Zaragoza - Cristo despojado
Articoli / Blog | 11 Ottobre 2012

Mauro Leonardi – Nel palpito del Cuore di Gesù

Qualche volta, leggendo il vangelo, accade che il comportamento dei discepoli ci permetta di comprendere meglio le parole di Gesù. Così per esempio quando il Signore parla dell’indissolubilità del matrimonio, la reazione di chi gli sta vicino conferma che si parla di qualcosa di assoluto (“gli dissero i discepoli: «Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi»” – Mt 19,10). Ancora, il fatto che molti abbandonino Cristo in seguito al discorso sul pane di vita rafforza la certezza che la carne e il sangue che bisogna mangiare per avere la vita eterna siano proprio quelli di Cristo, senz’ombra di metafore o analogie (molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?»… da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui… Gv 6,60.66).

Nelle righe che seguiranno desideriamo sottoporre all’attenzione del lettore la possibilità che il comportamento di Giovanni nell’Ultima Cena sia una situazione simile a quelle segnalate: in questo modo, attraverso l’atteggiamento del discepolo prediletto, si accenderebbe una luce molto suggestiva su cosa significhi realmente entrare nel cuore di Cristo, ascoltare i suoi palpiti, essere immersi nel suo amore: è il meraviglioso momento in cui il discepolo amato poggia la testa sul petto di Cristo, nel palpito del suo Cuore (1).

Il quarto vangelo colloca l’episodio che vogliamo analizzare tra la lavanda dei piedi e la proclamazione del comandamento dell’amore. Gesù, dopo aver lavato i piedi ai discepoli ed averli esortati all’umiltà si commosse profondamente e dichiarò: «In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà». I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse (Gv 13,21-22). La lavanda dei piedi crea un momento santo: tranne Giuda, per un istante tutti si dimenticano di giudicare gli altri e contemplano la propria miseria capendo di essere capaci di ogni peccato. Ciascuno, pur non avendo affatto l’intenzione di tradire, in base alle parole del Maestro pensa di essere capace di qualsiasi nefandezza (2). I discepoli si fidano più del Maestro che di sé stessi: per sapere di sé è meglio approfondire il rapporto con Cristo che chiudersi nel solipsismo. Essi, addolorati profondamente, incominciarono ciascuno a domandargli: «Sono forse io, Signore?» (Mt 26,22). Poiché il nome del traditore rimaneva ignoto, Pietro non pazienta più e si rivolge a Giovanni. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù (Gv 13,23). Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: «Dì, chi è colui a cui si riferisce?». (Gv 13,24) Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?» (Gv 13,25). Rispose allora Gesù: «È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò». E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone (Gv 13,23-26). Il discepolo prediletto si volge a Gesù per domandargli chi sia il colpevole e questi ne ascolta la confidenza. Essa è fatta in modo tale che gli altri commensali non possano ascoltare le loro parole: e così il gesto di porgere il boccone a Giuda, agli occhi degli altri discepoli, non ha nulla di rivelatore, non è un’accusa: è un’azione di cortesia e di affetto verso Giuda, simmetrica (ma con ben altro significato) al bacio che il Maestro riceverà più tardi nell’orto degli ulivi. Tutti vedono il gesto, ma solo Giovanni conosce le parole che lo spiegano. Egli, che è l’unico evangelista a rivelare questo particolare, afferma chiaramente che gli altri apostoli non capiscono perché dopo quel boccone, Giuda esca. E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui. Gesù quindi gli disse: «Quello che devi fare fallo al più presto». (Gv 13,27) Nessuno dei commensali capì perché gli aveva detto questo; (Gv 13,28) alcuni infatti pensavano che, tenendo Giuda la cassa, Gesù gli avesse detto: «Compra quello che ci occorre per la festa», oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri. (Gv 13,29). Preso il boccone, egli subito uscì. (Gv 13,30).

Si potrebbe sostenere che il dialogo tra Gesù e ciascuno dei discepoli (come dice Matteo) sia comprensibile solo all’interessato? La lettura dei sinottici non dà elementi sufficienti per una risposta univoca, ma Giovanni sembrerebbe proprio far capire che quella rivelazione così profondamente personale avveniva ammantata nel riserbo dell’intimità. Solo questo spiega perché nessuno dei commensali comprenda l’esortazione ad agire presto che Cristo dà al traditore (cfr Gv 13,27): se avessero capito che Giuda era il traditore, avrebbero compreso anche cosa stava andando a fare. Una spiegazione diversa non ci sembra proprio possibile.

