Le Lettere di Nuccio Gambacorta – Il Posto di Dio
Riflessione sul Natale di Rocco Gambacorta, il fratello di Nuccio morto nel 2006
Natale bussa alle porte. Non mi voglio adeguare alla solita paccottiglia nè alle parole di augurio che passano nell’aria senza lasciare traccia. Di fronte al mistero che si fa Storia e si rinnova da millenni – pur in mezzo a idoli di menzogna partoriti da principati di tenebre – i pensieri si vorrebbero genuflettere come per una preghiera. Ma il tempo delle parole solo recitate o ascoltate non può più bastare: diventano di pietra se non hanno il calore del cuore, se non edificano la vita. Ed allora mi chiedo che posto occupi Dio nella coscienza, nello jato tra il tempo delle scelte e il tempo delle trasformazioni. E mi chiedo pure: c’è ancora posto per Dio entro i confini terribili del dramma umano? tra tempeste di fuoco di guerre e progrom e tra i martiri della barbarie violenta? tra i fanciulli perfino privati del diritto alla fantasia da un mondo ossessionato dai soldi e dal sesso? C’è ancora posto per Dio nel deserto di cemento, sotto la cappa di smog che ammorba l’aria in nome del progresso? Che posto avrà Dio negli esperimenti di laboratorio che progettano bambini in serie e madri in affitto per conto terzi? Che posto ci sarà per Dio tra i robot che elaborano realtà virtuali e fabbriche di sogni per solitari disperati di un mondo che, paradossalmente, ha perduto il sogno della bellezza naturale del creato? L’orgoglioso demiurgo che vive dentro il materialismo delle scienze sviluppa sempre più una ragione materialistica che finirà per impoverire l’uomo – magari si pensi il contrario – a vantaggio di un mondo dispotico dove regnano sovrane tecnologie e bio-ingegnerie che niente hanno di umano. E mi chiedo ancora quale sarà il posto di Dio alle soglie del terzo millennio. Lo abbiamo relegato ad un angolo buio nell’ipogeo della nostra esistenza dove non filtra mai il sole. Forse lo abbiamo cercato quando eravamo piccoli ma, ormai, fattici adulti e furbi, delusi di non ottenere risposte alle continue richieste indotte dai bisogni futili, gli abbiamo girato le spalle, pretendendo che Lui si rendesse meccanicisticamente disponibile come un computer programmato sui nostri desideri. Presuntuosamente abbiamo agito come se la Verità fosse un prodotto da supermarket che puoi comprare con quattro soldi, mentre non è neanche lontanamente un oggetto di possesso goduto una volta per sempre. Semmai è una luce che filtra dalla porta socchiusa che ci separa dal cerchio della visione eterna di noi stessi e di Dio, percepibile solo ad un atto di abbandono nell’incontro con la Misericordia. Senonchè, il posto di Dio non è nemmeno nel tranquillo dialogo, seduti sul sofà del nostro farisaico perbenismo, ma nel travaglio del turbamento che precede quell’abbandono nell’incontro e prepara la nostra metamorfosi. E mi sovviene, di fronte alla cronaca di tanti “pentiti” magari senza triboli di contrizione, la paradigmatica e universale figura dell’innominato e la sua crisi umanissima, quando s’avvede – “rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro, sotto le coperte divenute pesanti, pesanti” – che tutti i miti di una volta diventano gelo e morte, e si dibatte difronte all’ Eterno temendone il giudizio, mentre “il tempo gli si affaccia davanti vuoto d’ogni intento, d’ogni occupazione, d’ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili”. E la conversione, lì, non è certo un atto di mera prostrazione o di nuda contemplazione, ma la scelta di chi – superata e vinta la disperazione – ritrova nell’azione concreta il senso del “sè”, rinnovandosi radicalmente nel sentimento di giustizia e nella coscienza che per salvare l’uomo, bisogna riscoprire responsabilmente il colloquio con Dio, perchè se non c’è più Dio ( come assolutamente Altro ), non c’è più nemmeno l ‘ uomo ” ( Berdajew). Il posto di Dio è quindi nel