Articoli / Blog | 18 Dicembre 2016

Mauro Leonardi – Natale, grembo e misericordia

«Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli,Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram,Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmòn,Salmòn generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse,Iesse generò il re Davide. Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Uria,Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asàf,Asàf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia,Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Acaz, Acaz generò Ezechia,Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia,Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia.Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabèle,Zorobabèle generò Abiùd, Abiùd generò Elìacim, Elìacim generò Azor,Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd,Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe,Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo. La somma di tutte le generazioni, da Abramo a Davide, è così di quattordici; da Davide fino alla deportazione in Babilonia è ancora di quattordici; dalla deportazione in Babilonia a Cristo è, infine, di quattordici» (Mt 1, 1-17).

Il 17 dicembre, inizio della novena di Natale, è uno dei due giorni dell’anno in cui il sacerdote proclama la genealogia di Gesù secondo Matteo. Quel giorno sentiremo il sacerdote leggere «Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo…» (Mt 1,1) e dopo un po’, mentre quattordici generazioni passeranno, mentre passeranno le seconde quattordici prima dell’esilio di Babilonia seguite dalle quattordici dopo l’esilio, forse qualcuno comincerà a guardare l’orologio. A volte si pensa che la lettura di questo brano sia una lungaggine senza significato: mi è già difficile ricordare i nomi dei miei bisnonni, come può interessarmi quest’arido elenco? e così speriamo che il sacerdote lo legga di corsa o ne tagli qualche pezzetto. Ma solo a uno sguardo superficiale e poco formato biblicamente la genealogia di Gesù può apparire pleonastica: in realtà è colma di moltissime luci e di insegnamenti. E’ bellissima e piena di messaggi, frutto come è della sapienza divina. Lo sanno bene i biblisti, che lungo i secoli si sono cimentati nelle sue sfide, a volte risolte con tesi diverse, che però, se vengono lette nel loro insieme e come parti integranti, rendono questo “catalogo” ancor più affascinante. In questo articolo non possiamo riassumere neppure brevemente tutti i nodi scritturistici toccati dall’elenco offerto da Matteo; desideriamo però proporre delle suggestioni (dire “tesi” sarebbe dire troppo) che sgorgano dalla “lettura” della storia della salvezza che fa Maria quando dice nel Magnificat: “di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono” (Lc 1,50). Per Maria la storia della redenzione è la storia delle misericordie di Dio. E’ una misericordia che viene fin da Adamo, che si mantiene fedele alla promessa fatta “ad Abramo e alla sua discendenza per sempre” (Lc 1,55), che si diffonde di generazione in generazione e sfocia proprio in Lei ottenendo che tutte le generazioni la chiamino Beata (Lc 1,47). E, guarda caso, è appunto il giorno della Natività di Maria (l’8 settembre) quando la Chiesa chiede di leggere per la seconda volta la genealogia di Matteo. (Una terza possibilità di lettura di questo brano è data dalla liturgia proprio nella Messa vespertina della vigilia di Natale, il 24 dicembre).

Come è noto, il concetto di misericordia in ebraico è espresso attraverso più parole: hanan, che significa una costante predisposizione alla grazia e alla benevolenza; hamal, che significa risparmiare il nemico sconfitto; hus, che esprime pietà e compassione prevalentemente in senso affettivo; ma “misericordia” è soprattutto denotata da due vocaboli: hesed, con connotazione maschile, e rahamin, con connotazione femminile (Cfr Dives in misericordia, nota 2). Hesed ha in sé l’idea del volto misericordioso che si mostra a chi meriterebbe invece di essere punito: un po’ come un Re che fa grazia a un nemico o a un debitore. Hesed va letto insieme a ’emet che, a sua volta, indica l’essere fedeli a sé stessi, qualcosa come: “tu sei ancora peccatore e io invece sono ancora misericordioso, perché già lo sono stato e sono coerente”. Hesed e ’emet sono un’ endiadi cioè un unico concetto complesso che si esprime attraverso due parole: grazia e fedeltà. Una fedeltà però, che è soprattutto una coerenza al proprio onore: “l’ho detto e quindi mantengo la parola nonostante tu non la mantenga”, “sono fedele al mio amore perché ho una responsabilità verso me stesso”. Si tratta di un amore più potente del tradimento. Per tutte queste ragioni e per altre ancora, secondo la nota 2 dell’enciclica papale appena citata, con hesed si può parlare di una certa misericordia “al maschile”. Invece il secondo termine, rahamim, “già nella sua radice, denota l’amore della madre (rehem = grembo materno)” (ibidem). Con Ratzinger diciamo che «nell’Antico Testamento ebraico il compatire di Dio con l’uomo è espresso non attraverso un termine preso dall’ambito psicologico, ma, in armonia con la modalità concreta del pensiero semitico, viene designato con un vocabolo, che nel suo significato fondamentale indica una parte fisica del corpo, e cioè rahamim, che al singolare significa il grembo, il seno materno. In questo modo, (…) il grembo materno esprime lo stare vicino all’altro, e indica nel modo più profondo la capacità dell’essere umano di esistere per l’altro, di accoglierlo, di portarlo in sé e, nel portarlo su di sé, di dargli la vita. Con un termine preso dal linguaggio del corpo, l’Antico Testamento ci dice come Dio ci custodisca dentro di sé, ci porti in sé con amore compassionevole» (Ratzinger, Maria Chiesa nascente, p.67). Questo significa che le viscere di misericordia di Dio, sono uno stare vicino all’uomo in un modo così profondo da giungere ad una radicalità che, per essere compresa interamente, ha bisogno di essere connotata anche attraverso il riferimento al luogo della creazione in cui più è materializzato l’esistere per l’altro: il grembo materno.
