Blog / Le Lettere dal carcere / Lettere | 12 Aprile 2015

La Lettera di Nadia Bizzotto

Mercoledì scorso, con la Lettera “Impiccati tra le sbarre”,  il blog Come Gesù si è aperto ai carcerati italiani. Ciò è stato possibile grazie a Nadia Bizzotto della Comunità Giovanni XXIII di don Oreste Benzi: è con lei infatti che ci siamo scritti e telefonati. Oggi Nadia scrive al blog questa commovente testimonianza. Poiché i carcerati non hanno accesso a internet sarà lei il nostro tramite con loro. A lei va già un mio grandissimo grazie. Spero si aggiunga anche il vostro

Credo di essere nata sapendo che avrei avuto un destino particolare. E’ quella strana consapevolezza che non ha fondamenti scientifici ma che arriva molto prima dei fatti, molto prima di quei avvenimenti che hanno fatto di me una bambina e un’adolescente “diversa” e molto prima di quell’incidente stradale che mi ha costretto in una carrozzina all’età di 21 anni. Non è questo il luogo dove parlare della mia vita e dove raccontare la mia esperienza, ma dovendo centrare il tema devo concentrarmi sul mio rapporto con il mondo del carcere e per farlo non posso scindere da chi sono oggi. Faccio parte di una grande famiglia, la Comunità Papa Giovanni XXIII, in cui mi ritrovo fortissimamente come carisma, indentità e appartenenza. Comunità fondata da un grande prete, Don Oreste Benzi, che ci ha lasciato nel 2007 ma il cui ricordo ed esempio è ancora vivissimo in noi, ha come particolare carisma condividere la vita con coloro che nessuno vuole, con coloro che vivono ai margini della società, con gli “ultimi”…

Da sempre “anima in pena”, in cerca di esperienze e motivazioni forti per dare un senso profondo a questa mia esistenza, a questo vivere adesso-qui-oggi, di questa Comunità mi è sempre piaciuta la concretezza, l’agire, l’andare contro tutti in favore di chi non è difeso da nessuno, il non poter dormire in pace sapendo che qualcuno ha bisogno, che fuori della tua calda casa c’è qualcuno che soffre: credo, spero, siamo questi oggi i segni particolari della mia carta di indentità. Tra le esperienze più particolari annovero sei mesi di condivisione con gli zingari in un campo nomadi,   decine e decine di notti trascorse in strada tra le ragazze schiavizzate e costrette a prostituirsi.

Ho ammirato da fuori questa Comunità quando agli inizi degli anni Novanta andava tra le popolazioni in guerra nella ex Yugoslavia: non riuscivo a capire perché delle persone “normali” andavano tra le popolazioni in guerra, per stare con loro. E andavano sia in un fronte che nell’altro. Non capivo questa “follia” ma ne ero affascinata.

Il mio primo contatto diretto con la Comunità fu una sera alla “Capanna di Betlemme”: una casa dove la notte trovano riparo e cibo caldo tutti i barboni e i senza tetto della stazione di Rimini e non solo.

Oggi sono passati un po’ di anni, sono responsabile di una delle tante realtà di accoglienza della Comunità Papa Giovanni XXIII, dove la quotidianità spesso assorbe ogni energia, ma è facile capire che nell’ottica del nostro carisma che ci spinge a rimuovere le cause che creano ingiustizia, a condividere, non solo fare assistenza, non ho mai disdegnato inviti “forti”. Ecco che allora più volte negli anni, anche se in maniera sporadica, sono entrata nelle carceri in cui altri membri di comunità portavano avanti progetti di incontro e colloquio con i detenuti. Fino al quel giugno 2007, quando venne Don Oreste al carcere di Spoleto. Ricordo quel giorno con difficoltà, non perché sia passato troppo tempo, ma perché ha segnato la mia vita. Non avevo mai incontrato ergastolani, conoscevo l’alta sicurezza, persone condannate a pene molto, molto, lunghe, ma non sapevo che cosa fosse un fine pena mai. Non avevo mai visto il volto di uomini che volevamo far morire in carcere, persone murate vive. Quel giorno erano lì, davanti a noi, a raccontarci questa storia assurda dell’ergastolo ostativo, persone vere, che sembravano più dei collegiali tristi che delinquenti pericolosi. Persone che raccontavano storie umanissime, drammi immensi e che non chiedevano sconti, né si proclamavano innocenti. Volevano solo una speranza e qualcuno che portasse fuori la loro voce. Dicevano che erano sepolti vivi, con la benedizione della Legge e della cosidetta giustizia, ma volevano almeno che qualcuno lì fuori lo sapesse a che cosa li avevamo condannati. Don Oreste, da sempre un po’ più avanti degli altri grazie a quella “luce” della mente che è propria dei santi anche quando sono ancora in vita, disse subito di sì, disse che li avremmo aiutati, che saremmo stati al loro fianco. Solo qualche mese dopo Don Oreste morì, ma nel suo ultimo discorso pubblico, alle Settimane Sociali di Pisa nell’ottobre 2007, parlò degli ergastolani di Spoleto, parlò di loro fino alla fine, dello sciopero della fame che avrebbero iniziato di lì a poco. Sì, perché pochi sanno che centinaia e centinai di ergastolani per anni hanno fatto lo sciopero della fame nel mese di dicembre, per richiamare l’attenzione sulla loro situazione. E sono stati sempre puntualmente ignorati dai media. Eppure stavano rischiando tutto quello che avevano: la loro vita in cambio di una speranza di vita. Quanto avrei voluto ignorarli anch’io. Eppure ci ho provato. Fino a quel dicembre 2007: ero una settimana all’estero in una delle rarissime vacanze con la mia famiglia, ma non trovavo pace, tutti i giorni pensavo a loro e mentre mi abbuffavo di cibi succulenti pensavo a questi uomini che non mangiavano da settimane per far sentire la loro voce. Eppure nessuno ne parlava. Così tutti i giorni cercavo un internet point per andare a leggere il sito di Informacarcere e il diario di Carmelo Musumeci, con la speranza di trovare la notizia che avevano smesso, così almeno potevo godermi la mia vacanza. Ma non fu così, non mi godei quella vacanza e tornata a casa non smisi più di seguirli: in cuor mio avevo già deciso che sarei diventata “voce di chi non ha voce”.

