Avvenire – Se la scienza vede lʼuomo nellʼembrione
La ricerca sugli embrioni umani continua a suscitare dibattiti: i nuovi risultati scientifici sollevano interrogativi, forse maggiori dei dubbi che sciolgono. È il caso degli ultimi studi, pubblicati la scorsa settimana su Nature e Nature Cell Biology, in cui due gruppi indipendenti di ricercatori sono riusciti a far sviluppare gli embrioni in provetta fino al 13 giorno, cioè molto più di quanto si fosse mai riusciti e molto vicini al limite dei 14 giorni, che molte legislazioni nazionali hanno fissato come termine entro cui permettere tali esperimenti. Un limite che, secondo alcuni autori di queste ricerche, andrebbe ora rivisto. Ovviamente ponendolo più avanti.
Questi studi hanno documentato, osserva Domenico Coviello, direttore del Laboratorio di Genetica umana dell’ospedale Galliera di Genova, che «in questa precoce fase dello sviluppo, l’embrione è in grado di avviare il suo sviluppo anche fuori dall’utero materno», ma ciò non significa che questa situazione «non sia dannosa per la sua crescita», né sappiamo «quali carenze avrebbe perché non usufruisce dell’interazione con il suo normale ambiente di sviluppo». Infatti «noi sappiamo che sin dalla prima fase del suo sviluppo vi è un continuo dialogo di sostanze tra l’embrione e la madre: non sappiamo se, senza questa interazione, avrebbe avuto conseguenze negative lo sviluppo dell’embrione e poi del feto».
Il limite dei 14 giorni, del resto, è sempre stato oggetto di una disputa. «Da un lato – osserva Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma – c’è chi ritiene (e io sono tra questi) che sin dalla prima cellula parta un progetto umano unico e irripetibile, e che non sia corretto manipolarlo o utilizzarlo come “ammasso di cellule”». Dall’altro chi ritiene «di poter avere libertà di manovra fino almeno alla fine della fase proliferativa (appunto il 14 giorno) perché l’embrione è formato da cellule totipotenti che, qualora vengano separate, possono dare origine ad altrettanti embrioni. Viceversa se la divisione (come accade in un caso ogni 50mila nati) avviene dopo i 14 giorni, nella fase differenziativa, si generano anomalie, come i gemelli congiunti. Ma se si vuole sperimentare quando è iniziata la fase differenziativa, quale motivazione e quale limite troveremo agli esperimenti sull’uomo?». Aggiunge Coviello: «Se superiamo il limite (arbitrario) dei 14 giorni per non considerare l’embrione un uomo, viene negata anche la regolamentazione stabilita finora, andiamo verso una pura sperimentazione sull’uomo, che ci riporta a ricordi che si sperava fossero confinati nel passato: dai medici nazisti agli studi statunitensi sui carcerati».
Viceversa, sottolinea Coviello «è chiarissimo che a partire dallo zigote, la prima cellula (diploide, con 46 cromosomi) frutto dell’unione dei due genomi del gamete femminile (aploide, con 23 cromosomi) e del gamete maschile (aploide, con 23 cromosomi) parte un programma incredibile e meraviglioso di riprogrammazione delle attività di una singola cellula che è in grado di fare un uomo. Quel che abbiamo scoperto negli ultimi dieci anni è che – anche se nella prima cellula è già scritto tutto – le differenze insorgono a seconda di quali geni vengono accesi o spenti. La combinazione di accendere o spegnere i geni crea lo sviluppo: la cellula ha il suo programma, l’ambiente però può influire (epigenetica): ciò che va sul Dna, pur senza cambiare la sequenza, può accendere o spegnere geni. Questo può cambiare qualche cosa e si sta studiando sempre di più l’influenza dell’ambiente sul Dna: è tutto scritto nel Dna, ma non è detto che si avveri tutto quello che c’è scritto».
Quel che la scienza non dovrebbe trascurare è che occorre sempre domandarsi il senso delle ricerche: «Credo noi dovremmo avere rispetto per l’embrione umano. E non trattarlo come un oggetto» commenta Dallapiccola. «Dovremmo avere presente – aggiunge Coviello – che non si può fare una ricerca sull’uomo che possa danneggiarlo. Pensiamo alla sperimentazione dei farmaci: i test sull’uomo vengono effettuati secondo un ordine preciso, teso a evitare quanto più è possibile che l’uomo riceva un danno. Se si vuole capire la biologia dell’uomo, ci sono anche altre vie». Più in generale «non si dovrebbe andare contro tutti i princìpi esistenti nei trattati internazionali, che dichiarano che l’uomo è uomo indipendentemente dalle sue capacità». Il pericolo, intravisto dagli scienziati, è più alto: «Sembra che si voglia cambiare il concetto di uomo, l’antropologia. La scienza – puntualizza Coviello – ha tanti mezzi, ma c’è anche il compito di valutare se usarli o meno. Sembra che nel nome di un progresso che potrebbe andare a vantaggio dei più forti, i più deboli vengano sacrificati. Come se non ci fosse più il valore della comunità, ma solo il vantaggio del singolo». Un certo scetticismo viene espresso anche da Dallapiccola: «Non ho una visione ottimistica. Sembra che si cerchi solo una certa maggiore libertà di manovra». Il dubbio, conclude Dallapiccola, è che certe ricerche siano spinte dalla «speranza di ricadute commerciali».
Se la scienza vede lʼuomo nellʼembrione
Di Enrico Negrotti – Avvenire, 12 maggio 2016