiterà nulla. Non ci sarà nessun terremoto. E questo maledetto blindato che ho davanti a me non si spalancherà fino a domani. Non posso fare altro che stare delle ore alle sbarre della finestra a guardare il buio. E a seguire i miei sogni.”

Lei non ha mai negato le proprie responsabilità, il proprio stile di vita di un tempo ed i tanti errori commessi. Ciò mi fa pensare ad un paradosso. Lei è passato da una condizione di prigione criminale mentale e libertà fisica ad situazione opposta. Oggi, cosa è per Carmelo la libertà?

«In realtà la libertà non la ho mai persa. Sono sempre stato un prigioniero libero e l’Assassino dei Sogni (il carcere così come lo chiamo io) non me l’ha mai perdonato, ma io ho perdonato lui.»

L’ergastolo ostativo resta una durissima forma di carcere nata, non a caso, in anni altrettanto duri per la Nazione. Anni di bombe, stragi, ricatti mafiosi e strade insanguinate.

«Rammento i lunghi anni trascorsi nel regime di tortura del 41 bis nell’isola degli ergastolani dell’Asinara. Spesso le guardie venivano ubriache davanti alla mia cella ad insultarmi. Mi minacciavano e mi gridavano: “Figlio di puttana.” “Mafioso di merda.” “Alla prossima conta entriamo in cella e t’impicchiamo.” Dopo mi lasciavano la luce accesa e andavano via dando un paio di calci nel blindato. Credo che sia giusto, se è attaccato, che lo Stato si difenda, ma lo deve fare dimostrando sempre di essere migliore di chi lo attacca. Con me, quand’ero sottoposto al regime di tortura del 41 bis (e con tanti altri prigionieri) non l’ha fatto. In quegli anni, incredibilmente, vedendo che i miei governanti e guardiani erano peggiori di me, ho deciso di “vendicarmi” cercando di diventare migliore di loro.»

Lei oggi combatte una guerra quotidiana, in una trincea piena di menti illustri che appoggiano in toto o quasi la causa. Qualcuno (anche qui, la schiera delle menti illustri non è sottile) storce il naso facendo riferimento al sangue sparso da mafie e terrorismo. Ha avuto modo di pensare ad un’alternativa credibile al carcere a vita? Un ragionevole ed equilibrata soluzione per chi è dietro le sbarre e per chi conduce una vita retta e virtuosa? Le cito Edward Bunker, scrittore ex criminale, “La questione non è se la prigione può aiutare, né se la sua condanna possa servire da deterrente per qualcun altro. Il punto fondamentale è quello di proteggere la società.”

«Il Carcere non protegge la società. La illude. Sembra incredibile, ma un certo tipo di “antimafia” produce mafia. I figli dei mafiosi vedendo come vengono trattati i loro genitori impareranno ad odiar le istituzioni e a loro volta diventeranno da grande dei mafiosi.»

Crede che un carcere possa riabilitare? Un carcere italiano può riabilitare? Riabilitare cosa?

«Il carcere non cambia le persone in meglio, piuttosto le distrugge e produce criminalità, probabilmente è stato creato per questo. Spesso chi conosce la mia storia e viene a sapere che sono entrato in carcere con la quinta elementare, che ho preso tre laure, che pubblico libri, che ho preso vari encomi, che svolgo attività di consulenza ai detenuti e agli studenti universitari nella stesura di tesi di laurea sul carcere e sulla pena dell’ergastolo ecc, mi chiede: “Quindi, Il carcere ti ha fatto bene?” Come odio questa domanda. Prima di rispondere penso ai pestaggi che ho subito all’inizio della mia carcerazione. Ricordo i compagni che si sono tolti la vita impiccandosi alle sbarre della finestra della loro cella, perché il carcere induce i più deboli alla disperazione. Rammento i lunghi periodi d’isolamento nelle celle di punizione dove sono stato, con le pareti imbrattate di sangue ed escrementi. Mi vengono in mente le botte che una volta ho preso per essere rimasto qualche secondo di qui fra le braccia della mia compagna nella sala colloqui. E di quando avevo dato di matto perché avevo trovato le fotto dei miei figli per terra, calpestate dagli anfibi delle guardie. Penso ai numerosi trasferimenti che ho subito da un carcere all’altro sempre più lontano da casa. Ricordo tutte le volte che venivo sbattuto nelle celle lisce perché tentavo di difendere la mia umanità. In quelle tombe non c’era niente. Nessuno oggetto. Neppure un libro. Non c’era nessuna speranza. Non vedevo gli altri detenuti. Li riconoscevo solo dalle grida e dal ritmo dei colpi che battevano sul blindato. Mi ricordo che avevano degli sbalzi di umore perché da un’ora all’altra piangevano e ridevano. No, non credo che un carcere così possa riabilitare.»

Rimpianto, malinconia, paura, speranza. Che colore hanno? Che forma? Che suono? Che canzone? Che ricordi? Che volto ha l’Assassino dei sogni, nome con il quale lei chiama il carcere?

«Mi trattavano come una bestia. E avevo disimparato a parlare e a pensare. Mi sentivo l’uomo più solo di tutta l’umanità. Per alcuni anni mi ero distaccato dalla vita, lentamente, quasi senza dolore. Non desideravo e non volevo più niente. Cercavo solo di sopravvivere ancora un poco. Mi sentivo già morto. E pensavo che non mi poteva capitare più nulla di peggio, ma mi sbagliavo perché non c’è mai fine al peggio. I giorni, le settimane, i mesi e gli anni passavano e io continuavo a maledire il mio cuore perché, nonostante tutto, lui insisteva ad amare l’umanità. M’inventai cento modi per sopravvivere. Alla fine ce l’ho fatta! Ma a che prezzo! Scrivevo per vivere e vivevo se scrivevo. A distanza di venticinque anni, mi domando a volte come ho fatto a resistere e non riesco ancora a darmi una risposta. Mi vengono in mente le ore d’aria trascorse nei stretti cortili dei passeggi,con le mura alte e il cielo reticolato, ghiacciati d’inverno e roventi d’estate. Ricordo gli eterni andirivieni, da un muro all’altro nei cortili, e dalla finestra al blindato nelle celle, pensando che solo la morte avrebbe potuto liberarmi. Ricordo i topi che mi giravano intorno, gli indumenti, i libri e le carte saccheggiate. Stringevo i denti per non diventare una cosa fra le cose. È difficile pensare al male che hai fatto fuori se ricevi male tutti i giorni. E ti consola poco capire che te lo sei meritato. È vero, bisogna pagare il male fatto, ma perché farlo con altro male? Se mi limitassi a guardare al solo carcere non posso non dire che non solo mi ha peggiorato, ma mi ha anche fatto tanto male. Quello che mi ha migliorato e cambiato non è stato certo il carcere ma l’amore della mia compagna, dei miei due figli, le relazioni sociali e umane che in tutti questi anni mi sono creato e la lettura di migliaia di libri, ed è proprio questo che mi ha aperto una finestra per comprendere il male che avevo fatto e così ho potuto avere una possibilità di riscatto. Molti non lo sanno, ma forse la cosa più terribile del carcere è capire che si soffre per nulla. Ed è terribile comprendere che il nostro dolore non fa bene a nessuno, neppure alle vittime dei nostri reati. Spesso ho persino pensato che il carcere fa più male alla società che agli stessi prigionieri perché nella maggioranza dei casi la prigione produce e modella nuovi criminali. Se a me non è accaduto è solo grazie all’amore della mia famiglia e di una parte della società.»

Se volete sapere qualcosa più di lui e della sua storia potete visitare il suo sito www.carmelomusumeci.com