
Don Massimiliano Nastasi – Riflessioni sulla XXIV domenica del Tempo Ordinario /A
Sir 27, 33 – 28, 9 ⌘ Sal 102 ⌘ Rm 14, 7-9 ⌘ Mt 18, 21-35
La liturgia della scorsa domenica, successivamente al primo annuncio della passione e resurrezione – «Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (Mt 16, 21) –, riporta la prima parte del quarto grande discorso del Maestro sulla chiesa (Mt 18). O meglio, una «collezione abbastanza disparata di insegnamenti etici, molti dei quali indirizzati ai discepoli di Gesù [che] manifesta una prospettiva che la rende sorprendentemente adatta ad una chiesa istituita, il tipo di chiesa che solo in Matteo Gesù menziona (Mt 16, 18)» [1].
Così, dopo il discorso della montagna (cc. 5-7) e missionario (c. 10), e quello centrale sulle sette parabole relative al regno dei cieli e i suoi sviluppi (c. 13), l’evangelista apre alla comprensione dell’identità della comunità cristiana. Essa si rende tale con la filiazione divina [2], ed è chiamata alla salvezza dei fratelli attraverso la correzione fraterna (Mt 18, 15-17) [3], e soprattutto il perdono che consiste principalmente «nell’imitare l’illimitata estensione del perdono di Dio» [4], come precisa Gesù a Pietro già disponibile all’accoglienza della riconciliazione: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette» (Mt 18, 22).
Per aiutare il discepolo a cogliere la misericordia del Padre nei confronti dei suoi figli, il Maestro chiude il discorso sulla chiesa con la parabola del servo spietato (Mt 18, 23-35) affinché «i cristiani [che] hanno ricevuto il perdono da Dio, devono a loro volta concederlo per essere simili a Dio» [5]. Una corrispondenza all’agire divino sottolineata precedentemente nel primo grande discorso di Gesù: «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5, 44-45). Un’applicazione dal discorso programmatico alla comunità cristiana che vive l’esperienza della gioia e della pace del Risorto.
Il potere di Dio, che è la riconciliazione con Dio e gli uomini affidata a Cristo – «Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4, 4) – coincide infatti con il suo infinito perdono, un potere che estendendosi sulla terra, crea la chiesa: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18, 20). E così realizzare la profezia affidata ad Elia ed incarnata nel Messia: «Tu sei stato designato a rimproverare i tempi futuri, per placare l’ira prima che divampi, per ricondurre il cuore del padre verso il figlio e ristabilire le tribù di Giacobbe» (Sir 48, 10).
Nella parabola sorprende comunque l’atteggiamento del re che in prima istanza si mostra misericordioso nel condonare un debito di diecimila talenti – un talento equivale a seimila denari, ossia al salario di seimila giornate lavorative; diecimila talenti, pertanto, è l’equivalente di sessanta milioni di paghe giornaliere –, ma che successivamente dimostra la sua ira a chi non usa misericordia: «Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto» (Mt 18, 34); giungendo alla sentenza: «Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello» (Mt 18, 35). Difatti, «se l’uomo non perdona, non può sperare di essere perdonato; se non rinuncia alle sue rivendicazioni, che sono piccole, non può pretendere che Dio dimentichi le sue rivendicazioni nei suoi confronti» [6].
La spiegazione non va cercata in una contrapposizione tra l’ira, come appartenente alla teologia veterotestamentaria, e l’immagine di Dio come amore, anche se «stranamente nell’AT si parla più spesso dell’ira di Dio rispetto a quella dell’uomo […] L’AT conosce però anche l’ira “giusta”, che viene provocata quando si viola l’obbedienza, la santità e il dominio di Yahwe (cfr. Es 16, 20; 32, 19.22; Nm 31, 14; 2 Re 13, 19)» [7]. Piuttosto va compresa nel ruolo del perdono in Matteo e dell’importanza per Gesù che l’azione dei suoi figli assomigli all’azione di Dio. Non è, infatti, la propria riconciliazione con Dio la cosa fondamentale, quanto il potere e il regno dei cieli, che si realizzano nel trasmettere la riconciliazione. Nell’ultima cena Gesù, infatti, «ha fondato, in vista della propria morte, la chiesa come alleanza (fra Dio e gli esseri umani e fra i cristiani tra loro). Questa alleanza crea qualcosa come uno spazio sacro, un territorio d’asilo. Parlando in metafora, chi depone le armi all’ingresso di questo territorio, vi appartiene» [8].
