Le Lettere di Alessandra Bialetti – Potere? No grazie. Deponiamo le vesti
Non poteva mancare l’appuntamento con i “piedi da non lavare”. Ma questa volta non faccio a tempo nemmeno ad arrivare in chiesa, oggi la chiesa grande per ospitare più detenuti in un momento così importante come il giovedì santo.
Tutto inizia nell’area verde. Arriviamo per varcare la soglia che ci porta alla chiesa del Padre Nostro, così si chiama, ma le porte sono chiuse, le inferriate ancora proteggono e rendono inaccessibile quello spazio. Nel giardino un brulicare di persone. Come mai noi dentro e loro fuori? E’ il momento delle famiglie. I detenuti, senza protezioni particolari, possono incontrare, in quello spazio attrezzato, i familiari. Mi si stringe il cuore. Mamme anziane, mamme giovani, mamme giovanissime che tengono per mano o in braccio i loro piccoli, bambini più grandicelli che, come niente fosse, improvvisano i loro giochi tra le transenne e le strisce rosse che in genere delimitano aree non accessibili. Mi ricordano le stazioni ferroviarie di quando ero più giovane prima che il terrore degli attentati togliesse l’emozione dell’ultimo abbraccio a chi partiva e del primo bacio a chi arrivava. Erano momenti speciali cancellati dall’odio che ci domina. Detenuti e familiari, più volte sollecitati a salutarsi, non riescono a staccarsi. Mani che si intrecciano ancora di più, mani portate al cuore per non dimenticarle dietro il portone che si chiuderà alle loro spalle, bambini che continuano a creare i loro giochi gironzolando tra le gambe dei genitori. Noi possiamo aspettare per la messa, la messa della vita si sta svolgendo lì. Donategli un attimo in più, per noi non è niente, per loro tutto. E’ il solo momento di festa che questa Pasqua gli porterà. E la prossima volta i bimbi saranno già un po’ più cresciuti senza l’abbraccio dei papà. Ma il tempo scorre inesorabile, le regole sono strette. Le famiglie escono. Colgo una piccola conversazione tra una mamma e suo figlio. Una bugia per evitare il dolore, per custodire quel piccolo cuore. Al bimbo era stato detto che andavano a trovare il papà al lavoro. I genitori a volte non sanno cosa dire per non lacerare, per non ferire. Comprensibile. Ma il bimbo, già cresciuto senza che forse nessuno se ne accorgesse, replica: “Ma nell’altro lavoro papà la sera tornava a casa…”. Non ho bisogno di commentare, è tutto in questa frase.
La chiesa si anima, arrivano tanti detenuti, molti con il vestito buono. Quello della festa. Sentono che è un’occasione particolare, che verrà messa in onda una scena inusitata. Don Antonello, presiede la celebrazione. Lo conosco da tanti anni, ma oggi è visibilmente commosso, a tratti molto serio, composto nel suo ruolo, compreso nel suo compito di altro Cristo. Questo commento oggi nasce dalle sue parole ma soprattutto dal suo volto. “Il peccato è il non servire, è vestire abiti di potere” così esordisce. Ma non sono tanto le parole che mi interrogano, il messaggio è più che chiaro. Mi colpisce quasi una sorta di disagio per l’abito che porta. Non gli sembra consono al servire. Un paramento che, se da una parte è giusto perché segno di rispetto, dall’altra sembra quasi tradire il Cristo evangelico povero nel suo grembiule. Conoscendolo so che vorrebbe smettere quei paramenti pesanti, segno di un potere che spesso è diventato simbolo di dominio. Non gli si addicono. Anche il “don” davanti al nome, quasi a ricordare un ruolo, per me non è un abito adatto a lui. In fondo siamo tutti un nome senza titoli. Almeno dovremmo. Siamo persone. Lo vedo più disteso quando si cinge il grembiule forse anche stropicciato ma più suo. La chiesa che non ama il potere, ma ama servire, essere ultima tra gli ultimi. Piegarsi a lavare i “piedi da non lavare” che diventano altare. Tra i dodici apostoli, dieci detenuti, una guardia carceraria e Don Roberto da 26 anni sacerdote in carcere. Seduti accanto. Dalla posizione del servizio tutti i piedi sono uguali anche se parlano di storie diverse. Uno di loro piange. Chissà come gli sarà scorsa la sua vita davanti agli occhi.
“Servire è essere utile all’altro”. Non è grandi cose, non è partire tutti in missione ma trovare quella terra nella vita di ognuno. E’ una chiesa per tutti: nessuno è così povero da non aver nulla da dare. Questa sì che è una buona notizia. La piccola e povera vita di ognuno ha qualcosa da dare, anche dietro le sbarre. Forse è fuori il problema. Lo sa bene I., uscito da non molto dal carcere, con tanta voglia di recupero, di integrarsi, di trovare un lavoro onesto e di costruirsi una vita. Vorrebbe dare anche lui qualcosa, qualcosa di diverso da prima. Ma all’ufficio per regolarizzare la sua posizione, un impiegato gli straccia davanti agli occhi il documento e lo liquida con la frase “Che campi a fare, con tutti i reati che hai commesso dove vuoi andare?”. I. ritenterà, ripeterà la trafila per essere un regolare. Non si arrende. Anche la sua vita può essere utile, non è così povero da non aver nulla da dare.
“Vi darò un pastore secondo il vostro cuore”. Di che pastore abbiamo bisogno? Di chi ci guarda dall’alto in basso? Di sicuro no. Di qualcuno che si china, ci guarda, ci fissa, forse ci vede per la prima volta come qualcosa di prezioso e non un rifiuto. Cosa vede il pastore Gesù? Stranamente, ma non per lui, vede sempre il buono, la parte migliore anche se stratificata sotto sbagli continui, la possibilità di resurrezione, il potenziale. E su quello scommette. Altra lezione. Don Antonello ricorda l’invito di Giovanni Paolo II: ripresentare al mondo il sogno di Gesù. Non rappresentare come una recita sul palcoscenico, ma rendere attuale, rendere presente ogni giorno, in ogni gesto la misura incolmabile del Cristo evangelico. Bel compito giocoliere!
E si ritorna al tema del peccato. E’ pensare che l’amore non sia per me, che a me i piedi non possano essere lavati perché troppo sporchi, è allontanare la mano di chi si china per servire, è la difficoltà a lasciarsi avvicinare, a lasciarsi amare. Non è tanto credere di non poter servire quanto di poter essere servito. Il peccato di sentirsi indegni di quel grembiule che si contamina della mia sporcizia e di quel catino che, insieme all’acqua, raccoglie la polvere di una vita forse sbagliata.
Termino con una frase tratta da “Novecento” di Alessandro Baricco: “Mai nessuno prima di lui aveva fatto niente di simile”. Sì, gran giocoliere, nessuno prima di te aveva stravolto la legge fino al punto da scegliere un grembiule piuttosto che i paramenti del tempio. I piedi sporchi piuttosto che le scarpe comode e di lusso. E mi ricordo papa Francesco quando ha rinunciato alle scarpe rosse papali per continuare a indossare le sue scarpe nere, anche un po’ logore.
Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.