Le Lettere di Terry – Vocazione e Croce
Sono giorni che rifletto su questo binomio.
Faccio un lavoro che in parte amo e in parte odio.
Lo amo perché è ambientato nel sociale, è rivolto alle persone e ha lo scopo di migliorare la qualità della vita delle persone. Questo mi piace.
Lo odio perché, per una ragione o per un’altra, mi vede nel ruolo di imprenditrice che soffro in maniera inaudita e perché mi sembra di portare il peso del mondo.
Appartengo ad un franchising, il cui slogan è “To us, it’s personal” e ieri sera – sabato – alle 23.30 un mio operatore che iniziava le notti a casa di una persona anziana, e dopo che gli ho scritto per sapere se stava bene mi ha risposto: “Ma lei non riposa mai?”. Eh, appunto! Forse per me è anche fin troppo “personal”: mi preoccupo dei miei vecchietti, ma mi preoccupo anche dei miei operatori. Il tipo di servizio che offro è non-stop, per cui ieri – sabato mattina – mi sveglio con un messaggio di uno che per problemi famigliari doveva interrompere il servizio ed è qui che, come raccontavo nella scorsa lettera, mi sono ritrovata con una “soluzione” già costruita dalla Provvidenza a mia insaputa. Stamattina, domenica, 30 minuti di telefonata con un’altra operatrice in servizio, e poi ancora nel pomeriggio con quella che le dà il cambio e fra poco con il famigliare sprovveduto da istruire sul “da farsi”. Sono a Messa, mi vibra il cellulare e mi viene l’ansia. Per non parlare dell’essere totalmente immersa H24 nel dolore altrui: la malattia, la morte, la disperazione. Oé! Ma si può vivere così? A volte me lo chiedo. E poi uno dice: “Ah, diventerai come Paperon de’ Paperoni, con tutti i vecchietti che ci sono!”. Sì, forse un giorno! Ma a parte il fatto che son 4 anni che vivo come Paperoga, non è di certo per i soldi che mi son messa a fare questo lavoro, e visto che di soldi, per far partire la baracca, ho visto per ora solo quelli che sono usciti e quindi i miei risparmi “svampati”, non è di certo quello che mi fa alzare al mattino, anzi!!!
Il problema è che so di essere al posto giusto. So che è questo che devo fare. Ho la vocazione. Raccontare come è nata non è il topic. Prendetelo come assunto di base. Il mio entusiasmo nell’iniziare un’attività imprenditoriale è come quello di un gatto che deve fare il bagno: rizzo il pelo, soffio e tiro fuori le unghie! Dopo una brutta esperienza 15 anni fa, avevo giurato che non ci sarei più cascata, e invece eccomi qua. Sì, perché il Padreterno ha giocato sporco e ha trovato l’unico ambito nel quale le mie difese crollano: il sociale. Pur di evitarlo (ci ho messo 6 mesi per firmare), una settimana prima della data in cui avrei dovuto siglare l’accordo, sono andata a farmi un colloquio per un lavoro che sembrava fatto per me, che avevo già fatto e che sapevo di poter fare bene: ma il Padreterno mi voleva talmente tanto qui, che sono arrivata a farmi dire dall’AD di quella società che, secondo lui, dovevo mettermi in proprio, perché come impiegata ero sprecata. Il lacrimone mi è venuto. Il tipo era irlandese e io a dirgli che no, sarei stata felicissima di essere impiegata, perché io non volevo dirigere un bel tubo, non volevo i rischi e le responsabilità di un’attività imprenditoriale, volevo stare in pace, io! Ho tentato in tutti i modi di rassicurarlo del fatto che non avevo quel genere di ambizioni “di carriera” e che, una volta che avesse investito su di me sarei stata fedele come il migliore dei cagnolini. Ma niente! Mi ha chiesto se non ci avevo mai pensato e ho confessato: è stato felice di spintonarmi verso la mia futura agenzia. Il tutto mentre – per la fifa – pregavo come un’eremita di ricevere luci sul da farsi, perché volevo solo fare la Sua di volontà e non la mia!
