Abelis – La presentazione a Genova: la relazione di Ninny Parodi
Non sono un critico letterario e, dunque, nel presentare questo testo, mi muoverò entro binari che si discostano da tale genere di rilettura.
La storia di Abelis ha destato in me un crescendo di emozioni ed è su esse che preferisco soffermarmi, grazie al fatto che per ragioni professionali penso di averne maggiore dimestichezza.
Il romanzo offre tre possibili chiavi di lettura, quella puramente narrativa, l’umana e la spirituale, che si intersecano e si integrano in modo armonico, tanto che l’una riconduce naturalmente all’altra e mentre ci si inoltra nelle vicende della storia e i vari personaggi prendono forma, la mente elabora associazioni e si pone interrogativi, che riguardano la complessa materia umana e le sofferenze che essa può generare, quando l’individuo o il gruppo si arrogano il diritto di impostare la propria vita sul personale bisogno di appagamento e sul perseguimento esclusivo del profitto o del potere .
Il romanzo è stato definito un fantasy metafisico e, secondo il mio punto di vista incasellarlo in questa categoria mi sembra riduttivo.
E’ vero, l’autore ha usato un linguaggio particolare, attinente al genere e quindi si è espresso attraverso simboli e metafore che danno grande risalto ai personaggi e ne tratteggiano distintamente i contorni, ma anche la poesia come qualunque forma d’arte usa questo linguaggio e a mio parere, il testo ha una predominante componente poetica.
Le figure che ci presenta sono spaccati di umanità e raffigurano l’illusione onnipotente di una società, in cui il vero male è credere di poter fare a meno di valori etici, di madri e di padri, e vivere in nome di uno pseudo progresso che scavalca le esigenze dei singoli e mortifica la loro umanità.
Non è facile mantenere sentimenti di serenità e fiducia in questo tipo di realtà e ciò che ferisce la nostra sensibilità è la sofferenza che cade sugli esseri indifesi e che è generata dall’arroganza dell’uomo.
E’ una malattia che ha il suo agente patogeno nella corsa indiscriminata verso traguardi che allettano la volontà di potere, nella ricerca prometeica dell’uomo e i cui prezzi pagati e da pagare sono sempre altissimi.
Anche in campo scientifico accade che gli atti di potere dell’uomo confondono il fine con i mezzi.
C’è una corsa al benessere, concetto non sempre definito e che spesso non coincide con la convivenza armonica tra gli uomini né tra l’uomo e la natura, ma è confuso con un’utilizzazione arbitraria e indiscriminata delle risorse che rivela solo smania di potere.
Siamo consapevoli che certe forme di avidità non siano facilmente estirpabili perché radicate nella natura dell’uomo, come abbiamo appena accennato: la sete di potere, il desiderio di possesso, l’illusorietà di un modello di sviluppo, anche scientifico basato sul profitto, ma veder scorrere le immagini simboliche che i vari personaggi ci offrono, ci porta ad interrogarci sul prezzo incommensurabile della violenza che da esse scaturisce e che si esprime nei modi più diversi e a tutti i livelli, dai piccoli eventi quotidiani che inquinano le nostre vite, si insinuano nella logica dei nostri giorni e facilmente passano inosservati, per l’indifferenza dilagante e per tanta superficialità, fino ai grandi eventi di incredibili crudeltà che scaturiscono sempre dal bisogno compulsivo di imporre se stessi, spesso camuffando l’interesse personale per quello comune.
Il messaggio che ci giunge da questo romanzo è chiaro:
le condizioni sociali, economiche, culturali e morali definiscono la cornice entro la quale costruiamo il nostro rapporto col mondo e abbiamo la possibilità o meno di esercitare la libertà, di orientare le nostre scelte, assumerci le nostre responsabilità, ma i condizionamenti sono forti e l’agire può esserne limitato.