Pertanto la riflessione che vogliamo proporre, è quella di un parallelo che ci sembra molto suggestivo: come Dio ha voluto che il concetto di misericordia nella Scrittura venisse illustrato soprattutto da due parole, hesed e rahamim, una più maschile e l’altra più femminile, così ha voluto che nella genealogia di Cristo, che è la storia delle misericordie di Dio, venissero ricordate anche delle donne, ottenendo in tal modo che anche lì si intrecciassero sia l’elemento maschile che quello femminile. E ciò contro la tradizione che voleva si ricordassero solo i maschi.

Per quanto riguarda hesed, è necessario dire che la storia delle misericordie di Dio è significata innanzitutto dalla presenza di molti peccatori che, per la misericordia di Dio, sono compresi nell’opera della redenzione che Cristo viene a realizzare. E’ una misericordia che si presenta come apicale nella libertà. Se guardiamo alla misericordia di Dio come a una fedeltà verso sé stessi, la misericordia di cui parliamo ci appare come una libertà sovrana e un amore sovrano. Dio ci sorprende nel fare ciò che non è nel parametro umano: Abramo invece di scegliere il primogenito Ismaele, figlio della schiava Agar, designa Isacco, il secondogenito, figlio della promessa, cioè della moglie Sara. Come è previsto Isacco sceglie il primogenito Esaù ma alla fine l’eredità passa a Giacobbe. Né Abramo né Isacco né Giacobbe sono peccatori, pertanto può essere non immediato riconoscere in questi atti delle azioni misericordiose. Ma la misericordia come noi la intendiamo si intreccia con la libertà di cui parliamo allorché Giacobbe benedice i dodici figli: Ruben, il primo nato, non riceve la benedizione del primogenito; né la riceve Giuseppe, il migliore di tutti, colui che ha perdonato i suoi fratelli e li ha salvati dalla fame in Egitto; né Beniamino, il più amato. Giacobbe benedice come fosse il primogenito Giuda, che in realtà è il quarto figlioquello che addirittura aveva deciso di lucrare sull’eliminazione di Giuseppe suggerendo agli altri fratelli di venderlo ai mercanti che andavano in Egitto (Cfr Gn 37, 26-27). Prima dell’esilio, a fronte della fedeltà misericordiosa di Dio, solo due sono stati i re fedeli a Dio: Ezechia e Giosia. Gli altri sono idolatri, immorali, assassini. In Davide, il più famoso di tutti, si intrecciano fedeltà, peccati, delitti: l’adulterio, l’assassinio, e il pentimento. E nel periodo dopo l’esilio, solo Salatiel e Zorobabele sono rimasti sempre fedeli al Signore: gli altri sono o pubblici peccatori o figure sconosciute. Sì, penso mentre prego, se sarò fedele alla mia vocazione, che mi è stata data da Dio per una Sua assoluta e libera scelta, non sarò solo io ad essere fedele a Lui ma sarà soprattutto Lui ad essere fedele a me, perché la mia fedeltà a Dio è una misericordia di Dio verso di me ancor più grande dell’elezione. E’ lì dove trionfa: «Egli solleva l’indigente dalla polvere, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i principi, i principi del suo popolo” (Sal 113, 7-8)». Amen. Perché eterna è la sua misericordia (cfr Sal 100,5;136). La misericordia di Dio è la storia della libertà di Dio che chiama per pura grazia e che dona la perseveranza.
