Papa Francesco – Discorso ai vescovi asiatici: “il dialogo si fa con l’empatia non le formule”
Dialogo non vuol dire tanto aprirsi all’altro ma accoglierlo, condividere le sue aspirazioni e le sue difficoltà. In una parola, è una questione di saper suscitare “empatia”, mantenendo un atteggiamento fraterno. Papa Francesco lo ha affermato nell’incontro con i vescovi dell’Asia, il primo degli impegni che ha aperto la sua terza giornata in terra coreana. Circa 400 persone hanno ascoltato il Papa nel Santuario di Haemi, conosciuto anche come “Santuario del martire ignoto”, perché l’identità della maggior parte dei 132 martiri torturati e uccisi nel luogo non è nota.
Desidero rivolgervi un fraterno e cordiale saluto nel Signore, mentre siamo radunati in questo luogo santo, nel quale numerosi cristiani hanno donato la loro vita per la fedeltà a Cristo. Mi dicevano che ci sono i martiri senza nome, perché noi non ne conosciamo i nomi: sono santi senza nome. Ma questo mi fa pensare a tanti, tanti cristiani santi, nelle nostre chiese: bambini, ragazzi, uomini, donne, vecchietti… tanti! Non conosciamo i nomi, ma sono santi. Ci fa bene pensare a questa gente semplice che porta avanti la sua vita cristiana, e soltanto il Signore conosce la sua santità. La loro testimonianza di carità ha portato grazie e benedizioni alla Chiesa in Corea ed anche al di là dei suoi confini: le loro preghiere ci aiutino ad essere pastori fedeli delle anime affidate alla nostra cura. Ringrazio il cardinale Gracias per le gentili parole di benvenuto e per il lavoro svolto dalla Federazione delle Conferenze Episcopali dell’Asia nel dare impulso alla solidarietà e promuovere l’azione pastorale nelle vostre Chiese locali.
In questo vasto Continente, nel quale abita una grande varietà di culture, la Chiesa è chiamata ad essere versatile e creativa nella sua testimonianza al Vangelo, mediante il dialogo e l’apertura verso tutti. Questa è la sfida vostra! In verità, il dialogo è parte essenziale della missione della Chiesa in Asia (cfr Ecclesia in Asia, 29). Ma nell’intraprendere il cammino del dialogo con individui e culture, quale dev’essere il nostro punto di partenza e il nostro punto di riferimento fondamentale che ci guida alla nostra meta? Certamente esso è la nostra identità propria, la nostra identità di cristiani. Non possiamo impegnarci in un vero dialogo se non siamo consapevoli della nostra identità. Dal niente, dal nulla, dalla nebbia dell’autocoscienza non si può dialogare, non si può incominciare a dialogare. E, d’altra parte, non può esserci dialogo autentico se non siamo capaci di aprire la mente e il cuore, con empatia e sincera accoglienza verso coloro ai quali parliamo. E’ un’attenzione, e nell’attenzione ci guida lo Spirito Santo. Un chiaro senso dell’identità propria di ciascuno e una capacità di empatia sono pertanto il punto di partenza per ogni dialogo. Se vogliamo comunicare in maniera libera, aperta e fruttuosa con gli altri, dobbiamo avere ben chiaro ciò che siamo, ciò che Dio ha fatto per noi e ciò che Egli richiede da noi. E se la nostra comunicazione non vuole essere un monologo, dev’esserci apertura di mente e di cuore per accettare individui e culture. Senza paura: la paura è nemica di queste aperture.
Il compito di appropriarci della nostra identità e di esprimerla si rivela tuttavia non sempre facile, poiché, dal momento che siamo peccatori, saremo sempre tentati dallo spirito del mondo, che si manifesta in modi diversi. Vorrei qui segnalarne tre. Il primo di essi è l’abbaglio ingannevole del relativismo, che oscura lo splendore della verità e, scuotendo la terra sotto i nostri piedi, ci spinge verso sabbie mobili, le sabbie mobili della confusione e della disperazione. È una tentazione che nel mondo di oggi colpisce anche le comunità cristiane, portando la gente a dimenticare che «al di là di tutto ciò che muta stanno realtà immutabili; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli» (Gaudium et spes, 10; cfr Eb 13,8). Non parlo qui del relativismo inteso solamente come un sistema di pensiero, ma di quel relativismo pratico quotidiano che, in maniera quasi impercettibile, indebolisce qualsiasi identità.