Complice il fatto che venne a vivere nelle mia stessa casa di accoglienza un altro ragazzo, Giuseppe Angelini, oggi responsabile generale del servizio carcere della Comunità, che già frequentava le patrie galere e che aveva portato Don Oreste a Spoleto, nei mesi seguenti il contatto con loro divenne sempre più forte fino a richiedere di essere autorizzata ad entrare in carcere in modo continuativo. Posso dire che non avrei pensato mai di poter conoscere tanta umanità, tante persone splendide e senza retorica posso dire che questa esperienza mi ha cambiato-e mi sta cambiando- la vita. Ma parlare di esperienza è riduttivo, perché la storia, la vita di questi uomini, mi hanno preso in maniera tale da non trovare pace finchè qualcosa non cambierà anche per loro.

Molti trovano assurdo che si possa perdere tempo e energie con persone che hanno fatto cose orrende e molti pensano che non abbiano diritto, oltre che a nessuna pietà, a nessun aiuto e appoggio, né concreto, né in termini di solidarietà.

Mi spinge innnanzitutto l’eredità lasciataci da Don Oreste nel suo pensiero espresso con lo slogan “L’uomo non è il suo errore”: ogni volta che mi trovo davanti ad uno di loro riesco solo a vedere un uomo, con la sua totale dignità, che molto spesso soffre con una dignità che molti di noi “liberi” non abbiamo, vedo un volto segnato, stanco di aspettare un giorno che non esiste, che non verrà MAI: 31/12/9999. Più che uomini cattivi, vedo uomini maturati e plasmati alla scuola della sofferenza. Le persone che incontro hanno alle spalle mediamente oltre vent’anni di detenzione, alcuni trenta o più, alcuni sono stati condannati all’ergastolo all’età di 18-20 anni e ora hanno trascorso più anni della loro vita in carcere che fuori. Quasi tutti non sono mai usciti, neppure un giorno, neppure per il funerale dei genitori, nessun Natale in famiglia, nessun permesso, MAI. E’ questa parola tremenda che segna quanto può essere malvagio l’animo umano che prima pensa, rende applicabili certe pene e poi dimentica e ignora che dietro ad ogni legge c’è sempre un uomo che paga, e non necessariamente è il più “cattivo”.

Sembra retorica, eppure io non posso non dire che quello che ho ricevuto da questi uomini è tantissimo, che è molto, molto, di più quello che loro hanno dato a me che non quello che miseramente io sono riuscita a dare loro. A volte mi sento così impotente nel non poter e nel non riuscire a cambiare la loro situazione! Eppure ogni volta che esco dal carcere, dopo che sono stata con loro, mi sento una persona migliore di come sono entrata, arricchita della loro umanità. Entro in un girone dell’inferno dantesco, perché le nostre galere sono oggi una cosa indegna di una società civile, eppure quello che trovo lì dentro mi arricchisce e mi cambia profondamente. Ho la consapevolezza di essere, e mi sento, “privilegiata” perché posso entrare in posti così poco accessibili (come lo sono tutte le istituzioni che hanno molto da nascondere) eppure ogni volta mi struggo perché gli altri non vedono e non sentono quello che vedo e sento io. Questa è per me una grandissima sofferenza: sapere che questo mondo è precluso e ignorato ai più. A volte penso che certe cose dovrebbero andare in onda a reti nazionali e unificate, perché farebbero un gran bene al pensiero comune e sfaterebbero tanti luoghi comuni, ben mantenuti da chi sa che certe posizioni producono tanti voti in sede elettorale.

Mi faccio un giorno di galera a settimana, perché non posso smettere, perché “chi ha visto non può più far finta di non aver visto”, così diceva il mio Don e ogni volta torno fuori con il timore di non riuscire a rappresentarli bene, di non fare abbastanza per loro, di tradire il loro dolore. Ogni volta che varco quel cancello mi sento in colpa perché posso assaporare la libertà, perché posso tornare a casa, perché posso abbracciare e baciare chi amo, perché posso godere del sole e di tutta la natura intorno.

A volte vorrei scappare da tanto dolore, da quei volti che settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, rincontro sempre lì, senza che per loro mai nulla sia cambiato, senza che nessuna prospettiva si sia aperta per loro. Ci sono uomini anziani, qualcuno in carrozzina, altri che zoppicano, vedo il tempo passare sui loro volti e lasciare solchi profondi. Vedo persone sempre lì, le incontro dopo mesi e dopo anni: sono sempre lì, non sono mai uscite un giorno, non c’è Natale, né Pasqua, estate, inverno, nulla…. Non usciranno MAI. Vedo uomini, profondamente umani, rinchiusi come animali in gabbia, in nome della nostra sicurezza. Uomini che a me hanno fatto molto bene e che farebbero molto bene anche alla società esterna perché: “Quando un uomo ha capito i propri sbagli ogni giorno di galera in più è un giorno sprecato per il bene dell’umanità”

Ma io rimango qui e continuerò ad essere la loro testimonianza fuori, per quelli che non sanno, perché non c’è nulla di più facile che aver paura di ciò che non si conosce, continuerò ad essere la loro voce, le loro urla dal silenzio.

Nadia Bizzotto – Comunità Papa Giovanni XXIII

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