Le Lettere di Luciano Sesta – “Non giudicate nulla prima del tempo”. Ancora sul ritiro della discordia
Che il dibattito sul ritiro rivolto alle coppie omosessuali organizzato nella diocesi di Torino stia continuando, può significare due cose: o si sta approfondendo una questione teologica e pastorale, o ci si sta accanendo contro persone che, per motivi ideologici, sono state “prese di mira”. Nella misura in cui partecipa ancora a questa discussione, ciascuno di noi potrebbe domandarsi se non corra il rischio, proprio mentre è del tutto sicuro di appartenere al primo gruppo, di non essere mai uscito dal secondo. O, peggio, di averlo egli stesso inaugurato.
La questione, che sembrava essersi chiusa dopo il chiarimento del vescovo Nosiglia, sta in effetti assumendo, sempre di più, lo sgradevole aspetto di una caccia all’eresia nascosta nella pastorale altrui. È stato recentemente pubblicato anche un video di un giovane omosessuale, Giorgio Ponte, che cerca di dimostrare, commentandone un’intervista, che don Carrega, il responsabile diocesano della pastorale per gli omosessuali, è “volutamente ambiguo” e in grave contrasto con la dottrina morale della Chiesa. È la linea prevalente di molti altri cattolici, che insistono sul dovere, proprio di ogni battezzato, di testimoniare la retta dottrina contro tutti coloro che, con le loro iniziative pastorali, la deformano o addirittura la contraddicono apertamente. Salvo poi ritrovarsi di fronte altri cattolici, di idee diametralmente opposte, che li accusano di commettere il medesimo errore. Ciascuno di noi un piccolo “papa”, si sarebbe tentati ironicamente di commentare.
Le scomuniche vicendevoli a cui stiamo assistendo, a ben vedere, dipendono dalla dimenticanza del vecchio assioma, attribuito a sant’Agostino, in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas: nelle cose necessarie unità, in quelle dubbie libertà, in tutto la carità. La domanda è allora la seguente: stabilire se un ritiro finalizzato a promuovere fedeltà reciproca nelle coppie omosessuali contraddice o non contraddice l’insegnamento della Chiesa, oppure fa bene o non fa bene alle persone omosessuali, rientra fra le questioni necessarie su cui deve esserci unità o fra quelle dubbie su cui può esserci legittima libertà? Se rientra nel primo ambito, allora la distinzione che si crea fra coloro che ritengono l’iniziativa un’applicazione dell’insegnamento della Chiesa e coloro che, invece, la ritengono una sua aperta violazione, è una spaccatura dell’unità della Chiesa, ossia una contrapposizione fra cattolici fedeli al magistero, da un lato, ed eretici dall’altro lato. Se invece, come io credo, stabilire l’esatto grado di fedeltà dottrinale che avrebbe avuto un ritiro come quello di Torino è una questione oggettivamente dubbia, su cui sarebbe sterile, oltre che dannoso, insistere come se si trattasse di una verità di fede che richiede l’unità di tutti i cattolici, allora dobbiamo ammettere una legittima diversità di opinione e una doverosa libertà di azione. Chi, di fronte a questo fisiologico pluralismo, grida al relativismo o all’eresia, diventa, paradossalmente, causa di quella stessa divisione che il suo appello all’unità avrebbe invece voluto scongiurare. Confondendo le questioni necessarie con quelle dubbie, inoltre, si rischia di mandare alle ortiche anche il terzo importantissimo punto del consiglio di sant’Agostino, e cioè l’esigenza che “in tutto ci sia la carità”. In effetti, in mancanza di un’evidente, esplicita, diretta e grave smentita della dottrina, considerare “eretico” e fuori della Chiesa qualcuno che sta solo esercitando la propria legittima libertà di coscienza e di azione, è già una mancanza di carità nei suoi confronti.
