Le Lettere di Alessandra Bialetti – Tiro incrociato
Es 17,8-13; 2Tim 3,14-4,2; Lc 18,1-8
Dentro e fuori dalle sbarre: da Rebibbia a Padre Alberto Maggi, frate e sacerdote dell’Ordine dei Servi di Maria nel suo incontro romano. Il Vangelo è il medesimo: ponte tra due mondi, i reclusi e i liberi.
Il tema è la preghiera. Necessaria, incessante, insistente. Togliamo gli attributi e lasciamo la preghiera come campo comune su cui confrontarsi. Da Rebibbia ci arriva l’invito a un’orazione che, nelle parole di R. “fa sentire più vicino a Dio e rilassa”, fa sentire a casa, distende anche tra le quattro mura di una cella che di confortevole non ha nulla. Che potere! Risponde Maggi: “Stop alle preghiere ansiogene, quelle in cui dobbiamo fornire tutti gli elementi per invocare l’intervento divino (dovesse sbagliare indirizzo!), quelle piene di specifiche per orientare l’aiuto. No alla preghiera di supplica perché c’è un Dio che precede, previene, sa già tutto di noi e dei nostri bisogni”. Occorre uscire dalla logica delle tante parole per imparare a stare a braccia aperte: accogliere una presenza che già è sulle nostre tracce e che non ha bisogno di segnali stradali per raggiungerci. Una presenza che già si prende cura perché legge nel cuore.
Ecco il ponte tra dentro e fuori: una preghiera che fa sentire vicino a Dio e che rilassa è abbandono, è lasciar fare, è mettere da parte parole “inutili” per farsi spazio di accoglienza di Chi, avendoci creati, sa profondamente ciò di cui abbiamo bisogno. S. “la preghiera mi rende libero e aperto”. Eh sì, S., come libri aperti le cui parole spesso non sono scritte da noi in modo corretto ma raddrizzate da un Altro (il Dio che scrive dritto sulle righe storte). Ma veramente ci piace pregare quando vuol dire rinunciare a esercitare ogni controllo e permettere che Qualcuno ci guardi dentro? Questa la domanda di Don Antonello e la risposta dei detenuti diventa più vera dopo quella canonica e da “bravi bambini”. No, non ci piace una preghiera che ci scava dentro, che ci spinge ad abbassare le difese, che vuole scavalcare le barriere del nostro io. La vicinanza significa rendersi più vulnerabili, lasciar intravedere le debolezze, mettere a nudo le fragilità. Ecco che la preghiera, improvvisamente, diventa scomoda, chiama ad avere fiducia come la donna del Vangelo, a farsi insistente nella ricerca di quel Dio che sta già sul nostro cammino. Pregare diventa toccare la paura, quella interna, quella di qualcuno che si fa troppo prossimo e scruta il nostro cuore.
Rimbalziamo fuori. Maggi parla di una preghiera che è fiducia dove aver fede non è credere in un Dio che dispensa il dono a qualcuno e ad altri no. Sarebbe un Dio ingiusto. Fede è risposta a un amore che è per tutti, senza distinzioni, senza categorie. A noi sta solo la replica, decidere se accettare o meno questa sfida e rilanciare laddove gli altri forse ci hanno sempre deluso o, come ricordano i detenuti, contro un mondo che vede solo il marchio afuoco dell’ex detenuto, del rifiuto, dell’invisibile.
Torniamo dentro. Don Antonello incalza. Il chiudersi in se stessi è segno di un intervento diabolico, è pensarci come dei condannati a morte e viverci come tali. Il pericolo più grande è la sfiducia interiore, quella che ci fa barricare quando gli altri invece si mostrano disponibili nei nostri confronti e pronti a giocare la loro vita per noi. Niente, giocoliere, oggi ti diverti proprio tra dentro e fuori. Voci che rimbalzano e diventano una: un unico richiamo a lasciarci andare, ad abbandonare la paura e farci sconvolgere dal tuo passaggio.
Grandioso il passaggio di Alberto Maggi quasi fosse in collegamento diretto con Rebibbia (ma forse è così, altrimenti che giocoliere saresti?). Gesù spinge sempre i suoi discepoli fuori dal tempio, li invia per le strade per incontrare l’uomo che non varca la soglia dei luoghi di culto per tante motivazioni ma soprattutto per la sua “irregolarità”. Maggi mette in guardia dall’attrazione di un sacro che rischia di diventare solo facciata, immagine, gestione di potere ma in realtà povero di vera attenzione per l’altro. La chiesa di Papa Francesco, quella da campo, quella “in uscita”. Ecco che risponde Rebibbia: in carcere si scopre un Dio che lascia il tempio e oltrepassa le sbarre, che si fa compagno di cammino, samaritano che fascia le ferite di chi, malato e impuro, non può prendere parte ai riti. Un Dio che abita anche la nostra vita di liberi quando gli sbagli, le cadute, gli errori ma soprattutto la sfiducia, ci rendono sordi e ciechi davanti al passaggio del Cristo che esce dal seminato del “sacro” e rende sacra la vita fragile di ognuno di noi.
Allora, cari amici di Rebibbia, che spesso vi chiedete se mai vi toglierete il marchio di dosso, oggi il messaggio che viene da “fuori” ci invita a essere pane di condivisione con scelte diverse, con una vita da giocarsi ancora. Perché, come ricorda Maggi, quando si deve dire che una cosa è buona si dice che lo è come il pane. Allora per tutti c’è la strada della fecondità, della fertilità, della piccola manciata di lievito che fermenta tutta la pasta. Anche dentro il carcere, anche nelle nostre prigioni.
Preghiera incessante è rendersi pane “incessante”. Senza tante parole, non servono. Silenzio, parla il giocoliere!