Le lettere di Pierluigi Bartolomei – Tutto in una vita
Tutto in una Vita (dalla polaroid all’era digitale)
Siamo a Casere, un paesino nell’alta valle Aurina a 35 chilometri da Brunico e non ero mai stato a Messa in un’ ospizio, seduto in mezzo a tante persone molto anziane e in condizioni di salute piuttosto precarie. Ognuno di loro era lì per motivi diversi, chi non aveva figli o non era più in grado di stare da solo in casa e non poteva vivere con i propri cari, chi invece godeva, si fa per dire, di una pensione talmente bassa da non potersi permettere una badante. Tutti avevano lo sguardo e l’espressione particolarmente seria, forse perché si rendevano conto di vivere in attesa . Sembrava stessero aspettando quel momento, il giorno e l’ora in cui Nostro Signore li avrebbe chiamati.
Nessuna prospettiva, nessun progetto, nessuna ambizione per loro o uno straccio di sogno nel cassetto, nessuna preoccupazione sulle prossime vacanze o su quale sarà il prossimo partito che vincerà le elezioni.
Niente, assolutamente nulla dei pensieri che attanagliano le nostri giovani menti, ma soltanto il loro sguardo fisso sul tabellone dei numeri, aspettando che finalmente chiamino quello giusto.
Uscendo ho pensato che sarebbe un delitto se anch’io mi sentissi per qualsiasi motivo, fosse pure per un solo istante, come uno che aspetta sul display il proprio numeretto.
Vicino Tiro nel sud del Libano, vi è un grande santuario dedicato alla Madonna dell’attesa, molto venerata da quelle parti. La Madonna che attende Gesù impegnato nei suoi giri tra la gente a predicare. Intorno c’è una grande pianura che lambisce il mare. Sembra di vederla la Madonna, magari seduta su una pietra che attende di scorgere Gesù in lontananza che tarda ad arrivare.
Nel cuore di ciascuno, quando si è giunti ormai all’ultimo miglio, vi è il desiderio di aspettare il volto di Cristo che finalmente si materializza.
La mattina dopo mia moglie mi dice se volevamo raggiungere la vetta d’Italia a pochi chilometri dal nostro appartamento.
Giunto in quota si presentò davanti ai miei occhi uno spettacolo a dir poco strepitoso, le meravigliose montagne austriache e quelle italiane affollate e sovrapposte all’orizzonte.
MI siedo e poggiando il volto sul palmo della mano, mi volto verso il sentiero dal quale ero salito ed ho visto, come fosse attraverso una polaroid, le numerose tappe della mia esistenza.
Rivedo mio padre fiero della nascita del suo primo genito imbacuccato in una copertina celeste e con una cuffia in testa che tentava di nascondere il mio capoccione fuori misura.
Se dovessi rinascere, pensavo, preferirei avvenisse a 50 anni di età, così il prossimo ottobre avrei spento la mia seconda candelina.
Capita che restiamo troppo spesso prigionieri del contesto che non ci costringe ma certo ci influenza condizionandone i comportamenti.
Quel quartiere, quelle amicizie, quei vicini, quel particolare momento storico, gli anni 60.
I pomodori a cuore di bue, le salsicce, solo quelle fatte dal contadino, la pasta fatta in casa e possibilmente con farina acquistata direttamente al mulino. Polli soltanto quelli casarecci cresciuti allo stato brado e non in batteria. Questo ed altro per vivere meglio e più a lungo possibile erano le regole d’oro dei miei genitori entro le quali siamo cresciuti.
Un quartiere popolare dove le strade erano quelle di un paese pieno di piccoli negozi alimentari.
Come non avrei potuto frequentare “Formaggino” il cui vero nome era Fabio e con il quale passavamo pomeriggi interi vivendo appassionate partite con le biglie che correvano lungo le incisioni dei tombini dell’Acea. Chi prima toccava la pallina dell’altro ne diventava proprietario. Oppure giocavamo a buchetta con un palmo e tiro anche da distanze impossibili e solo quando sbocciavi potevi finalmente mettere la biglia dell’avversario dentro la tua retina. Come non avrei potuto conoscere Walterino “er ciccio” col quale giocavamo a figurine della leggendaria panini, sui cofani delle autovetture parcheggiate sotto casa.
Mio padre faceva spesso le notti, era poliziotto, c’era poco in casa ma ha condizionato molto la mia vita tenendomi sempre dentro la zona bianca anche se a me spesso piaceva camminare sui bordi del precipizio.
Mia madre, buona, generosa fino all’inverosimile ma altrettanto furba da tenere sempre i conti sotto controllo.
Avevamo dei parenti anche noi, alcuni rumorosi, altri silenti e che avevano bisogno di una smossa e della nostra allegria durante le feste.