A chi storcesse il naso di fronte a questo elogio del pluralismo, se ne potrebbe ricordare la radice teologica, su cui ha molto insistito Benedetto XVI. Il pluralismo cattolico, in effetti, non è relativismo. Dio stesso è pluralista. Egli, infatti, è non solo “uno”, ma anche “trino”. La buona novella non ha una sola versione, ma quattro: c’è quella “secondo” Matteo, quella “secondo” Marco, Luca e infine Giovanni. A Pentecoste, lo Spirito dice la stessa cosa nella pluralità di lingue apparentemente incomunicabili. Anche fra i discepoli c’erano i fondamentalisti, Giacomo e Giovanni, “i figli del tuono” (Mc 3, 17), i liberali, i moderati, persino i traditori (Giuda). Se possiamo affermare che tutti, nella loro (anche colorita) varietà umana e culturale, potevano dirsi discepoli di Cristo, è perché nessuno, “giudicando prima del tempo” (1 Cor 4, 5), osò mai considerare chi la pensava diversamente come un “non discepolo” di Gesù. Anche Giuda, come dicevo, era un discepolo di Gesù. Lo è stato fino a quando egli stesso non si è chiamato fuori, senza che, prima di ciò, nessuno degli altri discepoli, nemmeno Pietro, avesse l’autorità di giudicarlo. La precisazione dell’evangelista che egli “era ladro” (Gv 12, 6) è un giudizio postumo, dato dopo la vicenda del tradimento, non prima. Perché allora anticipare, nel nostro parziale giudizio, ciò che soltanto Dio, nella sovranità del suo sguardo, può vedere?
Come ci ricorda anche san Paolo, ci sono diversi stili, diverse sensibilità, un diverso modo di vivere la fede, sia a livello comunitario sia a livello personale, ma uno solo è lo Spirito del Signore (1 Cor 12, 4). Perché allora le divisioni? Ci sono tante possibili spiegazioni. Una, fra queste, è che spesso, purtroppo, l’aver incontrato Dio all’interno di un determinato contesto ecclesiale, che ha le sue specifiche priorità e i suoi particolari carismi, induce a identificare Dio stesso, e dunque la “vera” Chiesa, con l’ambiente e la sensibilità che ce lo hanno fatto incontrare e amare. Il provincialismo cattolico è un rischio tanto paradossale quanto comprensibile, che ciascuno di noi corre, e contro il quale non bisogna mai abbassare la guardia.
Se dunque, come si diceva, non c’è una palese violazione dell’unità o della carità, nessun cattolico è autorizzato a correggere o a denunciarne un altro. Quando lo fa, assume la propria personale visione della Chiesa come l’unica possibile, trattando ingiustamente altre visioni e altre sensibilità come “eresia”. Ed è proprio in circostanze simili che altri cattolici sono autorizzati, in nome dell’unità della Chiesa, a correggere coloro che scambiano impropriamente la loro particolare sensibilità ecclesiale con l’ortodossia dottrinale. Quest’ultima, in effetti, è affidata al Papa in comunione con i vescovi e al sensus fidelium di tutto il Popolo di Dio, non soltanto a una parte della Chiesa che, di quell’ortodossia, pretende indebitamente di essere rimasta unica e fedele interprete. Non si sta dicendo, si badi, che un cattolico non possa manifestare in piena libertà la sua opinione su cosa sia ortodosso e su cosa non lo sia. Ciò che non può fare, soprattutto quando si esprime su una questione particolare e oggettivamente aperta come la vicenda di Torino, è pretendere che la sua posizione goda della stessa autorevolezza che potrebbe avere solo quella di un vescovo o di un papa quando si esprime in materia di fede e di morale. Se lo fa, si aspetti che altri cattolici, formati e informati quanto lui, gli facciano notare che sta forse uscendo dai ranghi più di quanto non stiano facendo coloro che egli critica. La critica reciproca è ammessa, ma non dovrebbe mai colpire la fede dell’altro né produrre divisione nell’unico corpo che è la Chiesa.
Tornare a riflettere sul ritiro della discordia, da questo punto di vista, non significa accanirsi su un semplice fatto di cronaca, ma cercare di chiarire un’importante questione di principio. In quest’ottica, la domanda che pongo agli amici cattolici intervenuti nel dibattito è: parole e comportamenti di don Gianluca Carrega sono stati così chiaramente, direttamente e gravemente contrari alla dottrina e alla prassi della Chiesa? Lo sono stati a tal punto da giustificare le accuse, le insinuazioni in foro interno, le ipotesi complottistiche e le dure critiche a cui abbiamo tutti assistito in questi giorni? Si può essere stati responsabili di questa sacra gogna senza aver violato il principio in necessaris unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas?
