Se “mi” racconto mi conosci – Anna e Roberto
Oggi la rubrica «Se “mi” racconto mi conosci» ospita la testimonianza di un utente del blog che preferisce rimanere anonimo. Chiunque desidera può contribuire inviando la propria testimonianza a [email protected]
Anna è una donna sola, che si cresce un figlio da sola, o meglio, con il sostegno di una rete di amici, di persone belle dentro e buone, che si è costruita con pazienza, dedizione e amore, imparando a lasciarsi amare, oltre che amando.
Anna, oltre alle sfide di una donna che si cresce da sola un figlio maschio, oltre a combattere per mettere insieme gli ingredienti che mettono loro sulla tavola il pane quotidiano, deve anche combattere con tanti fantasmi: l’ex marito, scoperto troppo tardi come soggetto psichiatrico pericoloso che – insieme alla sua famiglia, combatte una guerra senza fine, perché vede in lei il male, l’incarnazione del maligno e si sente investito dall’alto di salvare il figlio da lei; i tribunali e tutta la loro corte che, dopo aver pensato che potessero difendere lei e il piccolo, scopre che vivono solo per mantenere lo status quo, e certo non per risolvere e tanto meno per proteggere, se non se stessi da responsabilità gravose, e così facendo diventano anch’essi carnefici, parte del problema; poi “la gente”, questa creatura senza volto che è ovunque e che giudica.
La gente racchiude tutti coloro che pensano di avere le soluzioni per tutto, credono di possedere la verità e gliela sbattono sul muso con arroganza: la gente che vede nella sua separazione la fine della sua vita e che, al contrario, se lei la vita se la prende, se la stringe, se l’azzanna e la vive, a prescindere dagli schemi alla quale lei è appartenuta per anni e ai quali molta gente ancora appartiene, la giudica e la disapprova; la gente è anche quella che invece non appartiene a quegli schemi, che vive sull’onda della pancia, dell’emotività, del senso pratico e che la incita a godersela, la invita nel paese dei balocchi, dove tutto è possibile purchè tu non faccia male a nessuno, senza rendersi conto che così facendo si fa innanzitutto male a se stessi, ma loro non capiscono e la guardano stranìti; la gente è tutta quella che pensa di capire cosa significa vivere la vita di Anna e che invece il più delle volte, non solo non capiscono nulla di lei, ma sono così presi nel darle lezioni di vita, che non si rendono neanche conto che non sanno nulla neanche di se stessi, anzi! Occuparsi di lei, tentare di svenderle facili soluzioni da manuale con la presunzione di essere migliori di lei, semplicemente perché non sono separati o al contrario perché hanno avuto la furbizia di neanche provare a sposarsi, rappresenta l’alibi perfetto per non guardarsi dentro e continuare a drogarsi delle loro illusioni. Tutta questa gente oltre ad essere intorno a lei, è anche intorno a Roberto: Anna vuole proteggerlo, vuole anche educarlo, vuole tentare di raccontargli come stare al mondo, ma la realtà è che neanche lei sa come farlo, e vorrebbe che il mondo si spegnesse.
Anna sente tutto il mondo, tutta la gente, tutta l’esistenza, tutto come estraneo. Lei non sente di appartenere più al mondo in cui è cresciuta e rifiuta tutto ciò che viene da lì: i giudizi, le soluzioni da manuale, la compassione, la pietà. Qualcuno di quel mondo è capace di amarla? Sì, qualcuno sì, ma Anna si scontra con i limiti dell’amore umano. Qualcuno ci prova a non giudicare e tenta di tirar fuori qualche parola di conforto: Anna evita di reagire male solo perché sente che quei tentativi goffi e a volte pure controproducenti, sono comunque mossi dal sincero tentativo di essere d’aiuto. Spesso preferirebbe che quelle bocche restassero chiuse, o che si dedicassero a qualcosa di diverso dal tentativo di confortarla, a volte vorrebbe tirare un sasso su quelle bocche impacciate, quello stesso sasso che le parole sbagliate hanno tirato al suo cuore facendola stare ancora peggio: ma Anna non lo fa, perché sente che dietro c’è comunque il tentativo di voler bene e si commuove. Ma gli erronei tentativi di supporto non fanno altro che enfatizzare e macroscopizzare una solitudine che schiaccia e urla nel vuoto.