Per capire quanto stiamo sostenendo, non dobbiamo dimenticare che quando il discepolo amato si reclina sul petto di Cristo, questi è profondamente commosso (13,21). Per avere un termine di paragone, pensiamo all’altra situazione in cui Giovanni ci descrive la commozione di Gesù. E’ la resurrezione di Lazzaro, e le parole usate indicano la capacità di Cristo di vivere profondamente, con tutto sé stesso, le proprie emozioni, i propri dolori: Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: «Dove l’avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. (Gv 11, 33-35). Quindi nel cenacolo, i palpiti del cuore di Cristo immergono il discepolo prediletto nell’amore che Gesù ha per Giuda. Ed il discepolo prediletto non dimentica la volontà del Maestro che i suoi seguaci non si macchino del peccato di ira e di giudizio. Quando Gesù fa capire a Giovanni che il traditore è Giuda, il suo cuore accellera il battito. Il discepolo sente quel palpito e comprende che significa amore. Ma capisce anche che solo stando nel cuore del Signore si può entrare nella verità di una persona e amarla senza giudicarla: ma solo lui, Giovanni, era sul petto di Cristo. Gli altri discepoli non avevano con il Maestro la sua stessa intimità. Allora comprende perché il Maestro gli riveli qualcosa che vuole rimanga nota solo a lui. Gesù dice quanto sa, non solo per l’umanissimo desiderio di condividere con un altro uomo la prova che stava attraversando (desiderio che emerge con tutta la sua forza nell’orto degli ulivi): il Maestro vuole anche che il discepolo amato abbia, verso i suoi fratelli nell’apostolato, la carità di non indurli in tentazione, di non farli peccare. È questo il fior fiore del comandamento dell’amore che proprio nell’ultima cena viene proclamato con tanta forza. Cristo, che rivela solo a Giovanni il nome del traditore, gli chiede di nutrire verso Giuda lo stesso amore misericordioso che Dio ha per Giuda, e gli chiede di avere verso gli altri apostoli lo stesso riserbo che è la fine carità di non esporre alla tentazione chi è più debole, amando così come il Maestro ama. Ecco perché il discepolo amato non parla. Pietro insiste, ma il discepolo non parla, compie verso Giuda lo stesso gesto d’amore del Maestro: il perdono.

Origene, Ratzinger/Benedetto XVI (cfr Gesù di Nazaret vol. I, p. 262 e vol. II, pp. 79-80 ; Guardare Cristo, p. 32 nota 14Gesù di Nazaret, p.262; Guardare Cristo, p. 32 nota 14) e altri autori, ci consentono di compiere un ulteriore passo in avanti nella comprensione di quanto accade. Essi ci spiegano che la posizione di Giovanni rispetto a Cristo nell’ultima cena è in profonda continuità con quella che il Verbo, da tutta l’eternità, ha rispetto al Padre: ecco pertanto che il rapporto di privilegio tra il discepolo amato e Gesù non sarebbe fondato su un qualche genere di simpatia umana ma proprio su una discepolanza radicata nella accoglienza (e prosecuzione) della filiazione divina nella propria vita. Il Prologo del quarto Vangelo ci dice che Gesù gode dell’intimità del Padre e può introdurvi il discepolo: «L’Unigenito, Dio, che è (rivolto) verso il grembo del Padre, Egli (lo) ha raccontato» (Gv 1,18). Il linguaggio metaforico che allude al “grembo” di Dio è tratto proprio dall’ultima cena. Così come, secondo il prologo, l’Unigenito è abitualmente rivolto verso il grembo del Padre nell’ultima cena descritta da Giovanni, ogni commensale è sdraiato su un triclinio, collocato obliquamente rispetto alla mensa, in modo da poter stendere sul cibo la mano destra. In tal modo, ciascun commensale volge la schiena a chi gli sta a sinistra, e il grembo a chi gli sta a destra. Il discepolo amato è alla destra di Gesù, quindi «nel grembo di Gesù». Quando Pietro si rivolge a lui, il discepolo si volge a Gesù e così, ricadendo sul petto di Gesù, è rivolto verso il grembo di Gesù, proprio nella posizione che il prologo di Giovanni attribuisce al Verbo in relazione al Padre. Il discepolo, voltatosi verso Gesù, ne ascolta la confidenza, senza che i commensali possano ascoltarne le parole. Analogamente, secondo il prologo, l’Unigenito è alla destra del Padre, anche se, diversamente dal discepolo amato, è rivolto verso il grembo del Padre fin da principio e in permanenza. Come solo il discepolo amato condivide una particolare intimità con il Maestro, così solo il Verbo gode della visione del volto di Dio, che nessuno ha mai visto (cfr Gv 1,18). Come il Verbo si volge verso gli uomini per raccontare il Padre, così il discepolo che ha ricevuto tale conoscenza attraverso la confidenza di Gesù può a sua volta comunicarla ai condiscepoli, amandoli con lo stesso amore “nuovo”, “più grande”, che Cristo ha portato (cfr Marco V. Fabbri, L’amicizia nel Vangelo secondo Giovanni, in M. D’Avenia A. Acerbi, Philia: riflessioni sull’amicizia, Edusc, Roma 2007, 123-135).