Il disagio diffuso di questo sistema di vita deriva dalla estremizzazione di certi stereotipi per cui ognuno, se si lascia assorbire da una tale visione, finirà gradualmente per arretrare e percepirsi come un’isola e non come parte di un tutto armonico. Questo è il pericolo!
Se non ci mettiamo in gioco nella relazione con l’altro non possiamo alimentare la nostra anima e per mettersi in gioco, bisogna esporsi, offrirsi autenticamente, superando barriere e togliendosi le maschere; occorre investire tempo e passione nella consapevolezza che gli uomini, se vogliono, possono trasformarsi, cambiare e possono vivere autenticamente attraverso il loro interagire, senza schermi né chiusure.
Ma veniamo al romanzo.
Sappiamo che l’uomo, da sempre, ha sentito il bisogno di raccontarsi e nel farlo spesso si è affidato a storie fantastiche come questa che, aldilà dell’apparenza, non sono così distanti dalla vita reale.
Esse ricorrono a immagini di grande potenza espressiva (si pensi ai Miti, ai poemi epici) e i personaggi simbolici, in modo semplice, ma significativo, ci pongono dinanzi a parti di noi e del nostro vissuto, spesso ignorate, più o meno consciamente o relegate nel fondo della coscienza per non doverci confrontare con esse, in quella dimensione psichica che Jung ha chiamato “Ombra”.
Non abbiamo altro linguaggio, al di fuori del simbolo, altrettanto efficace per esprimere, con le parole, il senso profondo e immenso dei grandi temi della vita e del “mistero”.
La stessa Sacra Scrittura attinge largamente a questo mondo e la sua narrazione è spesso arricchita da un susseguirsi d’immagini e di azioni simboliche.
Gesù, il più grande narratore della storia, dovendo parlare del Regno di Dio fa largo uso di simboli nel narrare le parabole, per rendere accessibili, a quelli che Lo seguivano e ascoltavano, verità complesse e inaccessibili.
Il simbolo rivela e nasconde allo stesso tempo, lasciando a chi legge o ascolta il compito di trovare un significato, in relazione al proprio sentire.
Il simbolo è artefice di comunione e unione e d’altra parte la parola greca “symbolon”, da cui deriva, rappresenta ciò che unisce e crea, in contrapposizione a “diabolos” che è ciò che separa e divide.
Si tratta di un linguaggio universale, perché parla a tutti, aiutando ciascuno ad attingere, dalla propria esperienza quotidiana, ciò che è significativo.
Diversamente dal ragionamento, il simbolo non ha niente da dimostrare e non vuole, né imporsi, né convincere, ma solo mostrare, grazie alla sua bellezza e ricchezza immaginativa; esso è polivalente e, dunque, non comunica una sola realtà, ma si apre ad una serie di suggerimenti diversi e complementari.
Sfondo della storia un castello dentro il quale e intorno al quale si muovono i personaggi quanto mai diversi, stereotipi di quegli aspetti della natura umana che se distorti, deviati o mal vissuti segnano le proprie e le altrui vite condannandole ad un destino sterile, senza senso e talvolta senza possibilità di salvezza. Ma, come nella vita, non mancano anche i personaggi e gli eventi positivi che sopraggiungono ad illuminare e a squarciare quel buio e ad alimentare la speranza.
Ma Abelis chi è? Ritrovandomi fra le mani questo libro e prima che ne iniziassi la lettura, mi sono chiesta, ripetutamente, a chi l’autore volesse riferirsi. Cosa evoca in me, pensavo, questo nome, così antico e senza tempo?
Per assonanza affiorava alla mente il nome Abele, prima vittima innocente della brutalità, del primo attentato all’istituzione più sacra e naturale della società civile:la famiglia. Il fratello che uccide il fratello, l’invidia, l’avidità, il male che sopprime la mitezza, l’altruismo, il Bene.
E’ la creatura immolata sull’altare dell’egoismo e dell’interesse, che dalla notte dei tempi, soffoca lo spirito e uccide l’anima, facendo sprofondare l’uomo nel buio della sua abiezione? E’ la storia cupa e senza redenzione delle nostre origini?