Anna vuole star bene, ma sa, capisce, intuisce che le sirene del paese dei balocchi sono ingannatrici e anche se un pochino si lascia tentare e trascinare, non ne viene mai realmente conquistata. Anna è estranea nel mondo al quale è appartenuta, ma non appartiene neanche al mondo nel quale cerca di entrare, dove non esistono regole e tutto è relativo. Anna è un’aliena nel mondo e non trova il suo posto.
Per qualche anno vaga come una mosca che sbatte contro il vetro: vede l’immagine di una vita nuova e diversa, ma non riesce ad agguantarla, continua a prendere musate sul vetro. E sbatte, sbatte, sbatte. E dietro di lei le minacce di chi – su quel vetro – la vuole schiacciare, la vuole morta.
Straniera ovunque. E Roberto? Povera creatura! Lui aveva le sue battaglie: figlio di separati e con due genitori che remavano in direzioni opposte con tutte le loro forze, e lui in mezzo. Una diceva bianco e l’altro diceva nero. Una riconosceva il bene in un posto, l’altro nel polo opposto. E tutto questo mentre anche lui doveva imparare a camminare, a stare con altri bambini, a stare al mondo. Anna voleva educare, ma non sapeva bene cosa insegnare, perché lei stessa non faceva altro che prendere musate e sentirsi estranea ovunque andasse: non esisteva un posto al mondo in cui si sentisse a casa. La sua famiglia c’era “come poteva”, ma Anna doveva fare i conti anche con i loro limiti, e anche in famiglia si sentiva estranea.
Come fare con Roberto? Si ritorna all’essenziale. Una cosa Anna la sapeva fare: amare!
Anna, ora si scontrava con i limiti della capacità di amare di suo padre, di sua madre, dei suoi fratelli, ma quando era piccola era stata amata, tantissimo. Tutto l’amore di cui loro erano stati capaci, tutto, gliel’avevano dato. Anna era ricchissima di questo amore e metaforicamente era come una bimba pasciuta che trasudava abbondanza di bene ricevuto, un bene che ora poteva a sua volta donare. Suo papà che tanto si era dedicato a lei, forse perché l’ultima nata dopo molti anni dai primi figli, in un momento in cui la sua carriera professionale era ormai all’apice e stabilizzata, poteva disporre di più tempo: suo papà l’amava, ma contemporaneamente la responsabilizzava. Non passava occasione in cui non le dicesse che “un giorno avrebbe dovuto restituire tutto questo amore e che non farlo, sarebbe stato un peccato grave”. L’ammonimento non voleva minacciare castighi eterni, ma solo responsabilizzare.
Anna si era affacciata alla vita adulta con una bisaccia sovrabbondante di questo amore: non era stata capace di scegliersi un buon marito, l’aspetto professionale l’aveva messo in secondo piano, in virtù di una famiglia che è quasi rimasta un’idea, tranne che in Roberto. Quindi Anna era confusa, stordita dalle musate, estranea ovunque, minacciata, ma aveva Roberto e in qualche modo doveva fare. Non si sentiva –lei stessa- capace di stare al mondo, come insegnarlo ad una creatura?
Si riparte dall’ABC: amare! Quello le veniva bene e con amore ha fatto ogni scelta e ha preso ogni decisione. Spesso ha sbagliato, molto ha dovuto imparare, ma l’amore è stato il denominatore di tutto.
Anna ha iniziato col costruire una rete di persone buone, salvando da ognuno il bene e l’amore che erano capaci di donare a lei e al suo bambino: non potendo ricevere l’Amore, quello assoluto, da nessuno in particolare, ha iniziato a fare un collage dei talenti di tutti coloro che le stavano vicino. Ognuno ha dei doni ricevuti da Dio e lei li ha colti tutti: l’amore di Dio si esprime nelle attitudini che distribuisce con sapienza. Anna si sentiva limitata, limitatissima, sia nei talenti che non aveva, sia in quelli che aveva ma che ancora non sapeva gestire o incastrare nelle sfide della vita. Anna si sentiva una schifezza, ma intorno aveva tante persone che erano forti in qualcosa e ha iniziato a valorizzarli tutti. Roberto chiedeva con insistenza e voracità, come ogni creatura che si affaccia alla vita: tutta la sua esistenza era una domanda di qualcosa e Anna non possedendo risposte, lo indirizzava verso chi era forte in quel particolare ambito. Anche se nessuno è perfetto, ognuno – se stimolato nel suo punto di forza – ha l’opportunità di dare il meglio di sé, e ognuno – quando può esprimere la propria natura e la propria identità – ne è talmente tanto felice e realizzato che tende a farlo – comunque – con amore, quasi fosse il risultato della gratitudine di poter essere ciò che è.
