Blog / Sandokan | 14 Luglio 2016

Le Lettere di Sandokan – Sentimenti

Ho passato un pomeriggio a chiacchierare di “sentimenti” con mia figlia. Aveva scelto di parlare di Romanticismo all’esame di terza media e mi stava ripetendo la lezione. E’ sempre un po’ tesa quando mi ripete le cose, molto più che a scuola, perché io la interrompo sempre e comincio a navigare fuori dalle pagine del libro.
Ha iniziato col collocare il Romanticismo in un’epoca storica e io subito a chiederle se i romantici esistano anche oggi, oppure se li abbiamo persi per strada. E poi tutta la storia dell’importanza dei sentimenti.
«Ma cosa sono i sentimenti? E poi, prima dell’epoca romantica esistevano i romantici? E oggi, hai mai incontrato un romantico in giro per strada?».
«Papà, tu non sei romantico», mi fa sorridendo.
Ecco, mi piace quando la vita entra nelle cose che si studiano e quando le cose che si studiano aiutano a prendere possesso della propria vita. Non è che avesse già raggiunto un reale interesse verso ciò di cui stavamo parlando, avrebbe preferito fuggire, ma era un inizio e dovevo accontentarmi.
Ho preferito glissare sulle sue parole riguardo al mio romanticismo, con un sorriso – ho seguito il consiglio di Oscar Wilde, evitando di confondere le sue curiosità con le mie risposte indiscrete – e le ho chiesto di raccontarmi cosa sia per lei un sentimento.
«Un sentimento è l’effetto che generano i fatti della vita, o i tuoi pensieri, su di te: ti possono far piangere, o sorridere … qualcosa del genere».
«Sì, ci sono cose che accadono attorno a te, oppure in te, che tu in qualche modo percepisci, perché sei viva, e che provocano una reazione. Ma non devi confondere la percezione con la reazione. Perché la percezione la puoi solo “ascoltare” (o “non ascoltare”), mentre la “reazione” la puoi controllare».
«Non ho capito».
«Ora ti spiego. Io sono qui di fronte a te a parlarti di sentimenti e tu ti stai rompendo un po’ le palle ad ascoltarmi».
Eccola che ride di nuovo, finalmente, mi sono guadagnato un po’ più di attenzione e il diritto a proseguire per qualche minuto ancora.
«La tua rottura di palle è il sentimento che le mie parole ti hanno provocato: non hai deciso di romperti le palle, ma il sentimento è un fatto della vita, provocato da altri fatti della vita. La prima cosa importante è definirlo bene: si chiama “rottura di palle provocata dai pipponi di papà”. Forse si può definire meglio di così e, col tempo, lo farai. Per il momento ci accontentiamo di queste parole un po’ alla buona.
Ora, se il sentimento è questo, che te ne fai?».
«Che me ne faccio?».
«Hai tante possibilità. Puoi decidere di ignorarlo, perché “occorre ascoltare le parole del papà che non è mai noioso e parla sempre per il mio bene” e quindi ti costringi a mostrarti interessata a ciò che in fondo ti annoia (ma non lo ammetti a te stessa che ti stai annoiando, perché ti sei convinta, o ti hanno convinto, che non ti può annoiare ciò che senti da tuo padre, o da qualche autorità che riconosci nella tua vita, e che, se invece ti annoia, c’è qualcosa di sbagliato in te). Questa decisione, te lo dico subito, i romantici non l’avrebbero apprezzata molto, però essere romantici non è un obbligo di legge e tu puoi fare come ti pare.
Puoi però fare anche altro. Puoi decidere di manifestare questo tuo sentimento, mostrandomelo in qualche modo, o puoi dissimularlo».
«E cosa è meglio fare?».
«Ah, non lo so. Ci possono essere motivi buoni o cattivi sia nel mostrare che nel dissimulare. Per esempio potresti decidere che sarebbe scortese notificarmi la tua rottura di palle e sorridere beata dopo ogni mia frase, oppure potresti sorridere soltanto perché ritieni di poterti liberare prima di me se non ti contrapponi a me, oppure potresti sbadigliarmi in faccia o sbuffare. Ciò che volevo farti capire è che la decisione di esprimere un sentimento (e in che modo esprimerlo) si può controllare».
«Ma che vuol dire controllare? Che non lo devo esprimere?».
«No, vuol dire che decidi tu cosa farci dei tuoi sentimenti. Lo decidi con la ragione, che tuttavia, senza sentimenti, non ha materia su cui ragionare. O forse sì, ragiona sulle cose e sulle persone (che esistono indipendentemente dal fatto che significhino qualcosa per sé), ma come se non gli appartenessero. E’ una ragione che è capace di ripetere una lezione sul Romanticismo come stavi facendo tu prima che iniziassimo a chiacchierare, cercando di ricordare le parole del libro, che tra qualche giorno neanche tu ricorderai più».
«Ma perché i romantici sono tristi?».
Qui la frase di Fitzgerald sulla differenza tra sentimentali e romantici mi è tornata utile. L’avevo usata nel blog non ricordo a che proposito e ora mi serviva per chiacchierare con mia figlia. Gliel’ho letta e le ho suggerito di incollarla al centro della sua mappa concettuale. Ve la ricordate? Diceva così: “I sentimentali credono che le cose durino, i romantici hanno una fiducia disperata nel fatto che non durino”.
«Ecco», le ho detto, «usala per commentare “A Silvia”, per raccontare le delusioni di Leopardi riguardo alle promesse della vita, promesse che la sua vita non è riuscita a mantenere».
«Va bene».
Il giorno dopo ha fatto gli orali e, di ritorno, mi ha detto: «Papà abbiamo parlato un sacco della tua frase [si riferiva alla frase di Fitzgerald]. Erano tutti contenti e mi facevano tante domande. Mi hanno tenuto 40 minuti, mentre agli altri compagni solo un quarto d’ora».
«Hai visto? La nostra chiacchierata di ieri è servita a qualcosa. Ha evitato che i tuoi insegnanti si rompessero le palle standoti a sentire».
«Sì».