Tali erano le domande che continuavo a pormi preparandomi alla lettura.
Chi è Abelis? Abelis è un bambino.
Qual’è la metafora di questo bambino che viene rapito agli affetti e giunge nella realtà chiusa e fortificata, nella vuota grandiosità del castello di Arileva, fra creature disumanizzate, chiamate cavalieri, alle quali, alla pelle umana hanno sostituito corazze di ferro, hanno cancellato i ricordi, violentato l’anima?
Cosa combattono questi cavalieri senza volto? Quali sono i mostri dai quali si sentono minacciati? Chi li ha creati e per quale scopo?
L’arrivo del bambino al castello rappresenta il momento di rottura di un sistema malato, sclerotizzato, nel quale, in nome del potere e con l’inganno è stato imprigionato il Re, colpevole soltanto di amare ed è stato soffocato il suo carisma;
il Re è stato annientato, vittima della congiura dei suoi uomini più fidati e del loro tradimento.
Il Re umiliato e relegato in fondo alla coscienza, il Re negato, imprigionato in un’armatura, deprivato dei suoi stessi ricordi e irriso dalla soldataglia.
Abelis, è lì apparentemente fragile, ma forte della sua innocenza, pone domande semplici a chi lo accoglie, ma vuole risposte chiare. Sono domande sull’Amore, sulla tenerezza, sul valore della vita, sul significato di una carezza, sull’amicizia. (vd testo pg 46).
La bellezza interiore di questo bambino fa da contraltare alla cupezza di chi si è arrogato il diritto di usare violenza in nome di un ipotetico bene comune, di chi come Ciambellano (il primo ministro, il traditore), vive chiuso nel suo castello, nelle sue paure, ma soprattutto nella sua aridità e nel desiderio di potere, in nome del quale non ha esitato a soffocare la vita del suo Re e anche i suoi valori. Si è creato dei mostri esterni da combattere, i draghi dalle grandi ali, ignorando che i veri draghi vivono in lui, creature orrende e fameliche della sua anima oscura.
Noi ci chiediamo cos’è il male? Il male è la caduta, è il non senso che ingenera l’inquietudine e crea una reazione a catena di atti terribili che imprigionano l’uomo nella sua malvagità, spesso senza ritorno?
Il male è la filosofia del tutto permesso, secondo cui non esistono limiti, ma verso cui bisogna opporsi, esecrando l’uso della sopraffazione e in difesa del diritto alla vita per qualsiasi essere vivente.
E’ la parabola etica della libertà, dono grande, nobile e terribile, che l’uomo ha il potere di far degenerare nell’arbitrio, ma della cui responsabilità non potrà mai liberarsi.
Il male è l’oscuramento della coscienza che produce mostri e perseguita i colpevoli.
Abelis non ha paura di mostri, non li conosce, per lui i draghi sono solo animali e gli animali non possono essere malvagi. Il loro comportamento è predeterminato da modelli rigidi di stimolo risposta, non è libero, non ha coscienza di sé, non arriva alla profondità del desiderio né alle altezze dello spirito.
E’ questo che con parole semplici vuole spiegare Abelis quando risponde: “I draghi sono solo animali non mostri, e uccidono solo per difendersi, proteggere la prole e per sopravvivere.”
Nell’uomo invece c’è la coscienza, coesistono l’alto e il basso, il cielo e la terra, il si e il no, l’amore e l’odio, il bene e il male, ma sopratutto la libertà e la responsabilità di scegliere. Ogni uomo sperimenta la coesistenza degli opposti e tocca con mano cosa è il caos, cosa è il paradiso e cosa è l’inferno.
Tutto passa attraverso un suo si o un no.
Ciambellano si che li conosce i mostri, in lui è il buio che si alimenta di paure, di creature minacciose da controllare, di nemici da uccidere.