Non pensate troppo bene: non è saggezza o devozione, ma senso pratico! Troppe le facciate prese per far di testa mia e non volevo prenderne altre. Questa e mille altre conferme. Devo stare qua: è il mio posto.
“Vocazione”: disposizione d’animo che induce l’uomo a determinate scelte nell’ambito dei possibili stati di vita. Ci sono dentro! Ma allora perché soffrire così tanto nello starci dentro? Non dovrebbe essere più piacevole? Non è vero che quando uno realizza la sua vocazione è felice?
Tante riflessioni.
Intanto sul termine “realizzare” che più che significare una singola presa di decisione (ad es. inizio l’attività, o per altri “mi sposo”, “divento religioso”), si materializza in tante decisioni, in tanti sì, in tante risposte positive alla stessa chiamata, giorno per giorno. E perché la Croce allora? Semplicemente perché c’è, qui o altrove, ma c’è sempre, e allora tanto vale portarla su un cammino in cui si possa almeno trovare qualcosa di buono, come quando i miei vecchietti dopo un ricovero in cui li davano spacciati invece si riprendono, oppure quando una famiglia col genitore che ha l’alzheimer mi telefonano il giorno di Natale per dirmi che tramite i miei operatori ho restituito loro un genitore ormai dato per perso! Ma quanto è difficile starci! Quanto è difficile portar la Croce! Quanto è difficile portarsi le croci degli altri. Il mio ufficio è un campo di croci. Tutta questa sofferenza a volte mi schiaccia, mi toglie il fiato e mi vien voglia di scappare, di chiudere tutto fuori dalla mia vita: è troppa sofferenza! Troppo dolore! Troppo strazio! Basta! Ma bisogna esser scemi per scegliere di fare sta vita! Perché lo faccio?
Francamente ciò che ogni giorno mi dà la forza di andare avanti è sapere che Dio mi vuole qui: solo per amor suo vado avanti, solo per il piacere di incontrarLo nel mio lavoro, nei miei vecchietti e nei miei operatori. Perchè Lui ha scelto nella mia vita di manifestarsi lì: e se vado altrove, rischio di finire come Don Camillo che sgrida Gesù di non parlarGli e ottiene come risposta che è lui che aveva perso la capacità di ascoltare. Mi fa tribolare sto Dio! Ma proprio così doveva manifestarsi? Non mollo perché avrei l’impressione di girarGli le spalle e queste cose non si fanno a chi si ama, sarebbe un tradimento! Ma quanto vorrei che mi portasse altrove.
Ho la vocazione a questo lavoro e so che mi riesce bene, mi piace, ma lo odio. Lo odio di nascosto, perché agli occhi di tutti appare solo il mio lato appassionato e realizzato, ma dentro di me piango, perché è una forza che si oppone con strenua resistenza alla mia pace interiore, e perché in qualsiasi può squillare il telefono e mettermi in scacco. Non ci si può proteggere dalla malattia e dalla morte. La tensione costante di garantire un servizio per cui sono pagata ed essere sempre pronta a parare il colpo è estenuante. Ieri la Provvidenza mi ha salvata, ma io non sono Dio, e l’insicurezza delle mie poche certezze, quelle offerte dall’esserci dei miei operatori, mi strazia. La tensione è talmente alta, che oggi quando sono entrata in Chiesa mi è venuto un tuffo al cuore, come se fossi in “tana” e lì non potesse succedermi nulla di male, come se “il lupo” non potesse prendermi: io lo so che Lui mi vuole qui, ma io vorrei tanto scappare. E oggi in Chiesa piangevo, perché il peso di tutta la sofferenza che accolgo continuamente e che tento di alleviare, mi sta togliendo il fiato.