Mia zia Emma, aveva più di 80 anni, da giovane faceva l’ostetrica e girava per il quartiere con un cappellino con la veletta, era conosciuta da tutti i ragazzini delle varie vie perché se per assurdo il pallone le capitava addosso, molto peggio se le colpiva il suo prezioso turbante, erano guai per tutti.
Catturava la sfera con uno scatto repentino che perfino Cita , la scimmia di Tarzan, si sarebbe vergognata al suo confronto, entrava nella prima macelleria che incontrava ed usciva soddisfatta tenendo in mano i brandelli dell’ennesimo pallone sacrificato.
Zia Emma era quella più cattolica di tutti noi, anzi avevo pure una zia suora, la sorella di mia nonna, madre superiora salesiana in via marsala, vicino la stazione termini.
Sotto casa, nascosti dietro le macchine le prime sigarette di cartone, arrotolando la carta del pane, poi le prime bande per provare l’ebrezza dello scontro fisico.
E poi Acca Larentia, l’assalto alla sezione del Movimento Sociale Italiano dove persero la vita tre ragazzi che conoscevo. Quel fatto cambiò la vita del quartiere ed inasprì le regole famigliari. Si usciva fino ad una certa ora ed eravamo più sorvegliati dai rispettivi genitori, nonostante fossimo diventati ormai maggiorenni da un pezzo.
Come sarei potuto non diventare quello che sono se non avessi vissuto un tenore di vita certamente contenuto e proprio di una classe sociale medio bassa che poteva permettersi la vacanza al mare ma soltanto facendo su e giù da Roma fino ai cancelli di castel porziano, a Ostia o al massimo fino a Torvaianica e con la mitica fiat 600. Papà piantava l’ombrellone e poi fissava il tendone agganciandolo alle sue estremità fino a formare una specie di capanna dove entravamo a cambiarci il costume e dove mettevano a fresco il pranzo con l’immancabile cocomero. Per il vino e l’acqua facevamo delle profonde buche nella sabbia fino a trovare l’acqua.
Zio Enzo di Tor Sapienza portava il super otto per fare i filmini che rivedevamo a Natale, poi ingaggiava delle sfide interminabili a braccio di ferro sul tavolinetto da pic-nic, quello di formica che si poteva ripiegare completamente fino a diventare una valigetta da viaggio, sedie comprese. Dopo pranzo i grandi giocavano a briscola e tresette mentre io restavo sempre in silenzio a guardare ammirato la faccia di mio padre che si arrabbiava col compagno perché non ricordava le carte che erano uscite. Non andavamo mai lontano dalla riva perché intimoriti dalle persistenti urla delle mamme che sembravano sirene sull’orlo di una crisi di nervi. Ricordo la prima volta che andai sott’acqua senza maschera tappandomi il naso con le dita e poi gli sguardi divertiti dei cugini che assistettero all’esperimento.
Poi sul pomeriggio presto, tutti in macchina per anticipare i torpedoni del ritorno dov’ era frequente sentire il gufo nel motore, così chiamavamo quel forte fischio quando andava in ebollizione l’acqua dal radiatore. Ci fermavamo aspettando che rifreddasse un minimo e poi aggiungevamo acqua da una tanica sempre a portata di mano.
A parte questo riedevamo a crepapelle come scemi, ricordando sempre la stessa battuta di mia sorella, 4 anni più piccola che rispondendo a mio padre, fiero un giorno di aver raggiunto la velocità di 100 chilometri orari, si mise a piangere replicando che non voleva andare a cento ma soltanto al mare.
Fu così fino a diciotto anni inoltrati, poi gradualmente il distacco ma sempre respirando i fumi dell’ambiente in cui vivevo che per alcuni versi si è calcificato dentro la mia struttura molecolare.
Se continuo a guardare la strada percorsa finora non vedo ancora lo snodo da cui forse potevo allontanarmi verso destini diversi magari più efficaci alla mia crescita e alla mia felicità.
Se pur rinascessi ed avessi l’attuale maturità e fossi finalmente uscito, come spero, dall’adolescenza di mezza età, non credo avrei scelto un’ altra strada immaginandola migliore, magari più comoda.
Ma ciò che ha dato maggiore impulso alla mia crescita, sana ed equilibrata, è sicuramente il meraviglioso rapporto d’amore che ho visto vivere tra i miei genitori attraverso quegli abbracci improvvisi e sempre allegri, abbracci teneri, carichi di passione autentica, forse leggermente goffi, diciamo pure singolari, senz’altro privi di stile rispetto ai grandi latin lover della TV, ma pur sempre efficaci specialmente per noi che li vedevamo.
Ho anche molto criticato mio padre perché non si è mai mostrato un amico col quale avrei voluto parlare di più ma forse è stato meglio così perché mi ha insegnato senza mai stancarsi con il suo esempio che l’onestà e la parola data vale più di qualsiasi altra ricchezza materiale.
