
Le Lettere di Paolo Pugni – Il focolaio della violenza tra noi
Vabbé confesso, ascolto la Zanzara. Radio24. Ma come autopunizione, come strumento di espiazione. E di forgiatura del carattere. E della pazienza. Aspetto tutte le sere sulla riva del fiume che passino i cadaveri di Parenzo e Cruciani. Insieme al cinese. In senso figurato si intende. Non è però di loro che voglio parlare né della mia fragile capacità di decidere come sprecare il mio tempo in macchina o di mostrare sopportazione e carità. Ma del clima di violenza e arroganza che lì si rispecchia ma che in realtà ci permea. Non lo descrivo, lo conoscenze. Provo a capirne l’origine, meglio: il focolaio. Lo ritrovo nella scomparsa dei valori primi: il giusto è diventato gusto, il bene mi piace e il vero ciò che è solo consueto. Ne discende che
a) posso affermare quello che voglio. Io esiste. Gli altri non so, non mi riguarda
b) ciò che affermo non può essere messo in discussione, se non sei d’accordo mi stai attaccando personalmente
c) se mi attacchi rispondo colpo su colpo: chi sei tu per dirmi come vivere?
Ora mi capita di vedere un po’ di questo atteggiamento riflesso talvolta anche in queste pagine. Dove a volte persino l’esperienza viene messa in dubbio mentre la propria, forse l’ho già detto, viene usata come una clava per prestare sugli altri. E non basta, perché un altro sintomo, che vedo anche allo specchio, è quello della sensibilità: una sottile forma di egolatria vittimistica che mentre afferma una sorta di ipertrofico della delicatezza verso il mondo e gli altri, in realtà cela il desiderio che la propria persona e la propria weltangshauung siano al centro dell’attenzione costantemente.
Il che produce una serie di effetti collaterali spiacevoli per sé e per gli altri: ci si sente sempre in primo piano così che ogni battuta, affermazione, affronto sembra rivolto proprio a me e spesso interpretato come uno sgarro, un affronto; che tutto ciò che non mi piace mi irrita; che ogni pensiero inizia da me e in te termine: la mia esperienza, quello che io penso, io faccio, io vedo, io credo, mi piace; che non vedendo riconosciuto il mio merito e la mia profondità di spirito e di pensiero, la mia brillantezza, la squisitezza sublime del mio scrivere, mi adombro, mi risento, mi intristisco e vittimizzo prima di somatizzare; che chi non è con me è contro di me ed è nemico. è come se ci avessero iniettato steroidi nell’ego, per ottenere un’aumento della permalosità, uno stato di irritazione costante, di insofferenza ad ogni lontana limitazione della nostra infinita grandezza. Ne parla benissimo in questo post don Fabio Bartoli a proposito della vicenda Miriano-Spagna.
Ora questo è molto umano, ma per nulla cristiano dato che il messaggio che ci viene suggerito, quello di prendere e portare la propria croce, poco c’azzecca con questa insensibilità cronica. La cosa impressiona e non poco. Perché se da un lato scoperchia la debolezza del nostro ego che si pretende forte e grande, e nel faro svela in realtà l’inganno, dall’altro rivela come questa malattia, il soggettivisimo politivally correct, abbia invaso le coscienze anche nella migliore buona fede, che qui si cerca di dialogare non di imporre.
Siccome rimugino su questa vicenda da tempo ma non trovo la quadra, non riesco a capire come tirarmi fuori, e ogni tentativo mi pare come quello del barone che per salvarsi dalle sabbie mobili si afferrò per il codino così da tirarsene fuori, scodello sul tavolo del blog/forum la questione chiedendo aiuto: come ne usciamo? Come la riconosciamo questa patologia che dissolve la carità? Come cerchiamo la verità senza pretendere di imporre la nostra? Come viviamo la gioia dell’evangelizzazione?
Commenta nel forum o in Le Lettere di Paolo Pugni