Se “mi” racconto mi conosci – La casa del Papa, per ragazzi africani

Continua la rubrica di Alessandra Bialetti «Se “mi” racconto mi conosci». Chiunque desidera può contribuire inviando la propria testimonianza a [email protected]


Dal cuore dell’Africa a un piccolo eremo che guarda Bologna dai vigneti della collina. Nel gennaio scorso è partita dentro le mura dello storico eremo di Ronzano, da sempre centro di spiritualità e meta di pellegrinaggi, custodito dai frati Servi di Maria, l’esperienza di Casa Abba, un progetto di accoglienza di minori non accompagnati gestito dalla cooperativa DoMani in collaborazione con i frati e con la Curia bolognese.

Fortemente voluta dall’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, Casa Abba – la parola abba, ci spiegano, in molte lingue significa “padre” – è un progetto che viene dall’Africa non solo perché la maggioranza dei ragazzi accolti, attualmente venti, ha affrontato il viaggio della speranza dal continente africano. Provengono infatti da un’esperienza di missione al di là del Mediterraneo anche i diretti promotori di questa realtà, a partire da Giacomo Rondelli, coordinatore della cooperativa, che ha vissuto in Etiopia per ben otto anni insieme alla moglie Alessandra.

«Siamo partiti molto giovani», spiega Giacomo, «io allora avevo ventotto anni, mia moglie tre di meno. Ci eravamo appena sposati e avevamo un lavoro sicuro. Io, che sono avvocato, lavoravo in un’azienda pubblicitaria, Alessandra faceva l’educatrice in un nido. Ci siamo licenziati e abbiamo lasciato tutto, compreso il mutuo della casa: sentivamo pressante  l’esigenza di restituire un po’ di quel tanto che avevamo ricevuto».In Etiopia sono nati anche i loro due figli. Giacomo si è occupato di progetti riguardanti ragazzi e ragazze di strada, la moglie si è impegnata in progetti scolastici. Poi, due anni fa, hanno deciso di tornare a Bologna, «con l’Africa nel cuore, ma pensando al futuro dei nostri bambini, soprattutto del più grande, che doveva cominciare la scuola elementare».

L’idea di restituire qualcosa però non è venuta meno. Così, dopo un periodo di esperienza presso un’associazione che si occupa di migranti, insieme ad altri amici Giacomo ha fondato la cooperativa sociale DoMani, trovando l’appoggio della Curia bolognese. E proprio sulla collina di Bologna è partito il progetto di Casa Abba.

«È un progetto che è cresciuto giorno dopo giorno», racconta. «L’ospitalità calorosa dei frati, che ci hanno ceduto una parte del convento in comodato gratuito, è stata essenziale, perché a Ronzano questi ragazzi si sono ritrovati in un luogo bellissimo e nello stesso tempo in un ambiente familiare. Sono adolescenti, dai 15 ai 17 anni, che hanno alle spalle storie terribili, molti di loro sono orfani. Tutti hanno bisogno di supporto psicologico, abbiamo anche avviato un laboratorio di arte terapia, in collaborazione con le suore francescane, che si è rivelato davvero molto proficuo».

I ragazzi – tre albanesi, uno proveniente dal Bangladesh, gli altri tutti africani – trascorrono le giornate all’interno degli spazi dell’eremo, sempre seguiti dagli educatori della cooperativa. Frequentano corsi di lingua italiana e laboratori, in più fanno attività sportive. Sono quasi tutti musulmani, ogni venerdì vengono accompagnati in moschea.

«L’obiettivo è quello del loro inserimento professionale finalizzato all’autonomia», continua Giacomo, «anche perché, una volta maggiorenni, questi ragazzi non potranno rimanere qui». Per alcuni di loro fin da gennaio è stato possibile l’inserimento nelle scuole professionali dei Salesiani. Per quelli che non potevano iscriversi, per problemi di età, sono stati organizzati corsi ad hoc in collaborazione con alcune aziende locali. Falegnameria, meccanica, saldatura, nella speranza che alcune di queste esperienze possano poi trasformarsi in assunzioni. «Ci contiamo, anche perché quattro di questi giovani stanno diventando maggiorenni e presto dovranno lasciare l’eremo, anche se naturalmente continueremo a seguirli e a supportarli».

Da cosa nasce cosa. Oggi l’eremo di Ronzano sta diventando un laboratorio di accoglienza che vede la collaborazione di diverse realtà ecclesiali. Sempre per volere dell’arcivescovo Zuppi, infatti, e grazie alla disponibilità dei frati, verso il convento si è aperto un corridoio umanitario che ha portato all’ospitalità di tre famiglie eritree con quattro bambini, dagli otto anni ai cinque mesi. Il tutto, in questo caso, integralmente a carico della Caritas diocesana. «Noi frati abbiamo creduto subito a entrambi i progetti e abbiamo messo a disposizione gratuitamente alcuni spazi all’interno della parte nuova del complesso», spiega padre Pietro Andriotto, priore dell’eremo.

Attualmente i religiosi che lo custodiscono sono sei e continuano ad abitare la parte duecentesca del convento, famoso per la chiesa, rimaneggiata dai domenicani a fine Quattrocento, e anche per la bellezza del chiostro, seppure in parte vandalizzato dalle soldatesche napoleoniche. Il luogo, votato all’accoglienza dei gruppi e dei pellegrini, si distingue per una vivace attività culturale grazie all’associazione Amici di Ronzano, che organizza incontri e momenti di riflessione. L’eremo produce anche un ottimo miele e, con i suoi due ettari di vigneto, un Pignoletto di pregio. «L’idea sarebbe quella di coinvolgere i ragazzi ospitati nelle attività dell’eremo», continua padre Pietro. «I progetti ci sono e stiamo pensando a come realizzarli. Ci piacerebbe anche formarli e assumerli come educatori». Per il momento i frati assicurano la loro vicinanza sia ai ragazzi che alle famiglie ospitate. «Con le famiglie è ancora più facile, si sta instaurando un clima di vera amicizia». Il bilancio dell’esperienza in ogni caso è più che positivo.

«Le difficoltà ci sono state e siamo ancora in un periodo di rodaggio», conclude padre Pietro, «ma sono molto contento di avere accettato la proposta di don Matteo (l’arcivescovo Zuppi, ndr), che ho conosciuto quando ero missionario in Mozambico. Il nostro è un ordine mendicante, non a caso i nostri conventi sono sempre stati collocati alle porte delle città. La nostra missione è quella di stare vicini ai più poveri, agli ultimi. In questo momento, nella tragedia umanitaria che si sta consumando, gli ultimi credo siano proprio i migranti e per questo, nel nostro piccolo, mi piace pensare che l’esperienza di Casa Abba rappresenti un segno profetico all’interno della Chiesa».

Tratto da Credere numero 38/2018