linguaggio dei fatti che si realizzano con buona volontà quotidianamente liberandosi dall’equivoco dell’abito domenicale. Il nostro destino si consuma proprio tra opposte alternative: ritenere che l’unica via giusta sia l’esistente ( e dunque subirlo passivamente ) così come l’avvocato consigliava a Joseph K. nell’allucinante incubo narrato da Kafha ne “Il processo”, oppure tentare una risposta di virtù civili ed eroiche di fronte all’apologia della morte che vorrebbe obliterare – sull’onda di una maligna cultura nichilistica – l’amore per la vita. Agli “ideologhi della morte” va detto no ! da quelli che ammorbano i giovani all’angolo delle strade privandoli della bellezza e del futuro; a quelli che hanno sconvolto l’ambiente naturale; a quegli altri che tenterebbero con metodi subdoli e sbrigativi – col pretesto di un ripristino della legalità – di rovesciare la democrazia e restaurare metodi inquisitori alla Torquemada. Il posto di Dio è nel progetto sull’ amore che vinca l’indifferenza, riformulando un linguaggio della solidarietà e dello sviluppo armonioso ed equo che si faccia reticolo di laboriose comunicazioni ed attività umane e codifichi un sufficiente consenso sui valori della vita. Il posto di Dio è nella riscoperta di una norma morale ultima che dia piena giustificazione alla nostra società civile nel convincimento comune che un ordinamento statuale ha bisogno per reggersi, in fine, di rivolgersi ad altro da sè, ad un valore che abbia il proprio nucleo di centralità nella asserzione indiscutibile della dignità naturale di ogni creatura vivente. Il posto di Dio è nella stella polare che guida il processo del divenire, senza la quale si finirebbe per organizzare la terra contro sè stessi. Il posto di Dio è la speranza che si fa storia – pur in mezzo alle macerie -, Dio che si fa Storia, la Rivelazione che si fa Natale, la tematica del Mistero che squarcia le tenebre del nulla, dono della bontà divina ai semplici di cuore, testimoni di semplicità con il loro modesto presepe (eppure splendido per significazione e trasfigurazione simbolica), fatto con cinque vecchie statuine e il carillon della nonna che suona “Tu scendi dalle stelle”: E se anche il posto di Dio non è nei simboli che ci “legano” al Mistero, quanta importanza questi simboli hanno a partire dall’anello che – cingendo il tuo dito – ti lega liberamente ad altro da te per una promessa d’amore e fedeltà. Il posto di Dio è tra le madri e le spose, i figli e i vecchi e quanti attendono il mattino dopo una notte di tempesta, per cercare se sotto una zolla di terra sopravviva ancora una verde tenera piantina salvatasi dalla furia della grandine. Perchè credono – come credeva La Pira – che nonostante tutto, le stagioni si orientano verso l’estate, verso i giorni della maturazione, così come fa la storia. E perchè sono convinti che il nostro pianeta non sia solo il luogo dell’inutilità – dove incombe il tumulto della vita mortale che non conduce a nulla – ma una finestra che sai affaccia ad un mondo più vasto dove si rivela una “religione” di pace e di perdono, d’amore e di speranza, la quale – suprema categoria sul piano escatologico – lo è ancor di più sul piano storico, come virtù cristiana e civile. Il posto di Dio non è solo nel Natale, ma da questo Mistero bisogna pur ripartire, affinchè Lui – apparso che ci sia anche per un solo istante – possa illuminarci nel dono della sua Grazia. Il posto di Dio, infine, è nella libertà che ci libera dalla fredda corazza del nostro io ipertrofico e ci consente di scegliere, tra le tante possibilità rimesse al nostro arbitrio, quella che conduce in alto per il bene nostro e del nostro prossimo, espressione di carità fraterna secondo la mai superata esortazione agostiniana: Ama et fac quod vis. Il posto di Dio è nell’innocenza, perchè gli innocenti – parafrasando Emerson – possono fare le cose impossibili non sapendo che sono tali.