Blog / Eventi segnalati dal blog | 29 Maggio 2020

Giulio Base – Il mio nuovo film: “Bar Giuseppe”

‪Non potendo uscire in sala per l’emergenza Coronavirus, da giovedì 28 maggio in anteprima assoluta su RaiPlay‬, ecco l’ultimo film di Giulio Base, che molti hanno potuto apprezzare nella lettura della mia Via Crucis.
Bar Giuseppe è un film delicato che esplora in chiave contemporanea il legame tra Giuseppe e Maria. “Un uomo umile che incontra una giovane africana. Alla fine è anche la storia più vecchia del mondo, lui, lei e l’altro. E di chi è il figlio”. Giuseppe è Ivano Marescotti: ha da poco perso la moglie e non vuole rinunciare a gestire il bar, malgrado il parere contrario dei figli, uno fornaio con famiglia, l’altro un tossico, che vorrebbero vendesse tutto. Dopo aver fatto tanti colloqui (gli chiedono chi prenderebbe e risponde “prenderei tutti”, come, racconta Base, Fellini dopo i provini alle comparse a Cinecittà), alla fine chiede alla comunità africana di mandare uno di loro e gli viene assegnata Bikira, una ventenne aggraziata. Malgrado la differenza di età tra l’uomo anziano con l’hobby della falegnameria e la giovane (Virginia Diop) nasce un sentimento, cui segue un matrimonio che crea scandalo nel paese e la rabbia dei figli. Sarebbe dovuto uscire al cinema, il 19 marzo, giorno di San Giuseppe. Invece, a causa del dal coronavirus il film ha aderito al progetto #ilcinemanonsiferma. “La scelta di uscire su Rai Play e’ stata ineluttabile e puà essere una grande occasione per farlo vedere a tutti, considerando che non sarebbe uscito in mille sale”. Dopo Bar Giuseppe Giulio Base sta girando Un cielo stellato sopra il Ghetto di Roma

Com’è nata l’idea di Bar Giuseppe?
“Dall’incontro con un libro sottile che ho fatto navigando tra gli scaffali di una libreria. Lo firmava Gianfranco Ravasi, in copertina un Giuseppe molto anziano, con in braccio il figlioletto. Mi ha incuriosito e fatto riflettere sul fatto che non conoscevo questa figura di uomo silenzioso, lavoratore, umile, obbediente aperto sensato giusto. Il vangelo lo definisce giusto, lo nomina nove volte, in cui non parla mai. L’idea di raccontarlo in modo moderno vagava nella mia mente ma non riuscivo ad acchiappare la vera idea finché, leggendo tutt’altro, ho scoperto che nel Vangelo secondo Pilato di Schmitt, c’era scritto Bar-abbà, che in aramaico vuol dire figlio di Giuseppe e mi è sembrato che questa sciarada si componesse ed è arrivata l’idea del Bar Giuseppe”. E da lì sono partito, cercando un’attualizzazione che non fosse catechistica. Chi ha visto il film ha interpretato la storia a suo modo, in modi anche diversi tra loro, sia laici che credenti. E’ un film che parla a prescindere da quella storia, pur mantenendola”.

Che viaggio è stato per lei Bar Giuseppe?
“Un viaggio nel corpo e nel carattere dell’uomo che mi piacerebbe essere, da cui sono ben lontano. Un viaggio profondo in cui ho messo in gioco me stesso, mi sono interrogato sulle brutte cose che sono dentro ognuno di noi, se hai la forza di guardarle. Nessun film mi ha sfidato così tanto. Vorrei essere meno agitato e preoccupato di come sono, avere la capacità di accogliere e ascoltare senza nervosismo, obbedire in silenzio, cosa che non riesco a fare”.

E’ anche un film sull’etica del lavoro.
“Come Giuseppe è stato un migrante in Egitto io sono figlio di emigranti con la terza elementare che hanno conquistato quella fetta di benessere col lavoro, e me l’hanno passata. Sono nato e cresciuto a Torino, dove il lavoro è uno dei valori più importanti. Ce l’ho dentro forte, quasi troppo. Mi padre faceva il falegname, mamma lo chiamava San Giuseppe perché sapeva sistemare i cassetti, le cose. Mia mamma è mancata che avevo 25 anni. E poi ho avuto sempre un interesse, accompagnato da studi, sulle cose metafisiche. C’è stato un momento in cui venivo identificato come il ‘regista dei santi’, non che mi dispiacesse, ma non mi ritengo un catechista, semmai un uomo che si interroga”.

Come considera il viaggio della sua carriera?
“Fortunato, solo nel cinema la mia carriera compie trent’anni. Il primo film, Crack, risale al 1991. Scorsese, che è un gigante, a inizio carriera diceva un film per me, uno per il mercato e così più o meno ho cercato di fare io. Guadagnare quello che era necessario, senza vergogna, facendo cose che mi piacevano. Di recente però le due idee si sono avvicinate, penso a Il banchiere anarchico e a Bar Giuseppe. Vorrei continuare così”.

Quando ha capito che voleva fare il cinema?
“Non ho altri ricordi: da subito, a quattro, cinque anni. Grazie a papà che mi portava in sala. Direi da sempre”.

Il momento professionalmente peggiore e quello più bello?
“Delle cose belle, che sono state tante, ti ricordi le più recenti. Posso dire che rispetto ai sogni che avevo sono state tante. Mi piace citare Bar Giuseppe entrato nella “short list”, nella preselezione insieme a Il Traditore al Golden Globe, il mio film più piccolo e pauperistico. Ho fatto salti di gioia. Il più brutto ricordo è legato al primo film, Crack, che fu presentato alla Mostra di Venezia e venne accolto male. Mi sentii veramente ferito per la ferocia delle cose che scrissero. Dopo tanti anni mi chiedo: ma un ragazzo di 24 anni aveva bisogno di un attacco così feroce? Ma va bene lo stesso”.

Il ricordo più divertente?
“Quello legato a un film fatto in totale indipendenza da quattro, cinque amici. Lovest, nel ’97, con Alessandro Gassmann, Gianmarco Tognazzi. Facemmo un viaggio low cost da New York a Los Angeles, di per sé memorabile, con un filmetto, lo dico non in modo dispregiativo, che a modo suo ebbe un buon esisto, la Lucky Red lo distribuì”.

Ha avuto il piacere di dirigere Vittorio Gassman.
“Tra gli incontri più belli della mia vita. Con Vittorio c’è stato un rapporto che non mi viene in mente potesse essere più completo: a 12 anni andavo a teatro tutte le sere a vederlo, imbucandomi quando non avevo soldi. A 18 anni feci il provino ed entrai nella sua scuola, a 20 fui diretto da lui, che mi indicò anche perché interpretassi la sua versione da giovane per uno speciale televisivo. Siamo stati amici, sono stato il regista che l’ha diretto nell’ultimo film, La bomba, nel 1999. Mio figlio si chiama Vittorio. Credo sia un amore eterno”.

Tratto da Repubblica