Alessandra Bialetti / Blog | 20 Marzo 2018

Le Lettere di Alessandra Bialetti – Noi e nostro figlio

Ho letto più volte questo articolo che ha generato in me comprensione, empatia, vicinanza a quei genitori ma anche una riflessione che sento il desiderio di condividere. Il tono dello scritto riporta, in modo ricorrente, il tema del dolore, della sofferenza, dell’inadeguatezza, della pesantezza, del tormento. Poco spazio ad una visione di cammino condiviso in cui la parola da coniugare dovrebbe essere la gioia dell’accoglienza di un figlio che, magari dopo un esilio forzato da se stesso e dagli affetti familiari, fa ritorno a casa. Senza più timori di essere se stesso, senza paura di essere rifiutato. Per la mia piccola ed umile esperienza con i genitori di figli omosessuali, da cui ho solo più da imparare che da aiutare, posso senz’altro confermare che il momento del coming-out del figlio sia abitato da sofferenza, disorientamento, confusione, perdita dei punti di riferimento fino a quel momento creduti incrollabili. E’ naturale che davanti ad una situazione inattesa ed improvvisa, anche se col senno di poi certi segnali erano evidenti ma forse di difficile accettazione, si apra un momento di crisi. Ma crisi vuol dire anche opportunità: occasione per rivedere le proprie posizioni, rimettersi in discussione, scendere in se stessi per vivere ancora più profondamente quel legame con un figlio che inizialmente si fa fatica a riconoscere. Sicuramente alberga la paura di qualcosa che non si conosce, di lontano da sé, dalla propria esperienza, paura del giudizio degli altri sempre pronti a ravvisare in quella genitorialità qualcosa di sbagliato e colpevole, paura del destino che attende il figlio. Tutto naturale e comprensibile e soprattutto condivisibile da un qualsiasi genitore che si dovesse trovare davanti alla “diversità” di una vita nata e cresciuta da sé e accanto a sé e che non si riconosce. Purtroppo quando questa “diversità” tocca la sfera della sessualità aumentano le criticità e i giudizi. Ma posso dire con certezza che non tutto si esaurisce in quella paura e in quella confusione emotiva ed affettiva. Non tutto è solo sofferenza, angoscia, buio. Alla fine del tunnel, che può avere una durata di elaborazione diversa per ciascuno, c’è, nella maggioranza delle storie, una rinascita. C’è il ritrovarsi in un abbraccio stretto, forte, in una verità a lungo taciuta e che rischiava di generare una frattura spesso incolmabile, c’è la lotta fianco a fianco per generare una nuova sensibilità intorno a sé, la gioia della condivisione del pianto ma anche della commozione di essersi finalmente ritrovati. Dovremmo cercare di sottolineare questa dimensione quando scriviamo e parliamo del percorso genitoriale accanto al figlio omosessuale, dovremmo spendere queste parole di speranza per arrivare a chi ancora si trova in quel buio solitario in cui soffre ancor prima e a volte ancor più del figlio stesso, dovremmo spezzare questo pane di rinascita nel farci noi stessi pane a chi fa fatica ad accogliere. La mia tristezza nel leggere l’articolo è stata percepire solo la dimensione della fatica e della pesantezza, il ribadire più volte la parola problema, termine che dovremmo cercare di eliminare dal nostro vocabolario in quanto genera solo la paura di qualcosa di insormontabile e irrisolvibile. Si fa riferimento alla scelta di avvicinarsi ad ambienti particolari quando è spesso la solitudine nei rapporti significativi a spingere alla ricerca di un senso di appartenenza e vicinanza e non di ambiguità e promiscuità. E la parola “esistenze tormentate” quanto aiuta un genitore a guardare con fiducia alle proprie capacità di amare e al proprio compito di guida amorevole e presente piuttosto che generare abbattimento e frustrazione? Inutile negare che il percorso della persona omosessuale e per giunta credente sia molto delicato, ma focalizzarsi sulla “problematicità” aiuta a trovare la risorsa? E perché non incentrarsi, invece che sulla paura di un allontanamento dalla chiesa, sul creare ponti di confronto, dialogo e luoghi di accoglienza nelle nostre comunità in cui genitori e figli possano ritrovarsi in un abbraccio benedicente reciproco stretti alla chiesa da cui non vorrebbero allontanarsi? Il Gesù in cui crediamo, almeno quello in cui io credo, non è il Gesù del problema, dell’etichetta, del giudizio, del giogo che sulle spalle fa stramazzare a terra ma il Dio della gioia anche dopo un percorso di sofferenza e fragilità, dell’opportunità di una vita nuova sempre e comunque, di una chiamata ad amare ed essere amato che non si ferma al dolore.
Non entro nel merito delle domande formulate nella parte finale dell’articolo perché richiederebbero una sede e un approfondimento diverso ma voglio solo riportarvi la frase ricorrente che spesso raccolgo dai genitori che condividono questo tipo di esperienza: “il nostro “sbaglio”, quel dolore che ci pesa maggiormente sul cuore e che vorremmo non aver vissuto e generato è l’aver perso tempo, il non aver capito prima ciò che nostro figlio stava vivendo, il non potergli essere stati accanto mentre lui, in solitudine, cercava e giudicava se stesso”. Ma a tutto questo subito il riparo: un abbraccio forte e profondo in cui il dolore non ha l’ultima parola ma che unisce per sempre nella gioia di essersi ritrovati finalmente nella verità e di poter cominciare un nuovo cammino. E il figlio nasce una seconda volta e genera, lui stesso, i suoi genitori senza alcuna inversione di ruoli ma nella possibilità di potersi nuovamente e con gioia aprire insieme alla vita.

 

Vivo e lavoro a Roma dove sono nata nel 1963. Laureata in Pedagogia sociale e consulente familiare, mi dedico al sostegno e alla formazione alla relazione di aiuto di educatori, insegnanti, animatori. Svolgo attività di consulenza a singoli, coppie, famiglie e particolarmente a persone omosessuali e loro genitori e familiari offrendo il mio servizio presso diverse associazioni (Nuova Proposta, Rete Genitori Rainbow, Agedo). Credo fortemente nelle relazioni interpersonali, nell’ascolto attivo e profondo dell’essere umano animata dalla certezza che in ognuno vi siano tutte le risorse per arrivare alla propria realizzazione e che l’accoglienza della persona e del suo percorso di vita, sia la strada per costruire relazioni significative, inclusive e non giudicanti.