Le Lettere di Alessandra Bialetti – Il seme è gettato
Sir 35,15b-17.20-22a; 2Tim 4, 6-8.16-18; Lc 18, 9-14
Il seme è gettato. Ci dobbiamo credere, sempre. Oggi ultimo incontro domenicale al Nuovo Complesso di Rebibbia. Ci si trasferisce al femminile, un nuovo percorso, nuovi volti da incontrare, sguardi da incrociare. La parabola del seminatore ci accompagna nel salutare i compagni di viaggio di questi lunghi e fecondi mesi. Dispiacere sia da parte nostra, cappellano e volontari, sia da parte loro. Tutti siamo cresciuti, ci siamo dati una mano, abbiamo percorso un tratto di strada e abbiamo seminato l’uno nel cuore dell’altro. Siamo tutti chiamati al cambiamento, dentro e fuori, quel cambiamento di cui abbiamo spesso parlato durante le omelie dialogate augurandoci di compiere ognuno il primo passo, quel passo che ci porti lontano da dove siamo e verso dove desidereremmo arrivare. Il seme è gettato, a volte con fatica, ma nulla si conquista senza impegno e responsabilità. La gioia del raccolto è già stato l’incontro, le relazioni costruite, quella piccola fiducia di pensarsi diversi, con nuove possibilità future sia dentro che fuori le sbarre. Alcuni si sono persi, altri arrancano, altri ancora hanno già in mano nuove carte da giocare. Tutti hanno avuto la possibilità di guardarsi dentro e comprendersi maggiormente, di lavorare su se stessi per desiderare di cambiare. M. ci saluta così: “Grazie della possibilità che ci avete dato di esprimerci, dello spazio e del tempo di poter condividere ciò che avevamo e abbiamo dentro”. Il resto spetta a te, giocoliere. Siamo servi inutili ma, siccome siamo profondamente umani, oggi ci siamo anche commossi nel lasciar andare quei… figli. Un po’ anche nostri.
Il messaggio della Scrittura è forte (e quando mai non lo è?!). Dio non fa preferenze. Quindi nemmeno dentro il carcere? Si, nemmeno dentro il carcere. Allora, Signore, dove siamo finiti? Noi che operiamo costantemente distinguo e separazioni. Eppure la tua parola, “vecchia” di secoli, rimbomba nel nostro vuoto ancora oggi. Ci chiami ad abbattere muri e a costruire ponti. Prima lezione che mi fa sorridere dietro sbarre che dividono meno delle barriere esterne. Don Antonello sembra partire per la tangente con le sue domande che inizialmente appaiono difficili da comprendere. “Pensiamo alla pioggia. Cosa accade qui da noi e cosa in Nigeria?”. Da qualche domenica sono tanti i detenuti nigeriani che desiderano condividere la messa. Sconcerto, sembra una domanda futile, banale e alcuni sorridendo rispondono che naturalmente si apre l’ombrello! Invece no. Per il ragazzo nigeriano, con gli occhi lucidi ma sorridenti mentre ricorda l’essere stato bambino nella sua terra, la pioggia significa uscire allo scoperto e lasciarsi bagnare, provare un senso di libertà, farsi toccare dalla grazia di un’acqua che spesso mancava. Metafora della vita: le cose non sono mai come appaiono, si possono vivere gli accadimenti come pietre di inciampo o come opportunità. Il carcere come fine di tutto o come occasione per fermarsi nelle vuote e lunghe giornate che non passano mai e riflettere sulla propria vita, sui passi falsi compiuti e su quelli da cui si vorrà mettere in guardia i figli una volta usciti. T., il detenuto non credente ma sempre più presente all’appuntamento domenicale, provoca il cappellano: “Se durante il cammino trovassi una quercia che faresti? Ci gireresti intorno o la butteresti giù?”. La risposta è in linea con la tua parola sulla nostra vita, giocoliere. “Mi chiederei che significato possa avere un ostacolo sul cammino, che messaggio mi voglia comunicare e come possa renderlo risorsa tenendo alta la guardia sui pericoli”. Occorre quindi lavorare sull’idea interiore che nutriamo di noi, degli altri, delle cose. Il fariseo, spesso giudicato, in fondo ci lancia un grande messaggio. La paura ci abita, la paura di non essere nessuno, di essere invisibili, la paura che ci porta in carcere, dietro sbarre che annientano. Il fariseo cede alle lusinghe di un “diavolo” che minimizza, svalorizza, altera, spinge a costruirsi un falso sé per uscire dall’anonimato. Il falso sé di una fede fatta di regole da seguire senza metterci il cuore, di preghiere che assicurino una vita futura senza cambiare quella attuale, di un sentirsi a posto perché non delinquenti quando invece le cadute sono all’ordine del giorno. E la paura si trasforma in invidia. In fondo quel pubblicano che si sente l’ultimo ma per primo viene intercettato dallo sguardo del Signore, che si batte il petto riconoscendo quanta strada ha ancora da fare, dà fastidio al fariseo che si vede scavalcato nonostante abbia consacrato la sua vita a preghiere, digiuni, decime corrisposte. Quel fariseismo in fondo appartiene a ognuno di noi quando non riusciamo a scorgere la nostra parte migliore e a cambiare l’immagine che ci siamo costruiti per apparire. Per non essere schiacciati a danno della bellezza interiore che attende di essere liberata dalle tante sovrastrutture che ci portiamo addosso. Occorre scartavetrare. Fino a far riemergere quella coscienza in cui Dio continuamente parla, dice altro di noi, benedice nel senso di “dire bene” della nostra vita e pronunciare parole che ci riconoscono un valore molto spesso non ricevuto fin dalla più tenera età. In quel primato della coscienza Gesù si rivela, rivela il piano di salvezza per ognuno di noi, costantemente ci richiama ad abbandonare maschere e finzioni per far emergere il bello. Finalmente liberi dalla tentazione del fariseo di dominare, mettersi in mostra, esercitare potere. R.: “Perché sono ancora in carcere, a che cosa serve questa lunga detenzione?”. La risposta la trova da solo e quella lo condurrà in fondo alla strada in attesa della liberazione: “Sono qui perché evidentemente c’è ancora qualcosa che devo capire, qualcosa che mi sfugge e che devo approfondire. Perché questa prova, questa povertà diventi occasione di riscatto”. Ecco le profonde catechesi di Rebibbia: ogni errore come opportunità di revisione, ogni pietra d’inciampo come mattone per costruire. “La pietra scartata è diventata testata d’angolo” recita la Scrittura: siamo pietre vive, non rifiuti o scarti. Abbiamo tutti bisogno, come farisei, di sederci sulle panche delle tante chiese che frequentiamo piuttosto che stare in piedi come giudici di noi stessi e degli altri. Abbiamo bisogno di chiese “circolari” dove non ci siano primi posti o ultimi posti ma tutti insieme intorno alla stessa tavola, allo stesso altare, al cospetto dell’unico Dio che dà a tutti una possibilità. La stessa possibilità di essere incontrati, fasciati, guariti.
Ci salutiamo con un Padre Nostro diverso dal solito: ognuno nella propria lingua. E le provenienze sono le più disparate, ricche nella loro unicità. S.:“Ma così torniamo alla torre di Babele!”. Don Antonello ha la risposta: “No, S. Siamo nel paradiso”. La convivialità delle differenze.
Ciao ragazzi, amici, detenuti che ci avete insegnato tanto e ci avete trasformato dentro. Carcerati che ci hanno reso più liberi, anche se sembra un paradosso. Il seme è gettato. Dissodiamo il terreno.
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.