
Lettere di M. B. – Cronache di un medico contagiato da Covid-19 (3)
9 marzo
È iniziato un altro lunedì da Coronavirus, un nuovo giorno lavorativo che spero sempre sia migliore del precedente: invece non è così.
Oggi è veramente il peggiore dei lunedì. Lavoro ad ambulatorio chiuso cioè senza avere contatto fisico né visivo con i pazienti. In questo modo riesco comunque ad adempiere a quasi tutti i miei doveri: i giorni di malattia si possono fare online [cioè dare i permessi per stare assenti dal lavoro, ndr], le ricette si possono prescrivere e poi consegnare telefonicamente al paziente un codice che darà direttamente al farmacista. In questo modo posso dedicarmi poi alle incessanti telefonate: dalle 8 alle 13:30 ricevo circa 100 chiamate (anche se ho smesso di contarle), senza contare le risposte che do a chi mi contatta via WhatsApp. Ho ricontattato i miei capi dell’azienda sanitaria locale che sanno della mia situazione e che mi confermano che non verranno a farmi il tampone. Ce ne sono pochissimi e ancor meno è il personale che può uscire e venire a farmelo. Ci confermiamo a vicenda che comunque siamo sicuri che con i miei sintomi e i contatti che ho avuto con i numerosi pazienti positivi della mia zona che si tratti di Covid19.
Devo confessarvi che dopo aver riposato due giorni sono un pochino più in forza ma con questa mattinata le forze stanno rapidamente venendo meno. Mi fermo un quarto d’ora per pranzare con le mie figlie che hanno preparato una pasta in bianco buonissima: proprio al dente come piace a me. Altro non posso apprezzare poiché non distinguo tuttora i sapori. Nel frattempo un’amica mi manda un vocale e mi chiede se mi sono fatta visitare, auscultare il torace e se mi hanno fatto il tampone.
Io con un altro vocale per cercare di fermare subito la sua ansia per la mia salute e per le incognite che lascia la situazione – che dal tono di voce capisco essere tanta – cerco di tranquillizzarla spiegando che è meglio che nessun collega venga a casa mia a visitarmi. Il motivo, lo ripeto, è semplice: siamo rimasti davvero in pochi e gli attivi non sono sufficienti ai bisogni. Del resto non ho trovato nessun collega in grado di sostituirmi.
Oltretutto, anche se mi dovessi far auscultare il torace, sentirebbero un torace libero, “pulito”, come diciamo noi in gergo, senza nessun rumore particolare: il 112, come ripetono tutti, va chiamato solo se ti manca davvero il fiato.
Per quanto riguarda il tampone, essendocene pochi viene praticato solo in ospedale per i casi gravi o, per esempio, per il personale di un reparto in cui ci fosse stato un contagio per sapere chi deve andare in isolamento e chi invece può continuare a lavorare.
Mi chiama la figlia di una signora anziana che è stata trovata morta in casa. Serve la constatazione di morte. In questo caso la farà un collega della “continuità assistenziale” che dalle 14 del pomeriggio fino alle 20 di sera è stata aggiunta proprio per sostenere i medici insufficienti sul territorio. Mi spiace molto non poter andare a dare l’ultimo saluto al defunto e a confortare i familiari: mi costa, ma è giusto così.
Potrei andarci, come mi ha suggerito la centrale operativa del 118, facendomi accompagnare da mio marito (perché sono ancora molto debole per guidare) e chiedendo che non ci siano presenti nel momento in cui arrivassi io nella stanza della salma. Detto per inciso: queste misure sarebbero superflue per la sola salma perché un morto non può trasmettere nulla.
Il pomeriggio trascorre ancora tra molte telefonate e la febbre sale solo in serata di tre linee. Sono contenta!