Ciambellano è vittima dei suoi stessi intrighi, colpevole di lesa maestà, potrebbe cambiare e non lo fa, pronunciando appunto il suo “no” definitivo e tragico, lui si vero prigioniero volontario della parte malata di se stesso.
Altra cosa è Messer Ferriere, l’uomo di scienza che non ha esitato a sacrificare e rinnegare il suo Re facendo tacere i sentimenti, ma scosso nel profondo della sua coscienza, trema dall’emozione alla vista di Abelis e turbato dalla crisi interiore si ricollega con la parte più integra di sé.
Anch’egli ha dato ascolto alle lusinghe del potere, ha tradito, ma si apre alla possibilità del riscatto e, dall’amore per il sapere, passa all’ amore per gli uomini e per la vita.
La sua coscienza turbata fa germogliare in lui la nostalgia degli affetti mal vissuti e traditi, un sentimento vago di rimpianto e nella solitudine dell’animo rattristato prende corpo l’idea riparatrice e si snodano immagini che ritessono trame di vite danneggiate.
Con la consapevolezza ritrovata della propria indegnità e corruttibilità, vi è la presa di coscienza di poter sporcare o ferire anche chi più si ama e ciò lo spinge a compiere un viaggio a ritroso che lo porterà a ritrovare Lutet, la donna amata dal suo re, la madre coraggiosa di Abelis, e in Lei ritroverà se stesso e la luce.
Lutet è la donna che custodisce l’Amore e in nome di esso è fuggita lontana per vivere una vita autentica, nel modo più semplice; è fuggita per salvare e custodire la vita che era in Lei, frutto dell’Amore del suo Re. Vive fra i draghi, ma non li teme, li conosce e li rispetta e nel silenzio della loro morte onora ancora la loro vita.
Perché Lutet non teme i mostri? Perché non conosce il male.
Lutet vive il dolore, conosce il sacrificio, ma non fine a se stessi, bensì come strada maestra per l’Amore.
Lutet è luce e poesia, Lutet è l’armonia che vince su tutto e la sua scommessa deve essere la nostra, quella che siamo chiamati a vivere ogni giorno nella sofferenza e nella gioia, per rendere possibile nella nostra esistenza quell’incontro col Divino che ci accompagna sin dalla culla e che attende solo la nostra risposta (Apocalisse 3,20: “Ecco, Sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, Io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con Me).
Cavalieri e armature, draghi e mostri si muovono all’interno di questo romanzo, e come già detto sono categorie della nostra mente, segni della nostra inquietudine, prodotti di una coscienza turbata, che scaturiscono da distorsioni della realtà, in cui il non conosciuto è vissuto come mostruoso e il sentirci minacciati ci impedisce di cogliere il dono che, l’apertura agli altri, ci potrebbe regalare.
In realtà solo la legge dell’amore valorizza la vita, perché è solo amando, come ripete l’autore, che decidiamo di esistere.
C’è bisogno di cavalieri nella vita, ma che siano uomini veri, con armature di pelle, che sappiano vivere di emozioni, che abbiano fede, che vivano e lottino per dei valori, per superare il rischio del nichilismo e a tal proposito il testo contiene una pagina bellissima, nella quale l’anziano Re invia il Suo messaggio d’Amore all’amata Lutet, messaggio fatto di un numero infinito di “Ti amo”, che ogni volta assume un diverso significato, una sfumatura nuova.
Dunque, Abelis e la sua storia, sono il paradigma della società umana, che esige urgentemente il recupero dei valori.
Ma Abelis è anche il bambino che è in noi, nell’autore, in me, in tutti e che rivive, nel momento in cui decidiamo di non chiuderci dentro un’armatura di ferro che minaccerebbe di soffocarci.
Abelis è la scintilla del Divino che solo noi possiamo risvegliare oppure come Ciambellano, decidere di ignorare e spegnere, imprigionare, scegliendo attraverso il nostro no all’Amore, il male, la paura, il buio piuttosto che l’abbraccio della Grazia.