Prima di passare a considerare come la misericordia “al femminile” si sviluppi lungo la genealogia, è necessario soffermarsi su una considerazione cui abbiamo già accennato. Nel leggere la breve sintesi delle genalogie che abbiamo proposto finora, sicuramente qualche lettore si sarà trovato a non condividere del tutto qualcuna delle affermazioni fatte. Per esempio, quando abbiamo detto che Giuda ha venduto il fratello “con fine di lucro” non abbiamo forse esagerato nel dare un’interpretazione negativa? Non si potrebbe dire che Giuda, vendendo Giuseppe, aveva in realtà in cuore il desiderio di salvarlo dalla morte? Sì, quest’altra lettura è possibile e, francamente, non ci sembra incompatibile con la precedente. Quante volte nella nostra storia personale avviene che le nostre decisioni siano mosse da più intenzioni, nobili e meno nobili, delle quali qualcuna, forse, è addirittura sconosciuta anche a noi stessi? La genalogia di Cristo è un’antologia di tali situazioni, e ci sono intere biblioteche che potrebbero supportare le diverse tesi. Ma a noi che siamo interessati alle suggestioni (vere, ma suggestioni) non importa in questa sede fare una disquisizione da biblisti, ma importa andare avanti e cogliere con un solo sguardo l’insieme per rallegrarci di come Dio conduca la Sua storia nell’affascinante storia umana intrecciandola, con le nostre miserie, i nostri sogni inconfessati, le nostre piccolezze e le nostre magnificenze.

Veniamo ora al versante femminile della genealogia di Cristo, quello che ha in rahamin, “misericordia” al femminile, la sua espressione, e che sarebbe manifestato dall’inserimento (o perlomeno dall’affiancamento) anomalo e rivoluzionario per gli usi del tempo, di cinque donne nelle dinastie: tre di loro peccatrici, una, Rut una straniera senza diritti, e la quinta, Maria, senza peccato. Desideriamo far presente innanzitutto che questa sottolineatura femminile ci sembra abbia un precedente in un’altra “genealogia” quella, meravigliosamente sui generis (infatti la genealogia normale è riportata in Es. 5, 14-30), di Mosé una delle principali figure di Cristo dell’Antico Testamento. «Il re d’Egitto disse alle levatrici degli ebrei, delle quali una si chiamava Sifra e l’altra Pua: “Quando assistete al parto delle donne ebree, osservate quando il neonato è ancora tra le due sponde del sedile per il parto: se è un maschio, lo farete morire; se è una femmina, potrà vivere”. Ma le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d’Egitto e lasciarono vivere i bambini. Il re d’Egitto chiamò le levatrici e disse loro: “Perché avete fatto questo e avete lasciato vivere i bambini?”. Le levatrici risposero al faraone: “Le donne ebree non sono come le egiziane: sono piene di vitalità: prima che arrivi presso di loro la levatrice, hanno già partorito!”. Dio beneficò le levatrici. Il popolo aumentò e divenne molto forte. E poiché le levatrici avevano temuto Dio, egli diede loro una numerosa famiglia. Allora il faraone diede quest’ordine a tutto il suo popolo: Ogni figlio maschio che nascerà agli ebrei lo getterete nel Nilo, ma lascerete vivere ogni figlia” (Esodo 1, 15-22).«Un uomo della famiglia di Levi andò a prendere in moglie una figlia di Levi. La donna concepì e partorì un figlio; vide che era bello e lo tenne nascosto per tre mesi. Ma non potendo tenerlo nascosto più oltre, prese un cestello di papiro, lo spalmò di bitume e di pece, vi mise dentro il bambino e lo depose fra i giunchi sulla riva del Nilo. La sorella del bambino si pose ad osservare da lontano che cosa gli sarebbe accaduto. Ora la figlia del faraone scese al Nilo per fare il bagno, mentre le sue ancelle passeggiavano lungo la sponda del Nilo. Essa vide il cestello fra i giunchi e mandò la sua schiava a prenderlo. L’aprì e vide il bambino: ecco, era un fanciullino che piangeva. Ne ebbe compassione e disse: “E’ un bambino degli ebrei”. La sorella del bambino disse allora alla figlia del faraone: “Devo andarti a chiamare una nutrice tra le donne ebree, perché allatti per te il bambino?”