Blog / Scritti segnalati dal blog | 10 Giugno 2013

Scritti segnalati da voi – Fare un film, di Federico Fellini

Scritti segnalati da voi è uno spazio che intende raccogliere brani di libri che piacciono ai frequentatori del blog. Si trova in Archivio>Materiali>Scritti segnalati da voi.

Il brano qui di seguito è proposto da Sandokan ed è tratto da “Fare un film” di Federico Fellini. Si parla di Roma, di come la racconta nel suo film che si intitola, per l’appunto, “Roma”. Lui la immagina come una prostituta, così come è immaginata nell’Apocalisse.

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«Che cos’è Roma?». Tutt’al più posso tentare di dire che cosa penso quando sento la parola Roma. Me lo sono spesso domandato. E più o meno lo so. Penso a un faccione rossastro che assomiglia a Sordi, Fabrizi, la Magnani. Un’espressione resa pesante e pensierosa da esigenze gastrosessuali. Penso a un terrone bruno, melmoso: a un cielo ampio, sfasciato, da fondale dell’opera, con colori viola, bagliori giallastri, neri, argento; colori funerei. Ma tutto sommato è un volto confortante. Confortante perché Roma ti permette ogni tipo di speculazione in senso verticale. Roma è una città orizzontale, di acqua e di terra, sdraiata, ed è quindi la piattaforma ideale per dei voli fantastici. Gli intellettuali, gli artisti, che vivono sempre in uno stato di frizione fra due dimensioni diverse – la realtà e la fantasia – trovano qui la spinta adatta e liberatoria delle loro attività mentali: con il conforto di un cordone ombelicale che li tiene saldamente attaccati alla concretezza. Giacché Roma è una madre, ed è la madre ideale, perché indifferente. E’ una madre che ha troppi figli e quindi non può dedicarsi a te, non ti chiede nulla, non si aspetta niente. Ti accoglie quando vieni, ti lascia andare quando vai, come il tribunale di Kafka. In questo c’è una saggezza antichissima, africana quasi, preistorica. Sappiamo che Roma è una città carica di Storia, ma la sua suggestione sta proprio in un che di preistorico, di primordiale, che appare netto in certe sue prospettive sconfinate e desolate, in certi ruderi che sembrano reperti fossili, ossei, come di scheletri di mammuth.

S’intende che questo conforto ha i suoi lati negativi, e se è vero che a Roma ci sono pochissimi nevrotici, è anche vero, come sostiene lo psicanalista, che la nevrosi è provvidenziale, serve a scoprire se stessi in profondità; è come tuffarsi in mare per ritrovare il tesoro nascosto delle favole; obbliga il bambino a diventare adulto. Roma questo non lo fa. Col suo pancione placentario e il suo aspetto materno evita la nevrosi ma impedisce anche uno sviluppo, una vera maturazione. Qui non ci sono nevrotici ma nemmeno adulti. E’ una città di bambini svogliati, scettici e maleducati; anche un po’ deformi, psichicamente, giacché impedirla crescita è innaturale.

Anche per questo a Roma c’è un tale attaccamento alla famiglia. Io non ho mai visto una città al mondo dove si parli tanto dei parenti. «Te presento mi’ cognato. Ecco Lallo, er fio de’ mi cugino». E’ una catena: si vive tra persone ben circoscritte e ben conoscibili, per un comune dato biologico. Vivono come nidiate, come covate …

E Roma resta la madre ideale, la madre che non ti obbliga a comportarti bene. Anche la frase molto comune: «Ma chi sei? Nun sei nessuno! è confortante». Perché non c’è solo disprezzo, ma anche una carica liberatoria. Non sei nessuno, quindi puoi anche essere tutto. Tutto può ancora essere fatto. Si può partire da zero.

Insultata come nessun’altra città, Roma non reagisce. Il romano dice: «Mica è mia, Roma». Questa cancellazione della realtà che fa il romano, quando dice «ma che te ne frega!», nasce forse dal fatto che ha da temere qualcosa o dal papa o dalla gendarmeria o dai nobili. Egli si rinchiude in un cerchio gastrosessuale. I suoi interessi sono, perciò, limitatissimi. Infatti, a furia di non guardare si diventa ciechi, non si vede più.

In certi rioni popolari, per dire «come stai?» ti dicono seriamente: «hai cagato stamattina?». I primi tempi che stavo a Roma, questa grevezza, questa maleducazione, erano fonte di risate. Per esempio: i commessi dei negozi che ti guardano con fastidio perché sei entrato a disturbare il loro vuoto, la loro inerzia. Oppure: quando chiedi dove sia una strada, i silenzi, la riflessione su quante parole occorrono per fare la risposta. Essi non vogliono essere turbati in questa specie di letargo.

