Le Lettere di Sandokan – Ciao
Ci siamo salutati. Molti sono oramai partiti. Noi invece restiamo, perché questa è casa nostra. E poi abbiamo i nostri impegni, il nostro lavoro, i nostri interessi che ci tengono ancorati in un luogo e che limitano il nostro tempo.
Mia figlia vorrebbe che lei si trasferisse qui da noi, che vivesse per sempre con noi, ma lei non può e neanche vuole. Ha i suoi luoghi, i suoi impegni, che la spingono a partire piuttosto che a restare. La sua casa le piace di più della nostra, è normale. Lo sa anche lei che è normale, però è dispiaciuta lo stesso. Non è che se dici che una cosa è “normale” smetti di piangere. Perché anche piangere è “normale”.
Si sono abbracciate e si sono promesse fotografie. E poi hanno iniziato davvero a raccontarsi le loro piccole storie, per telefono, per un po’. Hanno paura di dimenticarsi l’una dell’altra. Di trovare cose più interessanti da fare e persone più interessanti da incontrare. Non è che me l’abbia detto, è che da bambino ero anch’io un po’ così. Forse anche ora sono un po’ così.
Quando si son riviste, a inizio estate, dopo un anno di lontananza, stentavano quasi a riconoscersi. E’ tanto un anno per una bambina. Mia figlia, la più piccola, si nascondeva dietro le mie spalle. Si vergognava a dirle “ciao”, in aeroporto. Forse perché le sembrava troppo poco, ma in quel momento era l’unica cosa da dire, per lei. L’unica cosa di cui si sentisse sicura, l’unica parola che non correva il rischio di essere ignorata, o trascurata, da lei. Perché a un “ciao” tutti rispondono con un altro “ciao”, almeno per educazione. Non si rimane in silenzio dopo un “ciao”. Non ci si mette a parlare d’altro se non dopo aver ricambiato il saluto.
Ma dopo il “ciao” accostò la sua bocca al mio orecchio e mi sussurrò, stando ben attenta a farsi sentire: «Papà, ha il seno! Hai visto?». Perché lei sussurra per farsi sentire, ha sempre fatto così.
Ora che torniamo a casa, che l’estate è finita, cerca di arginare la tristezza come le viene meglio, chiacchierando in macchina con me. «Sarebbe bello», mi dice, quasi per crearsi l’occasione, la possibilità di un sorriso, «che uno la sua casa se la portasse appresso, come se fosse una roulotte». Tutta una carovana di roulotte! Come i pionieri d’America in viaggio per il Far West.
«Ma non si può», le faccio io. «Non siamo mica lumache. Viviamo di corsa».
È un po’ delusa dalla mia risposta, mi ha parlato per “sperare” e le ho consegnato “rassegnazione”.
«Ma anch’io dovrò partire, un giorno?».
«Sì, credo di sì. Lo farai con un po’ di dispiacere, spero. E anch’io sarò un po’ triste, dopo averti lasciato al binario, come faceva il nonno con me, o in aeroporto. Ma poi mi farò coraggio e mi dirò che non devo rassegnarmi alle tue partenze, e non devo neanche forzarmi all’allegria. Non dirò, tra me e me: “così è la vita”. Tratterrò il dolore sperando nei tuoi ritorni. Spererò sempre nei tuoi ritorni e imparerò, col tempo, a non pretenderli. Se non avrai niente di più urgente da fare. Altrimenti, aspetterò».
«Somiglia un po’ al “fai come vuoi” della mamma».
«Devi darmi un po’ di tempo. Mi sto preparando, al momento il discorso non mi viene tanto bene».
Sorride, sorridiamo. E’ bello quando i discorsi finiscono con un sorriso.
Sandokan è la Tigre della Malesia, questo si sa. In verità negli anni della sua giovinezza – quando il corpo esultava – le tigri, lui, le uccideva. Ma poi scelse la via di Lutet con i draghi. È l’eroe di sua figlia che, bambina, gli diceva: “Voglio essere anch’io una tigre, una tigre-femmina! Si può?”. “Certo che si può! Ma cosa credi che faccia una tigre tutto il giorno?”. “Lo so, lo so! Legge, studia e racconta favole!