Ora si può comprendere meglio la profonda ragione per cui Gesù rivela al discepolo amato qualcosa che deve rimanere tra il maestro e il discepolo. L’intenzione è proprio che, attraverso il riserbo che ne seguirà, si manifesti l’amore misericordioso di Dio: infatti la conoscenza di Dio è Amore (cfr 1 Gv). Portare notizia di Dio provenendo dall’intimo di Cristo significa innanzitutto amare, ed è questo cui Giovanni è innanzitutto chiamato. Come Gesù è fino all’ultimo disponibile all’amore misericordioso verso Giuda (“Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” – Gv 12,47) così chiede al discepolo prediletto un duplice e diverso amore misericordioso verso il traditore e verso coloro che non avendo ancora messo la testa sul suo petto, non hanno ancora la possibilità di amare con il suo amore. Quando Giovanni, molti anni dopo, egli scriverà il suo vangelo quella tentazione non sarà più prossima, e questo gli consentirà di dire al lettore con parole chiare che il tradimento di Cristo è stato possibile perché Giuda, che era ladro, aveva permesso che il diavolo entrasse nel suo cuore (Gv 12,6; 13,2; 13,27), ma il Signore non voleva che ciò avvenisse nell’ultima Cena. Lì, sull’identità del traditore era possibile solo il silenzio: ecco l’ineffabile “discorso” che reca con sé chi, provienedo dall’intimità di Dio è quello della, deve parlare di misericordia e deli perdono. In questo modo , il comportamento del discepolo prediletto – (anche quel comportamento particolare che si chiama “silenzio” -) ci dice che mettere la testa sul petto di Cristo non è la semplice tenerezza, bella ma qualsiasi, che potrebbe non andare oltre l’affinità emotiva, ma è un amore che cambia il cuore del discepolo unendolo profondamente a Cristo e modificando di conseguenza il suo modo di relazionarsi con i fratelli anche e soprattutto con coloro che insieme a lui seguono Cristo, e dei quali per vicinanza e amicizia viene spesso a conoscere le fragilità e i peccati. Cristo stesso, a volte, glieli svela nell’intimità della preghiera, gliene fa percepire la gravità ma chiedendogli allo stesso tempo di prenderli su di sé, sulla sua Croce, nel suo perdono, nella sua Messa. Sì, nella sua Messa! Non per nulla Giovanni Paolo II, alla fine della vita, unisce nello stupendo modo che di seguito riportiamo, il momento che abbiamo appena finito di contemplare, con L’Eucarestia: “È bello intrattenersi con Lui e, chinati sul suo petto come il discepolo prediletto (cfr Gv 13,25), essere toccati dall’amore infinito del suo cuore. Se il cristianesimo deve distinguersi, nel nostro tempo, soprattutto per l’« arte della preghiera », come non sentire un rinnovato bisogno di trattenersi a lungo, in spirituale conversazione, in adorazione silenziosa, in atteggiamento di amore, davanti a Cristo presente nel Santissimo Sacramento? Quante volte, miei cari fratelli e sorelle, ho fatto questa esperienza, e ne ho tratto forza, consolazione, sostegno!” (Ecclesia de Eucarestia, n. 25).

All’inizio dell’articolo parlavo della possibilità che, analogamente a come accade altrove nel vangelo, il comportamento di Giovanni illustri alcune parole di Gesù. Naturalmente non possiamo conoscere tutti i pensieri del discepolo prediletto quando veniva istituita l’Eucarestia nell’Ultima Cena: non sappiamo distinguere tra la comprensione che aveva allora e quella che acquisterà successivamente per opera dello Spirito Santo, ma certo il credente non può esimersi dal notare come il comportamento di Giovanni illustri nel migliore dei modi quanto Cristo in altra occasione aveva detto: «Se presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e và prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono»(Mt 5,23-24).

Come lo rispetti e lo faccia rispettare.

Pubblicato in Studi Cattolici n. 556 – Giugno 2007; Cfr. anche Come Gesù pp. 123-124

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Dato l’argomento, suggerisco di lasciare i commenti su quest’articolo nella Discussione: https://mauroleonardi.it/forum/bacheca-group2/la-bacheca-forum3/però-non-chiedermi-di-perdonarti-non-ce-la-faccio-thread7.3/

Note

(1) L’intuizione iniziale ci è venuta attraverso la lettura del bel libro di Enrique Cases, “La primera Semana Santa” (Ediciones Internacionales Universitarias, Madrid 2006) in particolare alle pp. 66-69.

(2) Cfr Andrea Mardegan, Più gioia in cielo, Paoline 2000, pp. 94-96.