Com’è inevitabile che accada in discussioni simili, si intrecciano diversi livelli di discorso, che sarebbe bene però distinguere e affrontare separatamente. C’è innanzitutto un livello “cronachistico”, in cui ci si è concentrati su come sarebbero “realmente” andate le cose, su quali siano state le “reali” intenzioni di Tizio o di Caio, sul “vero” significato della nota del vescovo, sulla coerenza di Sempronio o sulle contraddizioni in cui sarebbero caduti i successivi commentatori dell’accaduto ecc. Non lo ritengo un piano di discussione proficuo. E dico subito perché.
Anche qualora, com’è stato detto da più parti, il sacerdote che ha organizzato il ritiro fosse personalmente gay-friendly, ciò non toglierebbe nulla all’eventuale pertinenza di un ritiro per omosessuali che li aiuti a diventare, nei loro limiti, persone migliori. Non solo perché una simile iniziativa pastorale è in linea con un documento pontificio come Amoris Laetitia – che molti, in questo dibattito, si guardano bene dal citare – ma anche perché inserita in una diocesi che formalmente prevede una pastorale specifica per gli omosessuali. Il senso di un’iniziativa pastorale, dunque, non si riduce alle buone (o cattive) intenzioni di chi la promuove. Chi identifica le due questioni, sta solo confondendo un giudizio sulle reali intenzioni di una persona con il valore oggettivo di ciò che essa fa. Sarebbe come dire che un’elemosina fatta per attirare l’attenzione del prossimo non è un’azione buona, quando, in tal caso, è la persona che ha compiuto l’azione a non essere buona, non l’azione stessa. Ma qui entriamo nel terreno scivoloso, da cui è bene tenersi lontani, dei giudizi temerari sul prossimo.
Torniamo allora alla vicenda così come si è svolta. Dopo la decisione del vescovo di Torino, molti di coloro che avevano denunciato il ritiro come un’iniziativa contraria all’insegnamento della Chiesa hanno esultato, ravvisando nell’annullamento dell’evento una conferma di quanto essi avevano sospettato, se non, addirittura, il risultato della loro pressione affinché il vescovo, “aprendo gli occhi” su ciò che evidentemente gli sarebbe sfuggito, rettificasse le improprie iniziative di un sacerdote della propria diocesi. Questa ricostruzione della vicenda (presente per esempio qui http://www.lanuovabq.it/it/ritiro-per-gay-la-toppa-di-avvenire-peggio-del-buco) piace molto a tutti i cattolici diffidenti nei confronti delle audaci aperture pastorali che, soprattutto con Amoris Laetitia, papa Francesco avrebbe incautamente legittimato. Si tratta tuttavia di una ricostruzione tendenziosa, che non regge di fronte a una banale osservazione. Se davvero don Carrega avesse proposto un’iniziativa in aperto contrasto con il magistero della Chiesa, infatti, il vescovo avrebbe non solo annullato il ritiro, ma anche rimosso dal suo incarico il sacerdote. Che però rimane ancora oggi il responsabile diocesano della pastorale per gli omosessuali. Qualcuno, dunque, che i ritiri per omosessuali ha facoltà di organizzarli su esplicito incarico del vescovo stesso.
Alla luce dei fatti così come si sono svolti, dunque, è probabile che la “vera” ragione per cui il vescovo ha annullato il ritiro non sia stata, come si afferma, la sua oggettiva incompatibilità con il Magistero della Chiesa, ma, come si evince testualmente dallo stesso comunicato diocesano, la sua contingente inopportunità, dovuta al clamore mediatico nel frattempo suscitato dalla vicenda. Un tale clamore, a cui non è escluso che abbiano contribuito alcune audaci dichiarazioni di don Carrega, non avrebbe favorito il giusto clima e la discrezione richieste da un ritiro spirituale. La precisazione, nella nota del vescovo, che gli atti omosessuali sono moralmente inaccettabili non esclude, ma richiede, una cura pastorale delle persone omosessuali, compresa la valorizzazione di alcuni aspetti delle loro relazioni, come la fedeltà reciproca, che non si riducono alla sfera esclusivamente sessuale della loro vita.
