Blog / Un Cireneo | 06 Maggio 2016

La Lettera di Un Cireneo – La sterilità dell’antico testamento forse era necessaria a dirci il suo contrario

È possibile pensare che la condizione di una mancanza, permanente o temporanea, risponda anche oggi ad un criterio di necessità? L’assenza per apprezzarne il suo contrario, la presenza. Alzando lo sguardo, posso pensare che vi sia una necessità – deve essere affinché una cosa sia o si faccia – nell’assenza, nella sofferenza che vivo quotidianamente Necessario per apprezzare il suo contrario, oggi o domani. Necessario per ottenere un bene maggiore, per me o per altri. Non viene forse invocata una necessità, biologica ma anche spirituale, che deve portare il Chicco di grano a morire per portare frutto? Dalla morte arriva il suo contrario, la vita. Non era forse necessario – misteriosamente necessario – che Cristo tornasse al Padre prima di ricevere il Paraclito? Gesù torna al Padre e, dal movimento contrario, arriva il Consolatore. Prima i discepoli non comprendevano, dopo comprendono. Non capisco. Ma posso aprirmi al mistero di ciò che Qualcuno reputa necessario e che, come tale, si oppone necessariamente tanto alla casualità quanto all’arbitrio?

Abitare il mondo, generarlo: che siano madri o no, laiche o credenti, questo da sempre fanno le donne. Non è un destino imposto dalla genetica né una vocazione innata quanto piuttosto un’abilità preziosa con cui le donne, al mondo, si rapportano. L’attualità, certo, richiama ben altri scenari. Quale fede, quale vita, quale mondo ha nel cuore una madre che piange felice di fronte al figlio avviato al martirio?
Del ruolo della vita e della morte all’interno della fede e della cultura nonché degli esiziali equivoci che intorno a questo nodo cruciale si sono, nel corso dei secoli, ingenerati, vorrei parlare. Lo faccio da donna e da ebrea. Attingendo agli insegnamenti dei miei maestri e delle mie maestre.
«Quando gli angeli videro che il Signore aveva ascoltato la preghiera di Abramo e guarito il re dei filistei della sua infermità, levarono alte grida a Dio: “Signore del mondo! Per tutti questi anni Sara è rimasta sterile, e così anche la moglie di Abimelec. Ma ora, appena Abramo ti ha invocato, quest’ultima ha concepito un figlio: sarebbe dunque giusto che ti ricordassi anche di Sara!”. Era il giorno del capodanno, quando in cielo si decidono le sorti degli uomini per il tempo successivo, e per questo le parole degli angeli sortirono il loro effetto: sette giorni dopo, nel primo giorno della Pasqua, Isacco vide la luce. La nascita di Isacco non fu un lieto evento soltanto per la casa di suo padre: oltre che di Sara, infatti, Dio si ricordò allora di tutte le donne sterili, facendo felice il mondo intero. E non solo queste divennero feconde, ma i ciechi acquistarono la vista e gli zoppi l’andatura normale, i muti parlarono e i matti tornarono savi».
Così Louis Ginzberg, nell’opera Le leggende degli ebrei, racconta la nascita di Isacco, una nascita attraverso cui il Signore fece felice il mondo intero. Ma come può un singolo evento — peraltro intimo, privato, familiare — far felice il mondo intero?
Spiega il Midrash Tanchumà che tutto il creato — la terra, i cieli, il sole, la luna — fu rallegrato dalla nascita di Isacco, perché senza questo evento il mondo avrebbe cessato di esistere. E in Bereshit Rabbà leggiamo: «Chiunque sente parlare della nascita ne gioisce — esclamò Sara — perché Hashèm (il Nome) ha benedetto il mondo intero grazie a me».
Una nascita, non un martirio. E non una nascita qualsiasi, ma la nascita. Quella che non solo dischiude il ventre di Sara ma che sostiene il mondo e lo fa esistere. Nella Torah, lo sappiamo, nulla è detto né accade per caso. Dunque non può essere un caso che la sterilità affligga e accomuni le nostre matriarche con la sola eccezione di Lia.
Il termine ‘aqarà (sterile) deriva da una radice ebraica che esprime anche il senso dello sradicamento (laaqor, sradicare; leìaaqer, essere sradicati). È su questa base che l’esegesi rabbinica interpreta il lungo periodo di sterilità delle matriarche — tutte sradicate da una terra “impura” — come un tempo necessario affinché si realizzi un reale distacco dal mondo panteistico.
Un’interpretazione che tuttavia poco aiuta a sciogliere i nodi che la sterilità crea persino all’interno di una lettura del testo biblico: come la mettiamo, per esempio, con la mitzvà (precetto) del perù urvù (prolificate e moltiplicatevi)? E che senso diamo alla benedizione fatta ad Abramo, «farò di te una grande nazione (…) si benediranno in te tutte le famiglie della terra»? Anzi, che senso diamo a tutte le benedizioni che, nella Torah, sono sempre dono di fecondità e di vita?
