
Don Massimiliano Nastasi – III domenica di Quaresima /B
Es 20, 1-17 ⌘ Sal 18 [19] ⌘ 1 Cor 1, 22-25 ⌘ Gv 2, 13-25
La liturgia della terza domenica del tempo di Quaresima introduce alla seconda parte del cammino verso la Pasqua, una «struttura ascetica all’interno dell’Anno liturgico connessa con la pastorale dell’iniziazione cristiana degli adulti, inserita nel contesto ecclesiale e presieduta dal vescovo» [1], che risale ai primi tempi della Chiesa.
Nel IV secolo a Roma, infatti, viene istituito un periodo di tre settimane di preparazione alla Pasqua, e nell’attuale terza domenica di Quaresima vengono introdotte le letture del vangelo di Giovanni che seguono e danno significato gli “scrutini” battesimali [2]. In particolare, nell’acclamazione delle pericopi della Samaritana (cfr. Gv 4, 5-30), del Cieco nato (cfr. Gv 9) e di Lazzaro (cfr. Gv 11, 1-45) [3], vengono consegnate (traditiones) ai catecumeni «le antichissime formule della fede e della preghiera cioè il Simbolo (Credo), e la preghiera del Signore (Padre nostro) che propongono la loro illuminazione» [4]. Solo tra il 354 e il 384 il periodo di Quaresima viene esteso alle attuali sei settimane, lasciando comunque le ultime tre (III, IV e V) secondo lo schema antico.
La riforma seguita dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) ampia l’anno liturgico attraverso tre cicli (A-B-C) dedicati rispettivamente ai vangeli di Matteo, Marco e Luca. Giovanni, invece, presente in alcuni tempi particolarmente significativi.
La riflessione di queste ultime domeniche prima della Pasqua, quindi, è incentrata non più secondo l’itinerario evangelico proposto da Marco, ma bensì dalla linea cristologica di Giovanni, che Origene definisce con queste parole: «Il fiore di tutte le scritture è il Vangelo, e il fiore dei Vangeli è quello scritto da Giovanni, il cui significato nessuno può penetrare, se non ha riposato sul petto di Gesù e non ha ricevuto da Gesù Maria per Madre» [5], e che Clemente d’Alessandria ritiene di qualificarlo il più alto degli scritti neotestamentari: «Vedendo che le cose corporali erano state esposte nel Vangeli (precedenti), spinto dai discepoli, dietro suggerimento divino dello Spirito, fece un Vangelo spirituale» [6].
Dopo il primo miracolo a Cana di Galilea durante un banchetto di nozze, «inizio dei segni compiuti da Gesù» (Gv 2, 11), vicina alla sua prima Pasqua pubblica (per i Sinottici l’unica), il Maestro sale a Gerusalemme adempiendo così al comandamento della Tōrāh che prescrive come «tre volte l’anno ogni maschio comparirà alla presenza del Signore Dio» (Es 23, 17). Recarsi a Gerusalemme non è solo adempiere al comandamento di Mosè, ma «il pellegrinaggio festivo aveva, tra gli altri significati, il senso di una forte affermazione di fede, di riconoscenza per i doni ricevuti (la libertà, la Torà, la terra), di abbandono nelle mani del Signore, che pur chiamando a sé in un unico luogo tutti gli uomini, prometteva la sicurezza del paese dalle minacce dei nemici esterni (Esodo 34,24), che anche in tempi biblici non mancavano» [7].
Entrando nel tempio Gesù e i suoi discepoli trovano «gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete» (Gv 2, 14). Il ruolo di questi venditori è fornire il dono da presentare al Signore, come insegna la Legge: «Nessuno si presenterà davanti al Signore a mani vuote, ma il dono di ciascuno sarà in misura della benedizione che il Signore, tuo Dio, ti avrà dato» (Dt 16, 16). Infatti, «al tempio erano in vendita tutti i vari tipi di animali per il sacrificio così che i pellegrini potevano eliminare la spesa addizionale di procurarseli da luoghi distinti. L’unica moneta corrente accettata al tempio era il mezzo siclo tiriano: le monete romane non potevano essere usate; i cambiavalute pertanto, svolgevano un ruolo necessario» [8].
Il Maestro a questa vista, rivivendo l’esperienza dell’antico saggio che nella sua preghiera rivolta a Dio afferma come lo «divora lo zelo per la tua casa» (Sal 69, 10), con una frusta di cordicelle scaccia tutti fuori e getta a terra il denaro dei cambiamonete rovesciando i banchi. Nei sinottici questo gesto richiama al profeta Geremia il quale nel 587 a.C., di fronte all’esercito di Nabucodonosor alle porte di Sion, invita gli ebrei a non credere di essere salvati dal tempio in quanto, ormai da loro stessi, trasformato in «un covo di ladri» (Ger 7, 11). In Giovanni, invece, lo stesso gesto profetico rivela il più grande segreto: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2, 19).
