Blog / Sandokan | 23 Aprile 2015

Le Lettere di Sandokan – Partenze

Diversi anni fa visitai Ellis Island, a New York. E’ un isolotto sulla foce del fiume Hudson sul quale venivano sbarcati gli immigranti che desideravano entrare “ufficialmente” negli Stati Uniti. Tra le cose che vidi ricordo un filmato – la voce narrante, inglese, era quella di Gene Hackman – nel quale furono montate anche “voci”, registrate chissà quando, di gente appena sbarcata. Una babele di lingue incomprensibili, tra le quali distinsi chiaramente qualcuno che cercava di farsi capire da altri parlando il dialetto della mia terra.
Ricordo che mi commossi. Ero un emigrante anch’io, allora.
Niente di drammatico, neanche mi accorsi di esserlo, all’inizio. Forse perché emigrai in cuccetta, forse perché emigrai “per studiare”. L’avevano fatto tutti in famiglia, tutti quelli bravi. E io ero bravo, lo dicevano i compagni, lo dicevano i professori, e quindi “dovevo” emigrare, per gratitudine nei confronti di chi aveva un’alta opinione di me, e così non ci pensai troppo. Non avevo ancora diciotto anni.
Un giorno mio padre mi accompagnò in stazione, mi sistemò i bagagli nello scompartimento, mi raccomandò di chiudermi dentro, perché c’erano i ladri sui treni, diede un’occhiata in giro per vedere se per caso ci fosse qualche suo conoscente al quale potesse raccomandare suo figlio e poi aspettò, sul marciapiede, che il treno partisse.
Partii così, la prima volta. E partii così anche tutte le altre volte, perché questa scena, sempre la stessa, si ripeté spesso. Uguale anche nei dettagli: appena mio padre scendeva dal treno, io cominciavo a preparare il letto. Avevo sempre fretta di sistemarmi, di leggere il libro che avevo con me o il fumetto che lui era andato a comprarmi nell’attesa che il treno partisse. Se lui se ne fosse andato via subito – vi confesso che qualche volta ci ho anche sperato – l’avrei fatto di sicuro: mi sarei sdraiato, avrei spento il neon e acceso la lucina di fianco alla cuccetta, e avrei iniziato a leggere, desiderando che lo scompartimento rimanesse vuoto, come era di solito al nostro arrivo, sempre troppo in anticipo sull’orario di partenza. Però sapevo che lui non se ne sarebbe mai andato. Sapevo che lui avrebbe aspettato la partenza del treno. Aspettava sempre.
Non che fosse un sentimentale, non credo si sia mai commosso in queste occasioni, come invece capitava a me, di nascosto. Non è stato, per esempio, mai sfiorato dal pensiero che un giorno avrebbe potuto avere dei nipoti che non lo avrebbero capito, se mai lui avesse provato a rivolgersi a loro in dialetto, che sarebbero andati di malavoglia a salutarlo al telefono per gli auguri di Natale, che avrebbero ascoltato senza sorridere, da estranei, i suoi racconti d’infanzia. Stava lì ad aspettare semplicemente perché non considerava “cortese” separarsi volontariamente da nessuno: preferiva che fosse il movimento del treno ad “allontanarci”. Era stata la vita a collocare lui sul marciapiede e me sul vagone. Questo voleva mostrarmi.
Se il treno non fosse mai partito, saremmo rimasti per sempre così: lui sul marciapiede e io sul vagone, a guardarci. Per tutta la vita. Ma il treno partiva sempre, e così, al fischio del capostazione, mi sporgevo per salutarlo. Mi affacciavo muovendo la mano, come faceva anche lui, finché non scompariva. Poi tiravo su il finestrino rimanevo lì per un po’, con la fronte schiacciata al vetro, a guardare il lungomare, gli alberi, le case. Dalle mie parti c’è sempre la ferrovia tra le case e il mare e quindi da un treno in corsa si può scegliere se guardare le case o il mare. Ho sempre scelto di guardare le case, anche se tutti vengono dalle mie parti per vedere il mare.
Al mattino presto ero già a destinazione. Il viaggio non era lungo. Mi svegliava il rumore degli scambi in prossimità di una stazione. Scendevo dalla cuccetta e uscivo in corridoio, guardando la lucina della toilette, sempre rossa di prima mattina. E aspettavo di poter entrare, guardando fuori con i capelli un po’ spettinati. Prima terreni coltivati, poi piccole abitazioni e poi case, finalmente. Diverse da quelle che avevo lasciato, ma pur sempre case. Me ne ricordo una sulla cui facciata era dipinta una scritta di epoca fascista. Faceva così: “se insisti e resisti, ottieni e conquisti”. Pareva scritta per me.
Sceso dal treno, i miei pensieri mutavano, come le mie giornate. Ai miei viaggi, alle mie partenze e ai miei arrivi non pensavo più. Finché non mi capitava di incontrare uno delle mie parti, uno che forse non avrei neanche salutato se lo avessi incrociato nella mia città. E invece lì, in terra straniera, fuori dal nostro mondo, ci trattavamo da fratelli. Ci raccontavamo storie di conoscenze comuni, di gente di cui non ci importava molto, ma che ci ricordava casa nostra.
Sono stato bene, per molti anni, fuori casa. Ma non ho mai avuto dubbi sul fatto che non fossi a casa mia. Poi, un bel giorno, dopo tanto tempo, sono ritornato.