Blog / Sandokan | 03 Settembre 2016

Le Lettere di Sandokan – Sembra che dorma

Si è parlato tanto di morte in questi giorni, nei giornali.

Certo, un conto è parlare della morte come fatto della vita, un altro è parlare di morte ad un morto. L’argomento, sorprendentemente, non lo interessa più: eppure il morto è lui.

Al morto in realtà non interessa più alcun argomento, almeno così sembra a guardarlo sdraiato dentro la sua cassa di legno, tra cuscini (di seta) che non servono per dare sollievo, ma per foderare la cassa, in attesa che un coperchio li nasconda alla vista.

Avete mai osservato un morto? Con quella patina in volto che lo fa sembrare molto più distante dello zio d’America che non vediamo da trent’anni? Non sembra, la sua, una condizione invidiabile e non è una vista piacevole.

“Sembra che dorma”, ogni tanto esclama qualcuno credendo di consolare con questa frase qualche vivo piangente. Ma il morto, credo, ci rimarrebbe male a sentire parole del genere sul suo conto – seppure dette con le migliori intenzioni – e lo capisco: anch’io, come lui, da morto, vorrei sembrare morto, per non ingannare nessuno.

Non ho mai invidiato nessuno, da vivo, non ho mai voluto essere al posto di nessun altro. Non vorrei cominciare a invidiare da morto, a invidiare i vivi. Vorrei essere il più bel cadavere del mondo, questo sì, finché non saldano il coperchio e non divento un sospiro per tutti quelli che avranno, in futuro, un momento per pensare a me.

Non che non creda all’immortalità dell’anima e al futuro radioso che mi attende in Cielo, speriamo, accanto a Gesù, a Maria, e alle persone che mi stanno aspettando. Ci credo. E vi dirò di più. Credo che chi ci aspetti davvero siano i “morti”, che non hanno molto altro da fare a parte aspettare che qualcuno li vada a trovare. E questa cosa che ho appena scritto – me ne accorgo proprio ora che la scrivo – è pure una metafora utile ai vivi, per capire cosa sia l’amore e come, per amare, sia necessario morire e rinascere. Ma io non sono qui a spiegare metafore, che tanto i morti non ne hanno bisogno e i vivi hanno tante cose da fare.

Certo, se il morto è anziano, uno se ne fa una ragione.

Una volta ascoltai una barzelletta – si raccontano tante barzellette nelle veglie funebri degli anziani defunti, mischiate a preghiere e a ricordi di gioventù – di una coppia di amici che, davanti a un loro vecchio compagno di vita oramai cadavere, si chiedevano che cosa avrebbero potuto dire di bello sul suo conto in quella occasione, per fargli con le loro parole l’ultimo regalo e poter così passare serenamente a occuparsi di altro.

Siccome erano persone serie, si misero ciascuno al posto del loro vecchio amico defunto e si immaginarono che cosa avrebbe fatto loro piacere ascoltare, sul proprio conto, dalla bocca dell’altro.

Il primo disse: “mi piacerebbe che tu, fissandomi, ricordassi le cose belle che ho fatto nella vita, le persone che ho amato, i giorni passati a ridere e a scherzare, le sofferenze che ho dovuto patire”.

Il secondo, che non era il tipo da commuoversi davanti a commemorazioni pubbliche, se ne uscì con desideri più umani: “a me piacerebbe che tu, fissandomi, ti mettessi a urlare: guardate, si muove!”.

Ma davvero un morto vorrebbe ritornare alla sua vita di prima? Non so. E’ una barzelletta fatta per i vivi, penso io.

Vi voglio confidare un segreto, correndo i miei rischi. Vi interessano i miei segreti? Non so, però ve li dico lo stesso. Una cosa dei morti mi piace, dei morti non ancora sepolti, adagiati a volto scoperto in una stanza e circondati da tanta gente che parla di tante cose: mi piace la loro imperturbabilità, che non è il nirvana, ma che è un modo per rimanere ancora più legati a ciò che amano.

Questa cosa io la immagino come una loro scelta, come se fosse una loro abilità e non semplicemente una loro impossibilità a parlare. Come se il loro tacere fosse una virtù. A me piace pensare che lo facciano apposta a non aggiungere altro. Mi piace quel loro credere che nessuna “parola” abbia la forza di cambiare le cose, oramai, che nessuna frase servirebbe ad avvicinarli di più al mondo e alle cose che non hanno lasciato davvero, ma che continuano ad amare dal posto in cui sono andati a nascondersi, per sempre, in attesa che qualcuno li stani e li abbracci di nuovo.

Non sono turbati né dalle barzellette, né dalle preghiere, né dai pianti che ascoltano. Ma non sono indifferenti. E’ solo che hanno capito una cosa che, da vivi, è difficile da capire: che arrivati a un certo punto della vita “tacere” diventa l’unico modo possibile per farsi cercare, sul serio, per sempre. E che cercarsi è l’unica cosa che conti davvero.

E iniziano una nuova vita, che non progetta nulla, ma si aspetta tutto. Una vita fatta di silenzi di parole, ma non di solitudine: perché tacere serve soltanto a capire se è il caso di continuare a “parlare”.

Sembra triste una vita di attese. Ma non se hai, a tua volta, chi passa la vita attendendo te. Qualcuno che non ha nulla da dirti, ma vuole solo guardarti mentre sorridi, per sempre.