Visto/ Fede da marciapiede – Brindare alla vera ricchezza è peccato?
Essere ricchi non è un male: il punto è quale rapporto ho con i miei beni. Tale rapporto coinvolge tutti noi, non solo le persone che vengono abitualmente considerate “ricche”. Riguarda tutti, anche le persone qualsiasi che hanno meno, poco, o quasi nulla, perché è possibile anche essere un senzatetto che perde la serenità appresso all’unico cucchiaio di peltro che possiede e che lecca con cura dopo aver mangiato la zuppa.
Il possesso di beni di per sé è solo un’opportunità. Può essere una schiavitù o persino un atto di amore. Nella meravigliosa storia del Principe Felice di Oscar Wilde, la protagonista è la statua dorata di un principe che, animatasi come per miracolo, fa sì che una giovane rondine possa donare brandelli dell’oro di cui è ricoperta per regalare un po’ di ricchezza ai cittadini del paese: questo è vivere la ricchezza come dono, come amore. In genere, quando si pensa al possesso di beni in ottica cristiana si oscilla solo tra due nozioni: rivendicare di poter possedere tutto secondo il principio della proprietà privata, oppure il credere che sia meglio essere poveri, cioè non avere nulla. Si dimentica il punto di vista della “destinazione universale dei beni”: il principio cioè per cui Dio vuole che i beni creati arrivino a tutti passando però attraverso delle persone specifiche, degli uomini in particolare. Chi ha un bene non può tenerlo solo egoisticamente per sé ma deve investirlo, coinvolgerlo nella società, donarlo, insomma fare in modo che arrivi a tutti.
Non si tratta di “non avere” ma di essere. Essere liberi rispetto a ciò che si possiede, sapere che anche ciò che abbiamo deve, nei modi che preferiamo, essere offerto a tutti per il bene della società: lo dice anche la Costituzione che ci “ordina” di contribuire, ciascuno in proporzione alle proprie capacità, al benessere sociale, economico e culturale del Paese. Per questo, se si è diventati ricchi in maniera onesta, non è male possedere ma è male, per esempio, portare i soldi alle Isole Cayman, come racconta John Grisham nel suo romanzo “Il socio”.
In Siddharta, leggiamo di un principe che cresce nel lusso e lontano da ogni pericolo e sofferenza: eppure il ragazzo, ad un certo punto, si sente infelice perché quel benessere è diventato una prigione che lo chiude in una povertà non di cose ma di rapporti. Nel suo caso la ricchezza lo priva del contatto con l’umanità, ivi comprese le sofferenze della gente. Qui Hermann Hesse mostra come la ricchezza possa causare una prigionia terribile che crea solitudine, rassegnazione, noia, fino a condurre potenzialmente anche all’autodistruzione.
E così, quando ci si chiede se la ricchezza possa essere un peccato – sto parlando ovviamente della ricchezza onesta – bisogna sempre guardare non alla ricchezza, ma al rapporto con la ricchezza, cioè alla libertà. Se sono libero dai beni che posseggo, se non vivo nel desiderio compulsivo di comprare di continuo, di possedere sempre qualcosa di nuovo e diverso, se uso la mia ricchezza per arricchire gli altri, la ricchezza è buona e mi dona una libertà che mi farà stare meglio con me stesso e mi vaccinerà, oltretutto, dalla piaga della corruzione: lebbra terribile che costringe a vivere in una morsa sempre più stretta e mortale, di bugie e di compromessi.
C’è, infine, un corollario non da poco, ed è il problema dell’ostentazione. È giusto godere i frutti del proprio lavoro ma è sbagliato esibire le proprie possibilità senza tener conto che è possibile ferire le persone che faticano ad arrivare a fine mese. Esistono, nello star bene economicamente, una riservatezza e un pudore che, pur senza rinnegare la realtà delle cose, cura di non ferire gli altri e soprattutto di non proporsi come modello di successo da invidiare e da rincorrere a tutti i costi. Gesù ci dice che uno solo è buono, Dio; e uno solo è il maestro da guardare e da imitare, Lui stesso, cioè il Cristo.
Tratto da Visto numero 27 del 27 giugno 2018