Ecco, quindi, che se vogliamo capire questo genere letterario lo possiamo fare grazie a quel bambino speciale che siamo stati, ma che non ha finito di esistere, solo perché ce ne siamo dimenticati, che non abbiamo perduto e vive e vuole essere ritrovato, vuole essere preso per mano, vuole essere consolato e curato, nelle ferite che inevitabilmente ha ricevuto e che non possono essere cancellate, ma ascoltate con rispetto, affinché possano fare meno male, dentro.
Nessuno è indenne dal dolore e i bambini sono maestri nell’assumere su di sé i carichi sospesi. Chissà che allora, ponendoci rispettosamente in ascolto del bambino che vive in noi, possiamo riuscire a scoprire l’altra faccia della medaglia, la nostra vitalità, la creatività, la semplicità infantile, spesso tarpata da antiche esperienze di dolore e ricominciare a sperare e nella speranza ritrovata ricominciare ad amare, a vivere di palpiti e a nutrirci di emozioni.
Anche se il male e il Bene, sono parti della creatura, l’uomo è orientato verso l’Alto, verso la totalità, in virtù della quale saprà recuperare la parte migliore di sé.
Solo allora, pur avendo conosciuto l’oscurità del male, gli sarà possibile riscoprire il vero senso della vita nella sua incalcolabile ricchezza.
Questo ci permetterà di esercitarci nel perdono verso noi stessi e verso gli altri, liberarci dalle ansie mal vissute, dalle dipendenze inspiegabili, dai pessimismi sterili, dai mostri.
Attraverso tale viaggio verso la libertà, sarà possibile individuare il nucleo della nostra essenza, cercando di trovare parole semplici per capire cose complesse.
E’ un processo in cui i sentimenti ricominciano a scorrere in modo semplice e naturale e dove più della testa conta il cuore. Solo così, anche se la notte non è finita, potremo “uscire a riveder le stelle”.
Vi è un momento bellissimo in cui Abelis è accanto a Blenn, il re, il padre ritrovato, e in cima alla torre più alta del castello, nella notte profonda, contemplano insieme le stelle, in Blenn riaffiorano i ricordi, le emozioni antiche, insieme alle lacrime.
Ritrovare l’innocenza del bambino insieme alle nostre memorie ci permette di rivivere tutto un mondo, che ciascuno conserva dentro di sé, intatto.
La nascita della coscienza spezza quell’armonia antica che la psiche vive come un’espulsione dal mondo, più che dal grembo materno, non più dentro la natura, ma di fronte ad essa, non più la totalità, ma il conflitto: è questa la sindrome del Paradiso perduto.
I bambini chiedono sempre da dove vengono e come sono nati e la scienza non può dare risposte soddisfacenti perché la risposta attesa non è quella realistica e la psiche può essere nutrita solo dalla fantasia, dall’arte e dalla poesia.
La scienza non tiene conto dei vasti orizzonti, su cui si apre la domanda innocente di un bambino, né tiene conto del desiderio dell’anima di alimentarsi d’immaginazione attraverso la narrazione di storie come questa, definite: fantasy metafisiche, perché si sostanziano della tensione propria dell’uomo verso il divino.
In questa nostra riflessione può essere amaro accorgersi che non solo nella società laica, ma anche nella Chiesa e intorno ad essa serpeggiano multiformi aspetti di malessere che scaturiscono ancora e sempre dallo scollamento dai principi morali e dai valori universali, da cui deriva la perdita del senso del limite e l’apertura acritica alla logica del tutto possibile.
Ma quando dico Chiesa intendo la totalità dei credenti, quella totalità nella quale siamo chiamati a rispondere in prima persona.
Non è dissacrante inserire questo punto dolente nella nostra riflessione perché tacerlo sarebbe come omettere la sofferenza della ferita profonda che è concretamente sotto gli occhi di tutti e non manca di essere oggetto di dibattiti e considerazioni non sempre fatte a proposito o nei luoghi più opportuni, né benevole né costruttive.