. “Và”, le disse la figlia del faraone. La fanciulla andò a chiamare la madre del bambino. La figlia del faraone le disse: “porta con te questo bambino e allattalo per me; io ti darò un salario”. La donna prese il bambino e lo allattò. Quando il bambino fu cresciuto, lo condusse alla figlia del faraone. Egli divenne un figlio per lei ed ella lo chiamò Mosé dicendo: Io l’ho salvato dalle acque!» (Esodo, 2, 1-10). Abbiamo voluto riportare il brano per intero, per poter contemplare queste mani femminili che si intrecciano a proteggere Mosé dall’ impostazione “maschilista” del faraone, che vuole uccidere la razza dell’ebreo per rafforzare la razza dell’ egiziano, che vuole un lavorare che sia solo un fare e un produrre da schiavi. Esse fanno un tessuto che avvolge il bambino e lo protegge da acque che, come quelle dell’Apocalisse, costituiscono una minaccia alla vita. «Quando il drago si vide precipitato sulla terra, si avventò contro la donna che aveva partorito il figlio maschio. Ma furono date alla donna le due ali della grande aquila, per volare nel deserto verso il rifugio preparato per lei per esservi nutrita per un tempo, due tempi e la metà di un tempo lontano dal serpente. Allora il serpente vomitò dalla sua bocca come un fiume d’acqua dietro alla donna, per farla travolgere dalle sue acque. Ma la terra venne in soccorso alla donna, aprendo una voragine e inghiottendo il fiume che il drago aveva vomitato dalla propria bocca. Allora il drago si infuriò contro la donna e se ne andò a far guerra contro il resto della sua discendenza, contro quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù» (Ap. 12, 13-17).

Vediamo più da vicino le donne indicate nella genealogia partendo dalle prime quattro, quelle la cui scelta da parte di Matteo appare più sorprendente. La prima, Tamar, è una peccatrice, che con l’inganno ha avuto un’unione incestuosa col suocero Giuda (Gn. 38, 13-26). La seconda, Racab, è la prostituta di Gerico, che accoglie e nasconde le due spie israelitiche inviate da Giosué e, grazie a ciò, viene ammessa nella comunità israelita (Giosué, 2,1. 9-14). La terza, Rut, è una straniera, quindi un’esclusa dal popolo eletto (Rut 1,16.4,13). Betsabea, la quarta, è la compagna di quell’adulterio con Re Davide che si conclude con un assassinio (2 Sam 11, 2-4). Ma queste quattro donne sono veramente “peccatrici”? A partire da S. Girolamo sono state considerate tali, ma poi qualcuno ha iniziato a dubitarne. Perfino è possibile sostenere, paradossalmente, che siano il contrario di quanto abbiamo detto: che siano addirittura delle eroine. Tamar ha impedito che si estinguesse la razza di Giuda, dalla quale avrebbe dovuto nascere il Messia, vincendo con uno stratagemma la paura superstiziosa del suocero che rischiava di mandare all’aria la profezia di Genesi 49,10. Racab, che dichiarò la sua fede in Jahvé (Gs 2, 9-10) favorisce l’ingresso del popolo eletto nella terra promessa. Rut, la moabita, si unisce a colui che doveva sposare secondo la legge, e pertanto porta a compimento il volere di Dio. E Betzabea è importante dinasticamente non solo per quanto avviene con riferimento alla nascita di Salomone, quanto per la sua intercessione presso Davide che gli ottiene di farlo diventare re al posto di Adonia, adempiendo così la profezia di Natan (Cfr Laurentin, I vangeli dell’infanzia di Cristo, p. 451). Ecco quindi che queste quattro donne sembra inizino a parlarci di “misericordia” in un modo diverso da come è stato fatto nel versante “maschile” della genealogia. Per quanto riguarda gli uomini, l’intervento misericordioso di Dio è certo, ma essi, i maschi nominati, sono oggetto della misericordia di Dio, non soggetto. Sono perdonati, non perdonano. Sono salvati, non salvano. E invece per queste quattro donne la cosa comincia a cambiare. Se assumiamo come vere le interpretazioni degli autori più moderni (e che vengono riportate con lo stile dell’alta divulgazione nel libro di Laurentin che abbiamo citato), esse non sono solo oggetto di misericordia da parte di Dio, ma sono anche soggetto. Appunto, come abbiamo appena profilato più sopra, sono esse a “salvare” il progetto di Dio. E lo fanno nel modo più tenero, apparendo come una trepidante immagine dell’amore misericordioso di Dio. Se qualcuno ritenesse esagerato l’aggettivo “trepidante”, per convincersi del contrario, gli basterebbe leggere con calma qualcuna delle storie riportate. Rut che, da straniera, segue Noemi non è forse tenera e trepidante? e forse non lo è Tamar che, passando attraverso il biasimo pubblico e la condanna ad essere bruciata viva, strappa al suocero Giuda la famosa lode, celebrata anche da Ambrogio: “Tamar è più giusta di me?”.