E allora penso ai matrimoni: uno si sposa per amore, ma quando le idealizzazioni del fidanzamento si sgretolano, quanta voglia di scappare hanno tutti i coniugi? E allora no! Prendere una decisione in linea con la propria vocazione non coincide con la felicità: no! La felicità non è la decisione, lo è il “realizzare” la propria vocazione, giorno dopo giorno, fatica dopo fatica, nonostante la Croce, nonostante la voglia di scappare. Come quando due genitori sognano per 9 mesi un bebè tutto guance e occhioni teneri e poi se va bene fanno i conti con patelli puzzoni a nastro e notti in bianco, e se va male affrontano anche loro la malattia dei loro figli. Vocazione e Croce.
La vocazione forse è solo la stanza dell’esistenza in cui Dio decide di piazzarsi per farsi conoscere da noi, per rivelarsi a noi: Lui chiama e ti dice….con te parlo in ospedale, con te parlo nella cucina di un appartamento in cui prepari i pasti per marito e figli, con te parlo in un convento, con te parlo in montagna, con te parlo in giro per il mondo, con te parlo nella sala riunioni di un’azienda, con te parlo mentre dipingi, con te parlo in laboratorio, con te parlo in un asilo nido, con te parlo in gelateria…. Forse trovare la propria vocazione è trovare l’ambito nel quale Dio decide di manifestarsi a noi, e a noi rimane di discernerlo, sceglierLo e restarci!
La Croce è ovunque, ma se pesa sulle spalle di un ambito in cui Dio si fa presente, forse riusciamo a portarla meglio; spesso quando non so che fare Gli dico: “Ueh….guarda che se non mi aiuti a risolvere sto problema va a finir male, e il danno d’immagine che ne deriverebbe farebbe soccombere la TUA agenzia: io quel che posso lo sto facendo, i miracoli sono di tua competenza!”. Poterlo fare mi solleva. Poterlo fare mi evita di sbroccare! In queste ore ho la tentazione di voler avere tutto sotto controllo, di essere “nata-pronta”, e vorrei essere in grado di fare la qualunque, qualunque cosa accada….ma questo è impossibile! Questo è onnipotenza. Questo fa perdere il lume! Unica soluzione? Affidare e confidare che è sempre tutto per un bene. Io non so se quando dovesse andare male qualcosa avrò la forza di ricordarmelo, non so se il mio “Sasso della Fede” mi darà ristoro o vorrò buttarlo nel fiume, non lo so….prego per sapermi fidare.
Incontrare la Croce non è sintomo di aver sbagliato vocazione: la Croce è ovunque, comunque! Ma questa tentazione spesso s’insinua, e fa venir voglia di buttare tutto alle ortiche. Se non troviamo Dio, c’è da verificare se non si sta forse vivendo “la sindrome di Don Camillo”, che non sente ciò che non vuol sentire. Riuscire a trovare Dio in quel che facciamo, nonostante la Croce, è sintomo di averci preso. Non toglie la voglia di scappare, ma trasmette la forza di restare. In questo momento resto solo perché voglio bene a Lui e per Lui sono felice di restare, ma non chiedetemi se mi piace stare immersa nella malattia, nella morte e nello strazio. Non chiedetemelo. In questo momento vi chiedo solo preghiere per potercela fare.
Radicata a Milano, ma cittadina del mondo. Prima di tutto sono mamma, purtroppo single da quasi subito. Contrariamente al mio sogno di essere moglie e madre di una famiglia numerosa, la vita mi ha costretta a diventare capo-famiglia single, una professionista e ora pure imprenditrice. Da sempre svolgo lavori di “servizio alla persona” e, al di là dei più diversi ambiti professionali così attraversati, il comun denominatore è che mi appassiono al cuore delle persone che incontro, alla loro storia e al loro vissuto. Per me la scrittura è introspezione e il confronto è crescita. Amo definirmi devota miscredente perché il mio cammino è strano: a gambero, a zig-zag, non scontato, non sempre ligio, in ricerca, nel quale però cerco sempre di avere onestà intellettuale.