Era diretto ,non usava seconde strade particolarmente ricche di parole per dirti quello che pensava ma si faceva amare perché capivi subito che era tutto quello che avevi davanti, senza fregature.
Tornando in quota, alla famosa istantanea d’altitudine, rivedo il giorno del nostro matrimonio, il giorno in cui nasciamo per davvero. Mia madre diceva che sia l’uomo che la donna nascono il giorno in cui si sposano.
Da quel giorno iniziano le tappe in salita, le famose cime, i gran premi della montagna. E’ da quel momento che i muscoli si tendono ed inizia a mordere l’acido lattico. Inizia la competizione con te stesso, con i tuoi limiti con il tuo fisico che deve svernare dalla comodità di tanta, troppa pianura percorsa.
Mi piace immaginare il fisico che perde via via la corteccia come fosse un albero dal quale cadono i rami secchi e che rinvigorisce con l’aumentare dello sforzo fino a cambiare la sua muta mettendo nuove foglie e una forza indistruttibile.
Allora se proprio dovessi rinascere preferirei ripartire proprio dal giorno del mio matrimonio per avere chiaro che il lavoro necessario è quello da fare su se stessi, perdonando spesso se stesso e ricominciando a pretendere risultati senza troppe distrazioni proprio come fa un qualsiasi atleta che sogna un’ addome piatto, la classica tartaruga.
Vedendomi sempre dall’ alto della grande cima sulla quale mi sono seduto, sempre girato nel versante alle mie spalle, dove mi rivedo negli anni passati, sono certo che stavolta salverei gran poco del mio scarso allenamento e sarei anche meno indulgente con me stesso.
Il sole intanto picchia forte e quasi non vedo più nulla da quest’altezza. Come stordito mi ritrovo con la mente disteso sul divano di casa che fisso il tavolo con le sedie tutte intorno che mi comunicano delle fortissime emozioni.
Ripenso a chi si è seduto lì per tanto tempo, ai loro volti, i loro sorrisi, i loro rumori, le voci, le sedie provvisoriamente vuote e finalmente riempite quando, i figlioli adolescenti, arrivavano tardi per la cena.
A volte gli oggetti si animano, comunicano più delle persone e mi tornano alla mente quei meravigliosi sorrisi di Teresa, quelle uscite ingenue e disarmanti di Giovanni che voleva sempre colpire la nostra attenzione. Ed anche i rimproveri e le correzioni per indicare loro come si doveva stare a tavola e come ci si deve abituare al servizio, l’uno verso l’altro.
Il contesto ci influenza ma non ci costringe, resta sempre intatta la nostra libertà di compiere il bene facendo meglio ciò che già conosciamo.
Forse la vita non è un progetto da completare ne tanto meno un problema da risolvere ma più semplicemente una somma infinita di rapporti interpersonali che hanno bisogno delle nostra preparazione per essere affrontati convenientemente.
Credo che da quel giorno in cui più o meno consapevolmente abbiamo detto “si” ad un’altra persona, comincia il nostro vero allenamento che riguarda principalmente noi stessi.
Ognuno di noi dovrebbe seguire scrupolosamente la sua scheda tecnica, come fosse in palestra, fissando obiettivi e chiamando con il loro nome i nostri difetti per poterli combattere.
Il resto è puro divertimento ma soltanto se saremo riusciti a mantenere una buona e costante condizione umana.
E’ inutile dire ma lei, gli altri sono fatti male e allora per forza che tutto va storto……se io continuo a non voler vedere scolpita sul mio addome la famosa tartaruga.
Se tutto questo non è semplice non è nemmeno impossibile per noi cattolici che abbiamo mezzi e metodi efficaci per cominciare e ricominciare.
Ogni tanto si dovrebbe salire in alto per avere una prospettiva diversa, più allargata, ricca di maggiori elementi che ti aiutano ad imbullonare meglio i famosi obiettivi.
Scendo finalmente verso valle, canticchiando e con una gran voglia che arrivi settembre per rimettere la barca in mare e proseguire con rinnovato slancio ma stavolta senza perdere di vista nemmeno per un solo istante il mio allenamento e la mia condizione umana di figlio di Dio.
Intanto la tecnologia avanza imperterrita e si sommano una sull’altra tutte le invenzioni che ci hanno permesso di passare così velocemente dalla mitica polaroid all’era digitale.
Purtroppo per l’essere umano non funziona così. Tutti i nostri miglioramenti non si sommano ma hanno la necessità di essere riconfermati ogni volta, ogni giorno, ogni mattina, in proprio e per se stessi correndo il rischio di dover ricominciare spesso e magari proprio dallo stesso difetto.
Pierluigi
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