Dio pertanto, che attraverso l’uso della parola rahamim sembra additarci il grembo della donna come immagine adeguata della sua misericordia, non vuole solo aggiungere alla parola un’accezione tenera, morbida, affettuosa, dolce e delicata. Invece vuole dirci che nelle donne della genealogia, l’umanità aggiunge all’essere oggetto della misericordia divina (cosa che sarebbe già magnifica), anche il divenire “soggetto” attivo di tale misericordia. La donna che ha compassione dell’uomo, è icona della misericordia divina perché com-patisce con Lui. Queste quattro donne, secondo la lettura che alcuni ne danno, sono vittime che in qualche modo salvano il carnefice (l’uomo) avendone misericordia in un modo diverso da come gli uomini di prima intendono questa parola. Esse non “perdonano” ma riescono, in un modo sorprendente, a trarre bene dal male, giustizia dall’ingiustizia. Questa segnalazione divina che, ripetiamo, noi proponiamo non come una tesi ma come una semplice “suggestione”, diventa eccelsa in Maria, madre per eccellenza, grembo verginale, icona dell’accoglienza misericordiosa di Dio per i peccatori.
Maria! E’ bello notare che quanto abbiamo detto del grembo femminile in Lei non solo non è negato ma, grazie al concepimento verginale, è messo ancora più in risalto. Parafrasiamo a questo proposito alcune considerazioni di De La Potterie. Il noto esegeta afferma che nel testo greco di Lc 1,31 l’angelo Gabriele dice a Maria: “Ed ecco, concepirai nel grembo”, ma fa notare che questa specificazione, nel grembo, viene ignorata da quasi tutti i commentatori sia passati che presenti, tanto che la versione CEI la trascura dicendo semplicemente “Ecco concepirai un figlio” (non così la versione UTET che riporta: “Concepirai nel grembo e partorirai un figlio e gli porrai nome Gesù”). Ciò avviene perché in genere, il particolare del grembo viene ritenuto banale, pleonastico: quale donna infatti non concepisce “nel grembo”? Eppure, proprio questa ovvietà dovrebbe insospettire. Ciò che è scontato per noi, doveva esserlo anche per Luca che oltretutto era medico. Era però anche evangelista e, se ha ritenuto di utilizzare “grembo”, significa che quel particolare era importante: così importante da fargli coniare un’espressione assolutamente unica in tutta la Scrittura. Infatti, quando scrive, ha presente la famosa profezia di Is 7,14 che è tenuta in conto anche da Mt 1,23: “Ecco la vergine avrà nel grembo e darà alla luce un figlio e chiameranno il suo nome Emanuele” (questa è la traduzione di De la Potterie, diversa da quella CEI: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emanuele”). Nel testo di Matteo, che è riferito a quello di Isaia, l’angelo spiega a Giuseppe come si realizzerà l’incarnazione: “la vergine avrà nel grembo”. Nella formulazione di Luca però, il verbo è diverso: invece di “avrà nel grembo”, Luca fa dire all’angelo “concepirai nel grembo”. Ma, appunto, “concepire nel grembo” è una formula strana, apparentemente infelice perché contenente elementi superflui. Perché viene usata? Forse perché per parlare del concepimento ordinario di una donna, l’Antico Testamento, usava solitamente due formule “ricevere nel grembo” (es. Gn 28,25; Is 8,3, ecc.) in riferimento all’uomo dal quale la donna riceve il seme nel proprio grembo; oppure, dopo il rapporto sessuale con l’uomo, “avere nel grembo” (cfr Gn 38,25; Am 1,3; ecc). Con quest’espressione si indicava una donna incinta, ed anche in questo caso perciò l’azione indicata è quella di ricevere il seme da un uomo.
Ecco probabilmente il motivo per cui Luca “inventa” un’espressione che costituisce un’assoluta novità. Egli non poteva usare nessuna delle due espressioni precedenti perché Maria aveva detto “sono e rimarrò vergine” (“non conosco uomo” Lc 1,34). La soluzione di Luca è quella di sostituire le due formule bibliche usuali, col semplice verbo “concepire” insieme con “grembo”.
