Abelis – “Contro le armature”, recensione di Giuseppe Romano
Abelis (Lindau, Torino 2012, pp.168, €14,00), pubblicato da Mauro Leonardi, affronta pieghe delicate dell’animo umano nella forma più vertiginosa, quella del racconto. Là dove un saggio – brillante o noioso – comunque direbbe la sua, la narrazione non dà scampo: o riesce o fallisce. Incontrare un racconto è come incontrare una persona. La vediamo vivere, è questo a convincerci o a respingerci. Sicché amare, paradossalmente, o forse non poi tanto, significa accettare e fare propri anche i difetti della persona cara.
Per di più qui siamo nel territorio della fiaba, ovvero il più crudele e antico, quello in cui poi (forse) si vive felici e contenti ma intanto i lupi si mangiano le nonne, le matrigne tiranneggiano principessine in erba.
Siamo uomini o cavalieri? Vien bene pure Totò per una delle domande poste da questa fiaba che ci porta in un mondo popolato da cavalieri imbozzolati in un’armatura magica che non si può più togliere. Hanno accettato di sottoporsi a questa vera e propria tortura – che fra l’altro causa atroci dolori e rimuove la memoria della vita trascorsa – e si dedicano per sempre a combattere il Male, che appare sotto forma di draghi. Si può essere felici in questo modo?
Abelis è così: un libro sull’amore come incongruenza, come contraddizione che non si sana con la forza della logica, bensì con quella della vita. E dunque, nella vita di questa storia si muovono:
– cavalieri con l’armatura magica che sostituisce la pelle, e imprigiona per sempre, dediti a combattere il Male. Sono smemorati ed esistono solo per combattere;
– un re taumaturgo che viene incatenato alla sua facoltà magica;
– un ciambellano usurpatore che tiranneggia la nazione in nome del re e tramite i cavalieri insegue una pace che sa tanto di oppressione; ha trasformato proprio il re in un cavaliere per controllare la sua “follia” manifestata attraverso l’amore per una donna (i re devono figliare, non amare!);
– il male che sono i draghi, misteriose enormi (orribili?) creature che vengono di là dal mare;
– il figlio ragazzino del re, che sarà sacrificato in nome del Bene, lo voglia o no, perché il potere si perpetui;
– una donna, la moglie del re e madre di Abelis, che può salvare tutti insegnando il modo per disfare le armature.
La lettura moralistica di Abelis è facile ma banale: l’amore e il sacrificio, uscire dalle gabbie convenzionali, smascherare il tiranno. Se si segue questa scorciatoia/cortocircuito, frasi come “innamorarsi è decidere di esistere” (p.133) rischiano di sembrare banalità da Baci Perugina.
C’è di più. C’è la difesa di una libertà di amare che si misura, dicevamo, con l’incongruenza. Amare significa amarsi come si è, senza infingimenti, ma anche uscire da sé e non lasciarsi confinare da armature né interiori né esteriori.
Il messaggio di Abelis trasmette la sua essenza – idiosincrasia per la logica come armatura – anche tramite lo stile della narrazione. A cominciare dalla frase di esordio: “Per chi si avvicina su un carro, il nudo profilo del castello di Arileva brilla, immenso e superiore, nel mezzo della steppa” (p.7). Perché su un carro? Chi arriva a piedi, o a cavallo, che cosa vede? E poi, come fanno i cavalieri a mangiare se la celata dell’elmo non si può sollevare? E perché il Ciambellano non riflette sul fatto che trasformando il piccolo Abelis in cavaliere – per sempre, togliendogli anche la memoria –, alla fin fine bloccherà proprio il flusso di poteri salvifici che vuole preservare, interrompendo la discendenza regale? Sono incongruenze, ma anche messaggi. Come dire: non si può prevedere tutto, che v’importa se i conti non tornano sempre, andate avanti se vi piace.
È un romanzo senza armatura, come il suo autore. Paradosso, perché questi è un prete. Con la sua tonaca vi fa appunto pensare a un cavaliere. Basta conoscerlo per capire che non è così. E che a volte chi indossa volontariamente un’uniforme lo fa per aiutare gli altri a non lasciarsi incasellare.
Per questo Abelis vi piacerà. La lettura trasforma le contraddizioni in un indovinello felice che, appunto, ha la forza di persuasione di un buon amico e non la gelida imposizione di una legge “che vale per tutti”.
I personaggi sono interessanti. A me piace Blennenort, il re-cavaliere onomatopeico (lo chiamano Blenn, come il clangore che produce quando si muove) che è il personaggio centrale perché incarna in qualche modo il lettore: quanto spesso siamo anche noi a soffrire dentro un guscio che non abbiamo chiesto, siamo noi a desiderare carezze che non oltrepassano il metallo. E mi piacciono anche i draghi, che non sono cattivi ma semplicemente volano e mangiano. Affibbiare loro un ruolo predeterminato significa chiudere gli occhi alla vita. “Io ho bisogno dell’esistenza di un nemico, anche a costo di chiamare nemici tutti coloro che mi stanno vicino e di rimanere solo” (p.125): lo dice il ciambellano, il cattivo della storia.
La colpa in realtà non è mai degli altri. L’inferno non sono gli altri. I draghi non sono mostri. Né si può essere cavalieri a patto di non essere più uomini. Nessuna “buona battaglia” resterebbe tale. Infatti quei cavalieri che dimenticano di essere uomini sembrano una razza eletta che dedica la vita all’eroismo, ma si rivelano malati da guarire.
È la vita che non può essere irreggimentata. Noi tutti siamo persone complesse, problematiche, anche contraddittorie. L’armatura si scioglie quando accettiamo di essere come siamo, quando ci rendiamo conto che i nemici sono dentro di noi. Nessuno è soltanto buono o soltanto cattivo.
Non vorrei che a questo punto qualcuno pensasse che Abelis voglia dire che ognuno è come è e quindi faccia quel che gli pare. “Ama e fa’ ciò che vuoi”, dice Agostino, lo stesso che incoraggia a prendere alla lettera la massima evangelica di “amare gli altri come sé stessi”: ovvero, esattamente, che bisogna fare di tutto per volersi bene.
È l’amore che spiega le contraddizioni e le incongruenze, che scioglie l’armatura. Fare davvero quel che si vuole significa accettare insieme la responsabilità del proprio destino e delle proprie contraddizioni. Decidere di esistere senza rinchiudersi in un’armatura ipocrita. Amare con tutta la propria fragilità. Essere disposti a morire per il meglio di noi stessi. Combattere gli stereotipi che ci imprigionano.
Scegliere l’“economia della felicità”, ovvero preferire beni durevoli a quelli di cui il consumo è l’unico metro.
Ascoltarlo ripetere da una fiaba contemporanea è significativo.