Hashèm (il Nome) benedice ma le matriarche restano sterili. Certo: verrà il momento in cui aprirà il loro grembo ma per l’intanto Sara, Rebecca e Rachele soffrono chiuse nella loro “incompiutezza”. Incompiute, non ancora “edificate”, così si sentono.
Dice Sara ad Abramo: «Ecco, il Signore mi ha impedito di generare, vieni dunque dalla mia schiava, forse sarò edificata da lei» (Genesi 16, 2). E Rachele: «Ecco la mia ancella Bilhà, vieni da lei, così che partorisca sulle mie ginocchia e anche io sia edificata da lei» (Genesi 30, 3). Maternità surrogate, diremmo oggi, che non servono però a lenire il dolore e la sofferenza. Sara, Rebecca e Rachele restano sterili.
Perché? Forse perché era necessario. La loro sterilità serve a dirci l’importanza del suo contrario. Sia chiaro: non stiamo parlando di orologi biologici che battono l’ora impazziti né della tanto decantata vocazione femminile alla maternità.
La nascita è, qui, una categoria necessaria a pensare il mondo. Il piano su cui ci si muove è, piuttosto, teologico-esistenziale: precetti e benedizioni rischiano di cadere nel vuoto sino a che non si dischiuda ventre di donna. Lo stesso creato teme per la propria vita e ride di un riso liberatorio solo nel momento in cui Isacco viene al mondo: il pericolo è scongiurato. Il grembo di Sara ha (ri)messo al mondo il mondo.
Con un passaggio fondamentale — la nascita come cardine del mondo e della sua dicibilità — la Torah scarta qualsiasi altra tradizione, nullifica il valore del martirio e ritorna nel mondo terreno. Un mondo non sempre in contrasto con quello celeste, come qualcuno sarebbe portato a credere. «In cielo come in terra» recita il Padre nostro ed è lo stesso Gesù a presentarsi come «la via, la verità e la vita». Di morte non parla. Da Sara, dunque, non nasce solo Isacco.
Se la realtà non è l’insieme di fatti nudi e crudi ma piuttosto l’ordine simbolico che il pensiero (il linguaggio, la cultura, i codici sociali) attribuisce al mondo, allora — con la nascita — Sara dà vita a un imprevisto ordine simbolico femminile. Un ordine al cui interno si staglia serena una forma di autorità femminile che, lungi dal contrapporsi alla forma maschile del potere, l’aggira sottraendosi alle sue regole.
La nascita è il luogo da cui quell’autorità origina perché senza nascita non c’è mondo. È questo che ci dice Hashèm (il Nome) dischiudendo il grembo incredulo di Sara e ponendo la nascita al centro del mondo stesso.
Siamo nel cuore di una vera e propria rivoluzione gnoseologica. Scrive Hannah Arendt ne La vita della mente: «Lungo tutta la storia della filosofia [occidentale] persiste l’idea davvero singolare di un’affinità tra la filosofia e la morte». Gran bel paradosso! Esisterebbero due mondi: uno reale e uno che è solo mera apparenza. Qualsiasi persona dotata di buon senso sarebbe portata a pensare che il mondo reale è quello in cui si nasce e si muore, ci si innamora, si stringono amicizie, si fa politica, si costruiscono famiglie.
E invece no. Il mondo reale è quello che i filosofi hanno definito «il mondo delle idee» e che altri hanno preferito chiamare inferno o paradiso. Per gli uni è il mondo del pensiero, per gli altri quello dell’anima. In un caso come nell’altro è il mondo che ha separato l’anima dal corpo condannando quest’ultimo all’irrilevanza. Apparente e caduco il corpo. E allora cosa vuoi che sia un martirio? Reali l’anima e il pensiero.
In tutt’altra direzione va la tradizione ebraica perché la nascita di Isacco ha riscattato quel mondo dall’irrealtà e ha messo la prassi al posto di un pensiero che infruttuosamente, e per secoli, ha pensato solo se stesso.
Il cambio di prospettiva è totale. La nascita consente il radicamento nella realtà, chiama alla vita soggetti singolari che ricuciono incessantemente quei corpi e quei pensieri che l’occidente voleva separati e inconciliabili. Ed è per questo che il mondo ride.
Questo mondo, e con esso le creature che vi abitano, può essere finalmente pensato e detto — reso reale, insomma — all’interno di un nuovo ordine simbolico che nasce da corpo di donna.
Non è un caso, del resto, che proprio grazie alla riflessione di una donna — di una donna ebrea — la categoria della natalità abbia assunto una posizione assolutamente centrale nella filosofia del Novecento. Si deve infatti ad Hannah Arendt il merito di aver messo in campo una categoria critica — quella della natalità, appunto — in grado di far saltare l’intero apparato metafisico costruito sulla morte e sulla “mortificazione” dell’apparire stesso.
Nasce dunque il mondo, quando il Signore ne dischiude il grembo. Rinasce il mondo, sotto lo sguardo accogliente ma sempre autorevole delle donne. Nasce e si mette in cammino.

di Iaia Vantaggiato – L’Osservatore Romano