Luigi Manconi – La poligamia non può essere un diritto civile in Italia

Un Cireneo propone il pezzo con queste sue parole: “Questa è bella, come recuperare Benedetto XVI senza dirlo troppo chiaramente. Era chiaro che si sarebbe arrivati qui. La citazione del Papa emerito è implicita: si parla di diritti non alienabili, concetto molto vicino a quello di diritti non negoziabili. Ricordo che i diritti non negoziabili erano uno dei punti forti di Benedetto XVI. Erano stati attaccati dai mass media e da una parte del clero perché ostativi a queste presunte libertà mondane. Ed oggi, proprio sul più importante quotidiano nazionale, si dà ragione a Bendetto. Peccato che il Corsera non abbia la stessa autorità morale della Chiesa e che come più volte detto, quando si è aperto il vaso di Pandora non si può più richiuderlo.

Hamza Piccardo, voce assai ascoltata dell’Islam italiano, composto da molti stranieri e da un numero significativo di nostri connazionali diventati musulmani, ha affermato: «Se è solo una questione di diritti civili, ebbene la poligamia è un diritto civile». E ancora: «non si capisce perché una relazione tra adulti edotti e consenzienti possa essere vietata, di più, stigmatizzata, di più, aborrita». Piccardo sbaglia di grosso, sin dalla premessa: la poligamia non è affatto «una questione di diritti civili». La poligamia, per contenuto morale e per struttura del vincolo, si fonda — e non può che fondarsi — su una condizione di disparità, che viene riprodotta e perpetuata. Comunque la si voglia argomentare e manipolare fino a immaginare il suo rovesciamento speculare (più uomini sposati con una sola donna), si tratta in ogni caso di un rapporto fondato su uno stato di diseguaglianza. Piccardo, che non è uno sprovveduto, ritiene che quella condizione diseguale possa essere sanata dal fatto che essa sia consapevolmente accettata e condivisa da adulti consenzienti. Ma è proprio qui che il ragionamento mostra tutta la sua debolezza.
La parità tra i sessi e la tutela della dignità contro ogni discriminazione, costituiscono un diritto fondamentale della persona, che è (proprio per questo) non disponibile. Ovvero, un diritto non alienabile (e non limitabile, modificabile o cedibile) persino da parte del suo stesso titolare. Un diritto, cioè, sottratto ad ogni potere dispositivo: fosse anche quello del suo stesso beneficiario. Ed è il medesimo principio che non consente il lavoro schiavistico o il commercio degli organi o ogni altra forma di degradazione della dignità personale, anche qualora vi fosse il consenso dei diretti interessati (consenso che, non a caso, per tali reati non esclude la punibilità).
Questa discussione è di cruciale importanza perché consente di tracciare un discrimine limpido tra quanto — delle tradizioni, delle confessioni e delle culture di diversa origine — è accettabile all’interno del nostro ordinamento giuridico e della nostra vita sociale e quanto, al contrario, deve essere rifiutato. Personalmente, sono favorevole alla più ampia capacità di accoglienza e inclusione di stili di vita e forme di relazione, di riti religiosi e costumi culturali i più diversi, ma con il limite insuperabile rappresentato dalla intangibilità dei diritti fondamentali. Di conseguenza, il relativismo culturale, che è manifestazione propria di una concezione liberale della società, non può accettare l’esclusione delle ragazze dall’istruzione scolastica o la loro subordinazione ai maschi, i matrimoni precoci e le mutilazioni genitali femminili (peraltro non esclusivamente né principalmente derivate da una lettura del Corano). In quest’ultimo caso, è chiaro che la tradizione religiosa o etnica non può in alcun modo compromettere l’affermazione del diritto umano alla piena integrità fisica. Poi, evidentemente, si tratta di combinare tali irrinunciabili valori, protetti giuridicamente, con intelligenti politiche pubbliche. È un’impresa ardua, assai ardua, ma va tentata. E non si tratta nemmeno di una novità.
Nel lontano 1987 Lehsen Bouzid, operaio marocchino di un’azienda di Anzola Emilia, fa giungere in Italia — in virtù del ricongiungimento familiare previsto dalla legge — le sue due mogli, dalle quali aveva avuto numerosi figli. Il ministero dell’Interno respinge la domanda di «permesso di soggiorno per motivi di famiglia»: ma il ricorso al Tar consente infine alle due donne di risiedere in Italia in ragione della «gravità e irreparabilità sotto l’aspetto sociale, economico e familiare» del caso considerato, accogliendo la tesi dell’avvocato. Ovvero che non si trattasse di ottenere dallo Stato italiano «un riconoscimento formale e giuridico della condizione familiare delle ricorrenti, bensì semplicemente una non discriminazione». E ciò in virtù degli articoli della Costituzione italiana che tutelano «le confessioni religiose diverse dalla cattolica» e le forme di relazione e le strutture giuridiche che ne conseguono. Si può dire che, in sostanza, la decisione del Tar ha affermato la prevalenza del valore dell’unità del nucleo familiare rispetto alla norma penale italiana che vieta la bigamia. Insomma, il Tar non riconosce, certo, un disvalore, come quello insito nella poligamia, ma si limita a porre rimedio a uno stato di necessità, secondo il principio del «male minore» (la tutela di tutti i figli di quella relazione poligamica). Ma, sia chiaro, si tratta di una soluzione, pure opportuna in quel caso, che lungi dal risolvere definitivamente il problema, ne rivela la drammatica complessità. A conferma del fatto che la convivenza tra etnie confessioni e culture, non solo inevitabile ma potenzialmente assai remunerativa sotto tutti i profili, può essere assai faticosa.

Tratto da Corriere.it