Dunque, ciò che conta non è la singola riconciliazione, pur se richiesta dal carattere fondativo del cristiano – «Qualunque cosa abbiamo da perdonarci a vicenda, è sempre piccola cosa rispetto alla bontà di Dio che perdona a noi» [9] – , ed esplicitata attraverso la parabola della pecora smarrita (Mt 18, 12-14), posta appunto al centro del discorso sulla chiesa, ma che il Padre sia presente nella realtà della storia come regno di Dio, o meglio come «salvezza per l’uomo, ed esattamente la salvezza escatologica, che pone termine ad ogni realtà terrestre» [10]. Non vi è nel vangelo di Matteo altra salvezza che questa.
L’ira del padrone, pertanto, in base a questa riflessione, resta più simile all’ira “giusta” dell’AT, e resa azione compiuta dal Maestro – «Gesù entrò nel tempio e scacciò tutti quelli che nel tempio vendevano e compravano; rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe» (Mt 21, 12) –, si estende agli uomini che non elargiscono anche al loro prossimo la grazia ricevuta (Mt 18, 34) o che non accettano l’invito della cena (Mt 11, 20-24). Infatti, «soltanto in lui [Gesù] possiamo cogliere l’incredibile tensione tra ira e amore di Dio» [11].
Nel discorso di Gesù sulla chiesa, l’evangelista certamente colloca le problematiche relative alla sua comunità di Antiochia di Siria degli ultimi decenni del I sec. attraverso una catechesi ad un periodo post-pasquale, anche se sviluppata riportando fedelmente i detti personali del Maestro [12]. Infatti, «per Matteo non si dà etica senza escatologia, ma neppure escatologia senza un preciso contenuto etico. Ciò che le tiene unite insieme è la persona di Gesù» [13]. Al fine questo di orientare la comunità a Gesù, unico maestro dei credenti (Mt 23, 10), che guida ed illumina la chiesa nel suo difficile momento storico: «Il discepolo di Gesù resterà sempre e solo discepolo. Nessuno potrà chiamarsi né padre, né maestro, né dottore» [14]. Unica pietra angolare che fa della comunità il tempio santo di Dio.
«È meglio tacere ed essere, che dire e non essere. È bello insegnare se chi parla opera. Uno solo è il maestro che ha detto e ha fatto e ciò che tacendo ha fatto è degno del Padre. Chi possiede veramente la parola di Gesù può avvertire anche il suo silenzio per essere perfetto, per compiere le cose di cui parla o di essere conosciuto per le cose che tace. Nulla sfugge al Signore, anche i nostri segreti gli sono vicino. Tutto facciamo considerando che abita in noi, per essere noi templi suoi ed egli il Dio (che è) in noi, come è e apparirà al nostro volto amandolo giustamente» [15].
[1] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia, 2001, 278.
[2] Il tema della filiazione dei credenti, già assimilata da Matteo (Mt 21, 28-32), è presentata inizialmente da Paolo in Gal 4, 1-7 e Rm 8, 14-17. La condizione nuova del credente è quella di figlio adottivo, erede del Padre e non più schiavo (cfr. Gal 4, 21-31: il credente non è figlio della schiava, Agar, ma figlio della donna libera, Sara). È, ancor meglio, la figliolanza in Cristo che non rappresenta più l’obbedienza alla legge (Rm 3, 21-31) e rende possibile l’adozione, che è lo Spirito che fa dei «figli adottivi […] per mezzo del quale gridiamo: Abba, Padre» (Rm 8, 15). Il battesimo, che associa il credente alla morte di Cristo, è il segno per eccellenza della sua nuova condizione (Rm 6, 1-14) e che forma la chiesa come comunità dei credenti. Cfr.: O. Cullmann, Cristologia del Nuovo Testamento, Il Mulino, Bologna 1970.