La cosa è ancor più interessante se si rileva che si comporta così solo nel caso della Vergine Maria. In altre due occasioni infatti utilizza “concepire”: sono entrambe per la cugina Elisabetta, ed in entrambi i casi non si menziona il grembo. La prima occasione è Lc 1, 24 (“Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta per cinque mesi”); e la seconda è allorché Gabriele spiega a Maria che “Elisabetta, tua parente, ha concepito anche lei un figlio nella sua vecchiaia” (Lc 1,36). La somiglianza (“anche lei”) consiste solo nel fatto che entrambe concepiscono, la dissomiglianza riguarda il modo di concepire. Perciò in Lc 1,31 si era detto “concepirai nel grembo” e, più avanti (2,21), si legge “come era stato chiamato [Gesù] dall’angelo, prima di essere stato concepito nel grembo”.
E’ chiaro a questo punto cosa vuol significare Luca: da una parte che il concepimento di Gesù avviene nel realismo fisico di un autentico concepimento corporale, come per tutti gli altri uomini; dall’altra, l’aggiunta solo per Maria di “grembo”, indica che tale concepimento è diverso nel modo: avviene direttamente nel grembo. E’ cioè integralmente interiore (“nel grembo”) senza nessuna penetrazione dal di fuori di un qualsiasi seme virile. E’ cioè verginale, realizzato da una potenza reale ma non corporea. Ha richiesto una vera azione, sì, ma di origine spirituale. Subito dopo infatti, in Lc 1,35, si spiega che proprio lo Spirito Santo deve scendere su Maria per effettuare in lei, cioè nel grembo di lei, un concepimento puramente interiore anche se realmente corporale. Un concepimento senza rapporto sessuale. Verginale. Il grembo (rehem) di Maria dunque è il luogo dove si manifesta la misericordia (rahamim) di Dio verso tutta l’umanità; il luogo che dona all’umanità il Verbo Eterno di Dio, ricco di misericordia. Ecco infatti che la parola “grembo” riprende ad accompagnare Elisabetta non appena Maria la incontra. La misericordia di Dio che abita il grembo di Maria non attende di nascere per manifestarsi, si diffonde subito e ha come destinatario un altro grembo gravido, quello di Elisabetta: «Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo» (Lc 1, 41-44). Il grembo di Elisabetta è il primo ricettacolo della salvezza portata da Cristo. E’ luogo della misericordia e della gioia per la misericordia ricevuta. Al colmo dello stupore, Maria loda il Signore per la sua misericordia che si estende di generazione in generazione è allora che esulta nel Magnificat. Ed è così che le parole “misericordia” e “grembo” vengono unite in un legame indissolubile.
Le nostre riflessioni a questo punto potrebbero condurci a pensare che Dio, il quale addita il grembo femminile come elemento indispensabile per capire la Sua misericordia, voglia dirci ancora di più: che proprio questo discorrere misericordioso sia quello che definisce la donna: quasi che misericordia e femminilità si definiscano reciprocamente.
Ma preferiamo lasciare queste ulteriori considerazioni alla libertà dei lettori e alla loro personale contemplazione di Maria che, gravida del Figlio di Dio e Figlio suo, accompagnata da Giuseppe, si avvicina a Betlemme, ancora una volta per il Natale.
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Ringraziamenti – Desidero in primo luogo ringraziare Marco Valerio Fabbri docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università della Santa Croce a Roma, e Andrea Mardegan senza l’ aiuto dei quali non mi sarebbe stato possibile fare questo studio; rimane ovvio che eventuali imprecisioni contenute in questo articolo siano da attribuire a me e non a loro. Ho inoltre tenuto presenti le opere sopra citate: J. Ratzinger, Maria Chiesa nascente, San Paolo 1998, p.67; R. Laurentin, I vangeli dell’infanzia di Cristo, 1989, (3a ed); l’articolo di Ignace De La Potterie che abbiamo parafrasato: “Concepirai nel grembo (Lc 1,31): l’angelo annuncia a Maria il suo concepimento verginale”, in 30 giorni n° 4 – aprile 1999, pp. 76-78; e, naturalmente, Dives in Misericordia. Altri spunti ci sono giunti da François Xavier Nguyen Van Thuan “Genealogia di Gesù Cristo Figlio di Davide-Figlio di Abramo” (Mt 1, 1), in 30 giorni n° 11 – novembre 2000, pp. 69-71.

Tratto da Studi Cattolici n. 526 – Dicembre 2004