Blog / Lettere | 12 Novembre 2013

Escrivá edito “inedito” – Dell’essere a posto: quasi un elogio del fariseo…

Ben Schott frequenta spesso in incognito il nostro blog; in passato ha anche scritto qualcosa, ma in genere non ama apparire molto. Mi ha proposto questa nuova rubrica dal titolo: Escrivá edito “inedito”. L’intenzione è quella di condividere con quelli del blog dei testi di San Josemaría Escrivá che, pur essendo pubblicati, non sono citati molto spesso e, quindi, sono meno conosciuti. Ben non vuole screditare nessuno, ma è mosso dal desiderio di conoscere più da vicino un santo dei nostri tempi. Non gli piacciono le agiografie, ma ama profondamente le biografie (e le persone…)

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Il peccato dei farisei non consisteva nel non vedere Dio in Cristo, bensì nel chiudersi volontariamente in se stessi, perché non tolleravano che Gesù, che è la luce, aprisse loro gli occhi (cfr Gv 9, 34-41). Questa cecità ha un’influenza immediata nei rapporti con i nostri simili. Il fariseo che credendosi luce non permette a Dio di aprirgli gli occhi è lo stesso che tratta con superbia e ingiustamente il prossimo: Io ti ringrazio di non essere come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri; e nemmeno come questo publicano (Lc 18, 11). Così prega. E al cieco nato, che persiste nel raccontare la verità della guarigione miracolosa, vengono rivolti questi insulti: Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi? E lo cacciarono fuori (Gv 9, 34). (È Gesù che passa, Il rispetto cristiano per la persona, n. 71)

Confesso che il fariseo della parabola lucana non riesce a starmi totalmente antipatico. La scena: dopo aver assunto la posizione corretta dell’orante ebreo – in piedi con le braccia sollevate -, si rivolge grato a Dio: lo ringrazia di non essere un peccatore, di non essere come quel publicano lì. Ma perché pensa di non esserlo? Perché fa opere buone: fa il doppio dei digiuni prescritti a un ebreo osservante e paga tutte le decime, anche quelle da cui era esentato. Di fatto, una brava persona tutto l’opposto del publicano, traditore al soldo del nemico romano, esattore delle tasse e spesso – almeno stando al racconto evangelico – associato alle prostitute. Il problema non sono neanche le opere buone che compie, ma il fatto che attribuisce a Dio i propri ristretti criteri di giustizia. Pensa che comportandosi bene possegga la verità, possa, quindi, giudicare gli altri. Ma Gesù ci ricorda che solo Dio conosce il cuore degli uomini, solo lui può e sa giudicare, noi non possediamo la verità, come ci ricorda Papa Francesco (e Papa Benedetto) nella “Lumen Fidei”, ma possiamo sperare di essere posseduti da Lei.

È l’alterigia del fariseo che Dio non può giustificare, perché trova in lui la barriera dell’autosufficienza. È l’arroganza che porta a disprezzare gli altri, a dominarli, a maltrattarli: perché dove c’è superbia c’è offesa e umiliazione (Pro 11, 2). (È Gesù che passa, La vocazione cristiana, Punto 6)

Il “farefarefare” è una grande tentazione. Il vero peccato del fariseo è credere che la giustificazione sia frutto delle opere, dell’agire. “Fai, quindi, sei”; credo invece che Gesù ci dica: “Sei, quindi, fai”. Il problema è, quindi, identitario, capire bene chi siamo e che ci stiamo a fare a questo mondo. I farisei avevano forte il senso dell’appartenenza. In ebraico “fariseo” significa “distinto”, “separato” (da tutto ciò che può rendere impuri) e i farisei erano una classe che si distingueva dai sadducei, che erano aristocratici per nascita, per il fatto di essere “aristocratici” per cultura e conoscenza delle Sacre Scritture. La tentazione di distinguerci dagli altri per le nostre opere è forte: cercare la propria identità attraverso le proprie opere può essere pericoloso se si dimentica che la nostra identità di figli di Dio è un dono ricevuto a caro prezzo, la vita di Gesù, ed è, quindi, di natura relazionale. Credo che in molti di noi dorma (oppure è ben sveglio) un piccolo (grande) fariseo. Non nel senso dell’ipocrisia, ma nel senso di chi in buona fede pensa che basta operare per essere. In altre parole, credo che molti di noi in almeno un momento della vita abbiamo pensato “Sono a posto perché faccio questo e quello. Ho fatto tutto quello che dovevo fare, quindi sono buono”. Penso che uno dei peggiori guai della nostra epoca sia il prevalere del pensiero quantitativo su quello qualitativo. Di fatto il pensiero quantitativo porta alla staticità, il pensiero qualitativo porta al dinamismo. Anche nella nostra vita di Fede possiamo far prevalere la quantità (delle opere, degli atti di pietà) sulla qualità (l’Amore). Un ruolo in questo fraintendimento lo può avere un travisamento della formazione cristiana, quando ci si concentra troppo sulle opere e poco sull’identità. Ho sempre immaginato che, in una fotografia, un cristiano dovrebbe essere indistinguibile dagli altri, mentre dovrebbe essere evidente la sua identità in un filmato! Un cristiano non può mai sentirsi “a posto”, è sempre in cammino.

In primo luogo, orazione; poi, espiazione; in terzo luogo, molto “in terzo luogo”, azione, San Josemarìa Escrivà, Cammino, 82

Penso, infine, a come ci sarà rimasto male il povero fariseo quando avrà scoperto di essersi sbagliato, di aver seguito troppo pedissequamente gli insegnamenti ricevuti, di aver voluto troppo “fare” e poco “essere”. Forse avrà protestato “Ma mi hanno insegnato a fare così!”, dimenticandosi che abbiamo la libertà di pensare, di discernere, che la responsabilità è sempre individuale e non può mai essere collettiva. Ma spero che Gesù alla fine abbia avuto pietà di lui.

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