Noi, in quanto figli e per questo visceralmente legati alla realtà della Chiesa di Dio, dobbiamo, per amore, non fermarci sull’orlo del giudizio né del pregiudizio, ma spingere più oltre il nostro sguardo e con l’onestà, la trasparenza, la semplicità, l’essenzialità di Abelis dobbiamo continuare a testimoniare il bene, ciascuno nel nostro spazio vitale e nell’ordinario della nostra vita, ma con lo scopo di metterci in contatto sinergico con gli altri e aspirare, con tutte le nostre forze, alla realizzazione di un sano rinnovamento e di un mondo nuovo.
Tutto questo fa male al cuore, ma non dobbiamo avere paura di porre nuove basi su cui costruire o ricostruire la nostra identità. Dobbiamo avere il coraggio di una critica radicale, ma costruttiva, perché è tempo di essere portatori di una vera rivoluzione dello spirito che consenta all’uomo di entrare in contatto con le sue potenzialità e con la dignità e divinità dell’essere.
Dobbiamo riappropriarci di noi e riappropriarsi di se stessi vuol dire riscoprire la grande forza esistente all’interno di ogni essere umano; riscoprire il suo nucleo la sua origine divina per arrivare a ricongiungerci con lo spirito e con l’anima, termini uccisi dalla logica di una vita basata sull’utile, sul consumismo, su costumi discutibili su una sessualità disordinata o fine a se stessa, sulla violenza fisica e psicologica, sulla povertà in tutte le possibili declinazioni, su ogni forma di materialismo.
Tutte cose che, entro certi limiti, hanno la loro importanza, ma che non possiamo assolutizzare relegando nel fondo le vere aspirazioni dell’essere.
E’ stato scritto che quello che Dio vuole donare dall’alto, lo fa sorgere sempre dal basso.
Così Egli si inserisce nella nostra vita e nella nostra storia; entra con discrezione e da piccolo germoglio fa sorgere le realtà più grandi.
Dobbiamo imparare a intravedere, vedere, riconoscere, questa presenza misteriosa (Blennenfort, il padre, il Re, Dio.) e soprattutto viverla.
Dio non interviene in maniera magica, ma con semplicità s’inserisce gradualmente nella vita, ci pone domande semplici e si aspetta risposte chiare. “Tu mi ami?” chiede ripetutamente a Pietro?, “Sei mio amico?” queste parole esigono una risposta precisa!
“Vocavi te nomine tuo”- ti ho chiamato per nome e nell’intimità dell’anima siamo chiamati a rispondere: “Ecce ego, qui avocasti me”. Eccomi perché mi hai chiamato, decisi stavolta a non permettere che il tempo passi come l’acqua sui ciottoli, senza lasciare traccia”. (S. Josèmaria Escrivà.)
Per restituire pienezza alle nostre vite e creare rapporti ricchi e vitali è necessario riscoprire la capacità di riconoscerci e acquisire la nostra identità, ma sempre in relazione alla libertà dell’altro.
E’ un’affascinante dinamica in cui ci troviamo coinvolti, per metterci in gioco e persino rischiare e questo è tanto più impellente, quanto più ricca è la nostra vita interiore e più forte è il desiderio di espanderci verso gli altri.
Tutti noi abbiamo il dovere di vivere eticamente, politicamente e spiritualmente, l’impegno di contrastare ogni espressione di cecità morale e, non tanto nel travaglio metafisico dei grandi problemi, ma nello scorrere della vita quotidiana, fatta di gelosie, meschinità, piccoli tradimenti, voltafaccia, pusillanimità, ipocrisie.
Chiediamoci come possiamo opporci a tutto questo e nel superamento di queste schegge di male, saremo in grado di vincere la nostra scommessa con la vita, riscoprirne l’immensa ricchezza e ritrovare la nostra integrità e la nostra innocenza, come un bambino, come Abelis.
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