Un secondo modo attraverso il quale il mondo minaccia la solidità della nostra identità cristiana è la superficialità: la tendenza a giocherellare con le cose di moda, gli aggeggi e le distrazioni, piuttosto che dedicarsi alle cose che realmente contano (cfr Fil 1,10). In una cultura che esalta l’effimero e offre numerosi luoghi di evasione e di fuga, ciò presenta un serio problema pastorale. Per i ministri della Chiesa, questa superficialità può anche manifestarsi nell’essere affascinati dai programmi pastorali e dalle teorie, a scapito dell’incontro diretto e fruttuoso con i nostri fedeli, e anche con i non-fedeli, specialmente i giovani, che hanno invece bisogno di una solida catechesi e di una sicura guida spirituale. Senza un radicamento in Cristo, le verità per le quali viviamo finiscono per incrinarsi, la pratica delle virtù diventa formalistica e il dialogo viene ridotto ad una forma di negoziato, o all’accordo sul disaccordo. Quell’accordo sul disaccordo… perché le acque non si muovano… Questa superficialità che ci fa tanto male.
C’è poi una terza tentazione, che è l’apparente sicurezza di nascondersi dietro risposte facili, frasi fatte, leggi e regolamenti. Gesù ha lottato tanto con questa gente che si nascondeva dietro le leggi, i regolamenti, le risposte facili… Li ha chiamati ipocriti. La fede per sua natura non è centrata su se stessa, la fede tende ad “andare fuori”. Cerca di farsi comprendere, fa nascere la testimonianza, genera la missione. In questo senso, la fede ci rende capaci di essere al tempo stesso coraggiosi e umili nella nostra testimonianza di speranza e di amore. San Pietro ci dice che dobbiamo essere sempre pronti a rispondere a chiunque ci domandi ragione della speranza che è in noi (cfr 1 Pt 3,15). La nostra identità di cristiani consiste in definitiva nell’impegno di adorare Dio solo e di amarci gli uni gli altri, di essere al servizio gli uni degli altri e di mostrare attraverso il nostro esempio non solo in che cosa crediamo, ma anche in che cosa speriamo e chi è Colui nel quale abbiamo posto la nostra fiducia (cfr 2 Tm 1,12).
Per riassumere, è la fede viva in Cristo che costituisce la nostra identità più profonda, cioè essere radicati nel Signore. E se c’è questo, tutto il resto è secondario. È da questa identità profonda, la fede viva in Cristo nella quale siamo radicati, da questa realtà profonda che prende avvio il nostro dialogo, ed è questa che siamo chiamati a condividere in modo sincero, onesto, senza presunzione, attraverso il dialogo della vita quotidiana, il dialogo della carità e in tutte quelle occasioni più formali che possono presentarsi. Poiché Cristo è la nostra vita (cfr Fil 1,21), parliamo di Lui e a partire da Lui, senza esitazione o paura. La semplicità della sua parola diventa evidente nella semplicità della nostra vita, nella semplicità del nostro modo di comunicare, nella semplicità delle nostre opere di servizio e carità verso i nostri fratelli e sorelle.
Vorrei ora fare riferimento ad un ulteriore elemento della nostra identità di cristiani: essa è feconda. Poiché continuamente nasce e si nutre della grazia del nostro dialogo con il Signore e degli impulsi dello Spirito, essa porta un frutto di giustizia, bontà e pace. Permettetemi quindi di farvi una domanda circa i frutti che l’identità di cristiani sta portando nella vostra vita e nella vita delle comunità affidate alla vostra cura pastorale. L’identità cristiana delle vostre Chiese particolari appare chiaramente nei vostri programmi di catechesi e di pastorale giovanile, nel vostro servizio ai poveri e a coloro che languiscono ai margini delle nostre ricche società e nei vostri sforzi di alimentare le vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa? Appare in questa fecondità? Questa è una domanda che faccio, e ognuno di voi può pensarci.
