Blog / Sandokan | 02 Luglio 2016

Le Lettere di Sandokan – Solo io sono io

“Tu mi vuoi cambiare, ma io non voglio cambiare”.
A volte capita che una persona ti racconti certi fatti della sua vita senza motivi particolari. Non vuole consigli o giudizi, vuole semplicemente chiacchierare. Ma tu noti qualcosa che ti colpisce e ne parli. E ti infili nei guai.
Io voglio cambiare i miei amici? Pare di sì, alcuni almeno. Ma avrei giurato di no. Teorizzo da tempo l’inutilità di porsi di fronte a qualcuno con l’intento di cambiarlo in qualcosa. Tuttavia nelle discussioni astratte, nelle quali a volte mi esercito, quando provo a sostenere questa mia tesi, di solito mi rivolgono frasi del tipo: “Se uno è tuo amico gli devi parlare anche delle idee che secondo te dovrebbe cambiare, fino a un passo prima che la cosa lo infastidisca”.
Quindi in teoria non voglio fare ciò che in pratica poi mi ritrovo a fare? Ci ho pensato un po’ su, per capire se è proprio così, e qualche idea in merito l’ho tirata fuori.
Una cosa che a me infastidisce è percepire che qualcun altro abbia un “progetto” su di me, su un qualche aspetto della mia vita, e che mi cerchi per farmi cambiare rotta … o per farmi tenere la rotta. Nessuno sa chi sono, perché esisto – ne so poco anch’io – e quindi nessuno ha diritto di relazionarsi con me ritenendo di sapere in cosa e come io debba cambiare. Non sono materiale da costruzione.
So bene che molti usano questa metafora per parlare del rapporto tra Dio e l’uomo (“siamo creta nelle mani del vasaio”), ma so anche che troppo spesso non si rimane a livello metaforico e si finisce per subappaltare la costruzione della vita altrui a qualche capocantiere che pensa di sapere come si fa, che si sente addirittura inviato da Dio a questo scopo: lui sa qual è il mio bene e lo vuole più di quanto lo voglia io. Almeno così dice.
E poi, io voglio cambiare me stesso? Dipende. Diffido un po’ dai miei propositi di cambiamento (non dico soltanto della capacità di tener fede a ciò che mi propongo, ma proprio degli obiettivi che mi pongo).
A volte capita che uno si “proponga” di cambiare se stesso, scegliendo “a tavolino” cosa vuole diventare, per ottenere uno scopo (non necessariamente malvagio). Perché a un certo punto ci si accorge che il cambiamento diventa una condizione “necessaria” per farsi amare da qualcuno, da qualcuno che vogliamo si innamori di noi, da qualcuno che però sembra capace di amare solo gente diversa da come noi siamo. E quindi uno fa uno sforzo di cambiamento, e vive un perenne senso di inadeguatezza cercando di capire da sguardi e sorrisi altrui se stia andando nella direzione giusta.
Ma allora, se tutto questo è vero, perché voglio che la gente cambi attorno a me? Perché voglio cambiare anch’io? D’accordo, nessuno sa chi sia io, in realtà, tuttavia io sono “qualcuno” e non chiunque e le mie scelte hanno un senso – lo so, lo voglio, lo spero – e mi porteranno a casa mia, a scoprire chi sono, a ritrovare me stesso: come dice san Paolo io “corro, ma non come chi è senza meta; lotto, ma non come chi batte l’aria”.
Come si fa a cambiare se stessi e gli altri, a cambiare il mondo, senza avere un qualche obiettivo preciso da raggiungere – un obiettivo solo mio intendo, perché non c’è nessuno al mondo uguale a me – senza avere un modello da imitare, senza avere una strada da percorrere?
C’è un mio amico che ha dei figli un po’ ribelli. Di recente il più grande ha trovato una ragazza e lui mi racconta, in preda allo sbalordimento, come tutto questo lo abbia cambiato. “Non si riconosce più”, mi dice. Vabbé, direte, è un adolescente e gli ormoni hanno la loro parte in questo cambiamento. E’ vero. Però conosco altre situazioni.
Di un altro mio amico ultracinquantenne penso di poter dire che, almeno fino a dieci anni fa, non avesse mai fatto caso al fatto che al mondo esistano i cani. Dieci anni fa ha conosciuto una donna, che dedica gran parte della sua vita (e dei suoi soldi) alla cura dei randagi: ha affidato vari animali a persone che vogliono prendersene cura in giro per l’Italia, pagando le spese di viaggio degli animali.
L’altro giorno trovo questo mio amico quasi in lacrime e gli chiedo cosa sia successo. Mi parla di un cane che avevano mandato non so dove e che si è scoperto fosse gravemente ammalato.
Cosa ha cambiato queste due persone, questo ragazzo e questo uomo adulto? Le ha cambiate la vita. Le ha cambiate una presenza nuova alla quale hanno dovuto fare spazio, per amore, nelle loro giornate: nei loro pensieri, nelle loro preoccupazioni e nelle loro azioni.
Questo loro amore li ha cambiati e li manterrà “diversi”, finché l’amore durerà. Perché chi ama vuole “entrare”, “penetrare” nella vita dell’altro (il riferimento alla sessualità aiuta a capire, sebbene nell’atto sessuale uno penetri soltanto nel corpo, per come può) e, per farlo, l’altro deve fargli spazio. E’ bello quando ciò avviene da entrambe le parti. E’ doloroso quando avviene da una parte sola: è un abuso, una violenza.
Le relazioni di amore non sono mai solo “intellettuali”. Sono sempre anche “fisiche”. Se uno non vuole entrare a casa mia, nella mia vita, le sue parole (per esempio sulla esortazione apostolica del Papa) mi interessano poco. Poi magari vorrebbe, ma non può … in questo caso va bene, è come se fosse entrato. Ma amare da lontano non si può. E senza amore non si cambia in nulla, non si spiega nulla.
In fondo questo mi aspetto dalle mie relazioni. Che il fatto che io ci sia cambi la vita delle persone, ma non per le mie qualità, non grazie alle mie indicazioni. Per il semplice fatto che non può rimanere tutto uguale nella vita degli altri, uguale a quando io nella vita degli altri non c’ero.
Non sono creta: sono un uomo.