Le lettere di Paolo Pugni – Statua di sale
C’è un’immagine che mi ha colpito dalla volta in cui l’ho sentita raccontare dai coniugi Gillini e Zattoni: quella della statua di sale. Sì, la moglie di Lot che nonostante l’ammonimento divino si volta indietro “a rimirar lo passo” mentre fugge da Sodoma che con Gomorra viene sepolta sotto una pioggia di fuoco, non essendosi trovati neanche cinque giusti colà, e diventa appunto una scultura salina. Che l’interpretazione corrente segnala il rischio di rimanere prigionieri del passato, quel non volersi staccare dalla pentola calda nella prigionia dell’Egitto a far mattoni senza nemmeno la paglia, ma al caldo e con la pancia piena. Quel essere incapaci di incamminarsi con decisione verso Gerusalemme pur sapendo che potrebbe aspettarci là ciò che ci trovò il Signore. E nel volgersi indietro ci si cristallizza, prigionieri del proprio peccato. Loro però i due psicoterapeuti, la calavano nel contesto familiare e la usavano come icone dell’incapacità di immaginare il cambiamento, di credere –e sperare- che il coniuge (o un figlio) possa cambiare. Questa statua è, come dicevano loro, ladra di speranza perché ti congela in una immagine che non può cambiare: qualunque cosa tu faccia viene interpretata come accidentale, non ripetibile, non voluta. E ti incastra così in una statua maligna, persa, disperata. È l’incancrenirsi delle relazioni coniugali e familiari, l’odio sublimato in disistima, la costruzione di un meccanismo di condanna perpetua che, i due studiosi della famiglia, declinano in queste fasi
a) lui/lei è così…
b) è così perché…
c) quindi a me non resta che…. tanto non cambierà mai
che mettono in scena la degradazione dell’amore e l’esplosione della violenza psicologia in famiglia. Talvolta conduce a fini dolorose e violente.
Una sorpresa dunque trovare usare questa immagine anche da mons. Giuseppe Anfossi, vescovo (ben)emerito di Aosta e presidente della Commissione Episcopale per la famiglia e la vita della CEI, che in una conferenza presso la Chiesa di Gressoney saint Jean usa questa espressione per distinguere tra il dovere del cristiano di farsi una idea chiara delle persone e il monito a non giudicare (per non essere giudicati). Se è opportuno, anzi quasi doveroso, capire l’altro, formulando dunque una valutazione, l’errore anzi il peccato sta nel congelarlo in questo giudizio, finendo per interpretare tutto attraverso la lente di questa opinione distorta come se fosse un buco nero che tutto attira a sé e tutto spiega, quando invece manipola e confonde.
E a ben pensarci questa è malattia comune, che colpisce tutti e non solo nei confronti dei familiari, questa voglia di inscatolare, catalogare e infilzare con un spillo come si faceva una volta con le farfalle, immobilizzate lì senza vita per mettersi in mostra e suscitare emozioni, in questo caso livore che alimenta l’autovittimismo.
Che cosa possiamo fare per guarire o non ammalarci? Restare aperti alla speranza, allo stupore. Essere pronti al cambiamento, evitare la lista delle lamentele, spurgare il rancore, insomma non smettere mai di amare. Difficile, ma bellissimo.
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Giunto all’ottava Lettera, dal momento che esiste un certo dialogo tra Paolo Pugni e chi frequenta il blog, apriamo per lui una discussione ad hoc. Questo modo di procedere vale per chiunque voglia collaborare al blog.