Certe cose sono comuni ai plebei ed agli aristocratici: il culto della mamma, per esempio. L’aristocrazia romana è contadina, latifondista, fatta dal papa. Guardandole bene, le aristocratiche romane sono simili alle portinaie. Anche trascurando l’ostentazione del dialetto, il tipo di discorso è identico sia nel plebeo, sia nell’aristocratico. Si ha la sensazione di aggirarsi in un cimitero di morti che non sanno di esserlo. Il sentimento che si prova tra loro è l’imbarazzo: non si sa di che parlare, fanno domande mortificanti, non leggono. L’ignoranza è intesa come un diritto. Questi aristocratici, in genere, sono gente che non ha mai viaggiato. Loro interessi: i cavalli, la caccia (uno contava le pecore) e gli affari: vendere, comprare. Gli argomenti che li svegliano un po’ sono gli espropri, le tasse («Conosce il ministro Preti? Ma che vuole?»).

A questo punto si accendono un poco gli sguardi appannati. Essi stanno sempre tra loro, non accolgono nessuno: anche per timidezza, non soltanto per diffidenza.

Insomma, l’impressione riassuntiva di questa città à una: l’ignoranza. Roma è abitata da un ignorante che non vuole essere disturbato e che è il più esatto prodotto della Chiesa. Un ignorante che vuol bene alla famiglia. Questo tipo d’uomo è talmente incancrenito nella propria condizione secolare da credere che si debba e si possa vivere solo così. Un grottesco bambinone che ha la soddisfazione di essere continuamente sculacciato dal papa.

Misurando il mio rapporto con la gente di Roma, mi pare di dover concludere che il romano non mi può dire niente di utile, nemmeno sul terreno individuale. Incarnando i vari ceti di Roma in una figura ectoplastica, mi sembra che ne esca una immagine pesante: abbastanza tetra, spenta, che suggerisce una visione pessimistica, plumbea: lo sguardo basso, sonnolento, rinunciatario, non approvante; non ha curiosità, oppure non crede che la curiosità serva a qualcosa. Può darsi che questo sia il volto dell’estrema decrepitezza, di chi ha digerito tutto ed è stato a sua volta digerito, è diventato escremento, esaurimento totale di tutte le esperienze e ritorno alla terra, concime. Questa particolare atmosfera nasce anche dal fatto che il babbo romano, la mamma romana, hanno sempre qualcosa di baliatico, sanno di pipì, della tua pipì di quand’eri bambino. Il romano, in realtà, non fa complimenti leziosi ai bambini: «Un vedi che bella faccia, sembra un culo, dice».

Ne viene fuori un’atmosfera di un minestrone che sta cuocendo: un’atmosfera incoraggiata dalla Chiesa, l’unica responsabile di questo tipo di italiano, inchiodato a un infantilismo cronico. Una condizione, del resto, che a Roma viene addirittura esaltata. Infatti: in qualunque altra città, un soldato, per esempio, è un soldato. A Roma no: qui li chiamano «pori fii de mamma». Ecco: si rimane sempre figli di mamma e la mamma è la Madonna, o la Chiesa.

[…]

La morte, a Roma, ha sempre un aspetto familiare, da parente. Certi romani dicono: «Vado a trovà papà, vado a trovà zio» e poi scopri che vanno al camposanto. Anche qui c’è una proiezione di tipo impiegatizio, burocratico: anche con la morte si possono trovare delle raccomandazioni, c’è sempre un cognato in paradiso che può darti una mano. Il che toglie alla morte l’angoscia, l’ansia nevrotica: basta pensare che i romani chiamano la morte «la commare secca». Comare, cioè un po’ parente anche lei. E poi, certe altre belle espressioni: «è andato agli alberi pizzuti», «sta a fa’ terra pe’ ceci». In questi ceci ritorna il solito motivo mangereccio. Anche nel camposanto, Roma mantiene il suo aspetto di grande appartamento nel quale puoi passeggiare in pigiama, ciabattando. […] Nel film credo ci sia l’aspetto di quell’immenso cimitero, brulicante di vita, che è Roma.

[…]

Per trecentosessantaquattro giorni all’anno puoi restare completamente estraneo a Roma come città, viverci senza vederla, o peggio, sopportarla con fastidio. Ma poi, ecco, sprofondato nei tuoi malumori dentro un taxi fermo a un semaforo, all’improvviso una strada che certamente conoscevi ti appare in una luce e di un colore come mai avevi visto; a volte invece è una brezza delicata che ti fa alzare gli occhi e scopri altissimi cornicioni e terrazze contro un cielo di un azzurro da toglierti il fiato. Oppure è un’atmosfera sonora, una eco quasi musicale che ti vibra attorno magicamente in vasti spazi polverosi, disadorni, e tu avverti che si è d’incanto creato un contatto profondo, un sentimento di quiete che cancella ogni tensione; come in Africa, dove l’immobilità e la pace di tutto quello che ti è attorno non ti spegne nel sonno ma ti tiene lucido e indifferente; è come un altro senso del tempo, della vita, di te stesso, e della fine della vita; non hai più ansia né angoscia.

Quando Roma ti raggiunge con questa sua antica malia, tutti i giudizi negativi che puoi aver dato su di lei scompaiono e sai solo che è una fortuna abitarci.

 

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