E se nei racconti di Marco, Matteo e Luca l’ira di Gesù appare rivolta contro la disonestà dei trafficanti nel tempio – «Così il Cristo che qui rovescia i tavoli dei cambiavalute rovescia anche l’originale avidità, quella dei primogenitori di diventare come Dio, e nel tempio offre il proprio corpo al posto di quello d’Isacco, lui che qui scaccia i venditori d’animali sacrificali» [9] –, nel VI Vangelo l’accento invece è posto sulle stesse istituzioni alle quali Gesù si contrappone. Giovanni, di fatto, «esemplifica la totale incompatibilità tra Gesù e il suo ambiente, che non lo accoglie (Gv 1, 11). E, nell’interpretazione di Giovanni, il santuario è il corpo di Gesù “distrutto” dai “giudei” ma risuscitato da Gesù. Così, il Tempio di Gerusalemme che è stato reso un luogo di mercato, è stato sostituito dal corpo di Gesù come vero luogo santo» [10].
Riferisce infine Giovanni come la profezia del Maestro come vero tempio non viene compresa, ma «quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù» (Gv 2, 22). Infatti, «la resurrezione risveglia il ricordo, e il ricordo alla luce della risurrezione fa apparire il significato della parola prima incompresa e la ricollega al contesto dell’intera Scrittura. L’unità di Logos e fatto è la meta a cui mira il Vangelo» [11]. La memoria così fa emergere il senso del fatto rendendolo significativo ai suoi discepoli che «ricordando rivivono quel momento in cui essi non capivano quelle parole strane di Gesù, pronunciate dopo il gesto forse per loro molto più comprensibile della cacciata dei venditori dal tempio. Dopo la morte di Gesù, però, quel ricordo si trascolora e diventa la scoperta di Cristo, tempio perfetto, in cui si adora il Padre senza più ormai aver bisogno della mediazione di quelle meravigliose pietre con le quali Erode aveva costruito il suo tempio» [12].
Memoria che con la resurrezione aiuta i discepoli a contemplare il Cristo non «entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso» (Eb 9, 24), e che li trasforma in santuario di Dio.
«La santa Scrittura ha chiamato il corpo stesso del Figlio sia casa sia tempio, quando Salomone dice: “La Sapienza si è costruita la casa” (Pr 9, 1); e l’evangelista nello stesso senso dice: “Ma egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2, 21). Se dunque quello che è il corpo di Cristo è il tempio di Cristo, siamo il suo tempio anche noi, che l’apostolo conferma essere il suo corpo, dicendo: “Voi siete corpo di Cristo e sue membra” (1 Cor 12, 27). Dimostra chiaramente che noi siamo anche tempio dello Spirito Santo, dicendo: “Non sapete che le vostre membra sono il tempio dello Spirito Santo, che è in voi e che avete da Dio” (1 Cor 6, 19)?» [13].
[1] S. Rosso, Il Segno del Tempo nella liturgia. Anno liturgico e liturgia delle ore, Elledici, Torino 2002, 276.
[2] «Gli “scrutini”, che si celebrano solennemente di domenica, mirano al duplice scopo […] di mettere in luce le fragilità, le manchevolezze e le storture del cuore degli eletti, perché siano sanate, e le buone qualità, le doti di fortezza e di santità, perché siano rafforzate. Gli scrutini infatti sono predisposti per liberare dal peccato e dal demonio e infondere nuova forza in Cristo che è via, verità e vita degli eletti»: CEI, Rito dell’Iniziazione Cristiana degli Adulti, LEV, Città del Vaticano 20022, n. 25, 1.
[3] Cfr. Th. Maertens, «Storia e funzione delle tre grandi pericopi “de caeco nato”, “de samaritana”, “de Lazaro”», in Concilium 3/2 (1967) 73-78.
[4] CEI, Rito dell’Iniziazione Cristiana degli Adulti, cit., n. 25, 2.
[5] Origene, Commento al Vangelo di Giovanni, V. Limone (a cura di), Bompiani, Milano 2012, 51.
[6] Clemente Alessandrino, Ipotiposi, 6.
[7] R. Di Segni, «Il pellegrinaggio», in Atti del Convegno internazionale del S. Egidio, Barcellona sett. 2001.
[8] B. Vawter, «Il Vangelo secondo Giovanni», in Grande commentario biblico, A. Bonora – R. Cavedo – F. Maistrello (ed. it. a cura di), Queriniana, Brescia 1973, 1386.
[9] T. Verdon, La bellezza nella Parola. L’arte a commento delle letture festive. Anno B, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2008, 89.
[10] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2001, 467-468.
[11] J. Ratzinger-Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, 272.
[12] G. Ravasi, Il Vangelo di Giovanni, vol. I, Mondadori, Milano 2020, 58.
[13] Fulgenzio di Ruspe, Tre libri a Trasamundo, 3, 35, 8. 9: CCL 91, 183-184.
Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)