[3] Secondo l’esegeta tedesco Klaus Berger (1940-2020), «Gesù non deve aver detto queste parole. Si parla infatti della comunità oppure della chiesa, e Gesù non ha mai pensato a queste realtà. Inoltre la pericope contraddice il comandamento del perdono (Mt 18, 21s); solo uno dei detti, si dice, può essere di Gesù. Ancora: il testo sarebbe protocattolico, poiché si tratterebbe qui di una procedura di istanze giudaiche regolata casuisticamente (prima a quattr’occhi, poi con due o tre, infine con la comunità). Ragionamenti giuridici di questo tipo avrebbero collocato Gesù in posizione molto distante. Infine la versione si concluderebbe più “duramente” rispetto alle analogie giudaiche conosciute. Per esse è infatti la presentazione al cospetto della comunità il massimo grado dei provvedimenti, non l’espulsione. In breve, qui viene presentata in modo funesto la successiva prassi della scomunica. La sollecitazione di Gesù per un amore sconfinato sarebbe qui ferita ad opera di una comunità malvagia che ragiona in termini giuridici»: K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento. I. Vangeli e Atti degli apostoli, Queriniana, Brescia, 2014, 109-110.
[4] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, op. cit., 280.
[5] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento, op. cit., 114.
[6] J.L. MacKenzie, «Il Vangelo secondo Matteo» in Grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1973, 944.
[7] G. Lehner, «Ira», in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 1997, 533.
[8] K. Berger, Commentario al Nuovo Testamento, op. cit., 115.
[9] Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, 190.
[10] R. Bultmann, Gesù, Queriniana, Brescia 20177, 33.
[11] G. Stählin, «Ira», in Grande Lessico del Nuovo Testamento, G. Kittel – G. Friedrich (a cura di), vol. VIII, Paideia, Brescia 1972, 1252.
[12] Problemi legati al rischio dell’incoerenza e la tentazione di adeguarsi agli insegnamenti di «falsi profeti» (Mt 7, 15-23); l’impegno missionario rischioso che pone problemi seri (Mt 10, 28.33) ed una comunità che soffre l’influenza negativa di chi rimane ostile all’insegnamento di Gesù subendo tentazioni non evangeliche (Mt 13, 24s.36s). Oltre ciò una Chiesa ove i deboli e i fragili subiscono lo scandalo dei più forti con il rischio di perdersi (Mt 10, 14s). Ed infine un’attesa escatologica forte ma non vissuta in maniera coerente (Mt 25).
[13] G. Segalla, Evangelo e Vangeli, EDB, Bologna 1993, 113.
[14] L. Pacomio, Gesù. 37 anni che cambiarono la storia, Piemme, Casale Monferrato (AL) 20004, 162.
[15] Ignazio di Antiochia, Lettera agli Efesini, XV, 1, in I Padri Apostolici, A. Quacquarelli (a cura di), Città Nuova, Roma 19917, 105.
Nato a Roma il 2 aprile 1976, sacerdote diocesano. Dottore in Teologia, dopo l’insegnamento IRC e gli studi a Milano e Roma, fino al 2015 è stato Vice Preside dell’Istituto Teologico Diocesano e Direttore dell’Ufficio Catechistico di Mondovì. Ha approfondito Archeologia e Geografia a Gerusalemme e attualmente è Docente di Cristologia presso Istituto Superiore di Scienze Religiose “Ecclesia Mater” della Pontificia Università Lateranense, Guida Biblica per l’Opera Romana Pellegrinaggi e Vicario Parrocchiale di Santa Caterina da Siena in Roma. Autore dei saggi “La cristologia adamitica nella concezione agostiniana. Alla scoperta di un’antropologia della redenzione” (Edizioni Sant’Antonio, Padova 2019) e “La questione del soprannaturale nella concezione agostiniana. Riflessione all’opera De natura et gratia di Agostino d’Ippona” (Edizioni Sant’Antonio, Padova, 2019)