Infine, assieme ad un chiaro senso della nostra propria identità di cristiani, il dialogo autentico richiede anche una capacità di empatia. Perché ci sia dialogo, dev’esserci questa empatia. La sfida che ci si pone è quella di non limitarci al ascoltare le parole che gli altri pronunciano, ma di cogliere la comunicazione non detta delle loro esperienze, delle loro speranze, delle loro aspirazioni, delle loro difficoltà e di ciò che sta loro più a cuore. Tale empatia dev’essere frutto del nostro sguardo spirituale e dell’esperienza personale, che ci porta a vedere gli altri come fratelli e sorelle, ad “ascoltare”, attraverso e al di là delle loro parole e azioni, ciò che i loro cuori desiderano comunicare. In questo senso, il dialogo richiede da noi un autentico spirito “contemplativo”: spirito contemplativo di apertura e di accoglienza dell’altro. Io non posso dialogare se sono chiuso all’altro. Apertura? Di più: accoglienza! Vieni a casa mia, tu, nel mio cuore. Il mio cuore ti accoglie. Vuole ascoltarti. Questa capacità di empatia ci rende capaci di un vero dialogo umano, nel quale parole, idee e domande scaturiscono da un’esperienza di fraternità e di umanità condivisa. Se vogliamo andare al fondamento teologico di questo, andiamo al Padre: ci ha creato tutti. Siamo figli dello stesso Padre. Questa capacità di empatia conduce ad un genuino incontro – dobbiamo andare verso questa cultura dell’incontro – in cui il cuore parla al cuore. Siamo arricchiti dalla sapienza dell’altro e diventiamo aperti a percorrere insieme il cammino di una più profonda conoscenza, amicizia e solidarietà. “Ma, fratello Papa, noi facciamo questo, ma forse non convertiamo nessuno o pochi…”. Intanto tu fai questo: con la tua identità, ascolta l’altro. Qual è stato il primo comandamento di Dio Padre al nostro padre Abramo? “Cammina nella mia presenza e sii irreprensibile”. E così, con la mia identità e con la mia empatia, apertura, cammino con l’altro. Non cerco di portarlo dalla mia parte, non faccio proselitismo. Papa Benedetto ci ha detto chiaramente: “La Chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione”. Nel contempo, camminiamo nella presenza del Padre, siamo irreprensibili: compiamo questo primo comandamento. E lì si farà l’incontro, il dialogo. Con l’identità, con l’apertura. E’ un cammino di una più profonda conoscenza, amicizia e solidarietà. Come ha osservato giustamente San Giovanni Paolo II, il nostro impegno per il dialogo si fonda sulla logica stessa dell’incarnazione: in Gesù, Dio stesso è diventato uno di noi, ha condiviso la nostra esistenza e ci ha parlato con la nostra lingua (cfr Ecclesia in Asia, 29). In tale spirito di apertura agli altri, spero fermamente che i Paesi del vostro Continente con i quali la Santa Sede non ha ancora una relazione piena non esiteranno a promuovere un dialogo a beneficio di tutti. Non mi riferisco soltanto al dialogo politico, ma al dialogo fraterno… “Ma questi cristiani non vengono come conquistatori, non vengono a toglierci la nostra identità: ci portano la loro, ma vogliono camminare con noi”. E il Signore farà la grazia: talvolta muoverà i cuori, qualcuno chiederà il battesimo, altre volte no. Ma sempre camminiamo insieme. Questo è il nocciolo del dialogo.
Cari fratelli, vi ringrazio per la vostra accoglienza fraterna e cordiale. Quando guardiamo al grande Continente asiatico, con la sua vasta estensione di terre, le sue antiche culture e tradizioni, siamo consapevoli che, nel piano di Dio, le vostre comunità cristiane sono davvero un pusillus grex, un piccolo gregge, al quale tuttavia è stata affidata la missione di portare la luce del Vangelo fino ai confini della terra. E’ proprio il seme di senape! Piccolino… Il Buon Pastore, che conosce e ama ciascuna delle sue pecore, guidi e irrobustisca i vostri sforzi nel radunarle in unità con Lui e con tutti gli altri membri del suo gregge sparso per il mondo. Adesso, tutti insieme, affidiamo alla Madonna le vostre Chiese, il Continente asiatico, perché come Madre ci insegni quello che soltanto una mamma sa insegnare: chi sei, come ti chiami e come si cammina con gli altri nella vita. Preghiamo la Madonna insieme.