Così alla fine Anna, nella sua confusione interiore ed esistenziale, si è nutrita del bene che esiste comunque in ogni persona buona che la Provvidenza le metteva sul cammino: Anna si sentiva vuota, ma grazie al pezzettino di bene, tesoro di ogni persona incontrata, ha riempito di bene e di ricchezza la vita di Roberto e forse alla fine, Roberto si è ritrovato anche lui bello pasciuto come lo era Anna quando si è affacciata alla vita adulta. Nella confusione e nella solitudine quindi, solo l’amore ha fatto la differenza. Si dice che se un bambino si sente amato, allora il bambino sarà un uomo molto forte. Riuscire ad amare lui, mentre Anna faticava pure ad amare se stessa, sembrava impossibile e paradossale. Anna faticava ad esistere, faticava a vivere, sopravviveva alle minacce, non aveva niente da dare, certamente non lezioni e certamente non soluzioni, non aveva niente, se non se stessa e la bisaccia d’amore sovrabbondante ricevuta da piccola, e quindi è tornata ai fondamentali.
Un giorno, quando ancora navigava nel cuore della tempesta – durata molti anni – della sua vita era a tavola con un “amico”: Roberto aveva 8 anni circa. L'”amico” era tale in via ufficiale, ma ufficiosamente era una persona con cui Anna stava tentando di costruire una relazione. L’istinto di protezione era tale da vivere il rapporto solo quando Roberto era da suo padre, ciò non toglie che fosse una figura conosciuta e incontrata come “amico” di cui si frequentava abitualmente tutta la famiglia, madre, padre e fratelli. Un giorno però, mentre erano a cena tutti e tre, “Robertino” che stava ancora imparando a scrivere e far di conto, silura l’amico con un: “Guarda che tu non hai speranze con mia madre!”
L’affermazione tuona in modo deciso, fermo, duro e inaspettato, in contraddizione con l’esserino da cui esce. L’amico declina elegantemente e fermamente dicendo che la questione non era comunque in discussione. Per Anna evidente la dicotomia: l’amico porta avanti la linea decisa con lei di non parlare di relazione fino a che non vi fossero stati i presupposti di un progetto di vita e la creatura, fregandosene della realtà che gli si voleva vendere, aveva capito benissimo cosa bolliva in pentola e senza neanche chiedere, fissava i paletti: “La mamma è mia!”. Anna in tutto questo tace e assiste alla scena, liquidata in realtà molto velocemente. Anna però è incuriosita dalla fermezza del piccolo, che fa trasparire un “saper il fatto suo”, sorprendente per un bimbo di 8 anni, e soprattutto vis-à-vis di una questione molto più grande di lui; sorridente e divertita gli chiede da cosa deriva questa sua sicurezza, questo suo dire che l’amico non aveva speranze; in sostanza una tale risolutezza può derivare solo dal fatto di avere un’estrema chiarezza di idee rispetto ad una questione e, in quel caso, rispetto alle caratteristiche che un uomo doveva avere, per avere speranze con la sua mamma, e Anna era molto curiosa di conoscere il pensiero di suo figlio. Lui, con l’autorevolezza di chi sa esordisce: “Deve amare me, perché se un uomo non mi vuole bene, con te mamma non ha speranza!”.
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Il primo pensiero che sorge dinnanzi ad una tale affermazione spesso coincide con “Sfacciato: chi si crede di essere?”, ma per Anna è stato: “Ce l’ho fatta! Mio figlio è forte, perché nonostante tutti i miei limiti, i miei pasticci interiori, la mia confusione, il mio tentativo di costruirmi una relazione importante per me, pensare “anche” a me stessa oltre che a lui, sono riuscita a trasmettergli l’unica cosa che possiedo veramente: l’Amore! Lui non si crede e non ha bisogno di credersi nessuno, lui SA che è mio figlio e che nessuno potrà mai prendere il suo posto e questa era la cosa, forse l’unica, che dovevo realmente fare io come mamma: riempirgli di Amore la bisaccia con cui affacciarsi alla vita: il resto lo faranno gli altri”