Circa il presunto “incoraggiamento a peccare” rappresentato da un ritiro che invita alla fedeltà una coppia omosessuale, si può far notare che la fedeltà si rivolge alla persona del partner, non agli atti sessuali che si compiono con lei. La fedeltà è una virtù che può essere coltivata anche in perfetta continenza, dunque a prescindere dai rapporti sessuali. La fedeltà omosessuale, in tal senso, non è intrinsecamente peccaminosa, perché non è necessariamente vincolata a ciò che, per la Chiesa, costituisce peccato, ossia gli atti omosessuali. Dire, com’è stato fatto qui (), che promuovere la fedeltà nella coppia omosessuale significa promuovere una fedeltà al peccato, significa ridurre la ben più ampia relazione umana fra due persone omosessuali alla sodomia. Un po’ come se dicessimo che un marito fedele alla propria moglie non è fedele alla propria moglie, ma al coito che ha con lei. Certo, mi si potrebbe obiettare, adducendo altre argomentazioni, che non è così. Non importa. Qui non abbiamo alcun bisogno di stabilire chi ha ragione e chi ha torto. Ciò che conta, come dicevo prima, è che sulla questione ci sia quel tanto di ragionevole dubbio che mentre legittima la libertà di opinione e di azione in materia (in dubiis libertas), non autorizza alcuna reciproca accusa di eresia (in necessariis unitas).
Fino a quando dunque un pastore non insegna qualcosa di formalmente contrario alla dottrina della Chiesa e non induce a peccare chi, senza di lui, non lo farebbe, dobbiamo presumere che, decidendo di non rimuoverlo, il suo vescovo, in materia di discernimento pastorale, abbia una grazia di stato superiore a quella di qualunque altro cattolico, soprattutto se semplice fedele.
Quanto poi allo scandalo che ha suscitato in alcuni il progetto pastorale della diocesi di Torino circa la maggiore “visibilità” che, nella comunità cristiana, si richiede per gli omosessuali, non vedo il problema. Le reazioni scomposte che certe invettive stanno scatenando sui social, in effetti, dimostrano che, nella Chiesa, non siamo abituati a “vedere” gli omosessuali valorizzati come persone, ma solo condannati come sodomiti. Ben vengano, dunque, tutte le iniziative che sensibilizzino la comunità cristiana a “evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione verso le persone omosessuali” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2358).
Molti hanno affermato che il terreno su cui potrebbe cadere la semina di un ritiro per omosessuali non può mai essere “buono”, perché costituito dal peccato di sodomia. A chi si esprime in questi termini, andrebbe ricordato il seguente passaggio di Amoris Laetitia: «A causa dei condizionamenti o dei fattori attenuanti è possibile che, entro una situazione oggettiva di peccato – che non sia soggettivamente colpevole o che non lo sia in modo pieno – si possa vivere in grazia di Dio, si possa amare, e si possa anche crescere nella vita di grazia e di carità, ricevendo a tale scopo l’aiuto della Chiesa» (n. 305).
Non sappiamo, per esempio, quanti e quali sforzi una coppia che chiede di partecipare a un ritiro del genere può aver fatto per cambiare vita. Come suonerebbe a una simile coppia il nostro continuo insistere sull’immoralità intrinseca del loro ritiro spirituale? Chi siamo noi per dire quali situazioni possono aiutare le persone a incontrare il Dio vivo e vero e quali, invece, le indurranno a peccare? Perché lasciar prevalere la paura del peccato sulla fiducia nella grazia?
Nel video di Giorgio Ponte, citato all’inizio, è chiamata in causa anche una mia Lettera aperta a Costanza Miriano. Concludo con un’amichevole replica al suo autore, anche alla luce di quanto ho sostenuto finora sull’intera vicenda del ritiro.
Innanzitutto un’osservazione di metodo, che rivolgo non all’amico Ponte, ma a tutti coloro che, in questi giorni, si stanno appellando alla sua testimonianza come a un argomento risolutivo nel dibattito su Chiesa e omosessualità. Com’è noto, ci sono testimonianze di omosessuali cattolici diverse, se non opposte, a quella di Ponte. Secondo alcuni, per esempio, una certa visione dell’omosessualità come “inferno di infelicità” è dovuta più a esperienze omosessuali promiscue e compulsive, che alla relazione omosessuale in sé, che altri, invece, vivono in modo più sereno, stabile e duraturo. In un modo, dunque, meno platealmente incompatibile con eventuali proposte di valorizzazione, anche cristiana, degli aspetti positivi che tale relazione può esprimere. Nel rispetto di tutti e di tutte le esperienze personali, pertanto, bisognerebbe dire che “vivere l’omosessualità sulla propria pelle” non dà, alla testimonianza e alle parole di Tizio, un’autorevolezza superiore a quella che possono avere la testimonianza e le parole contrarie dell’omosessuale Caio. In entrambi i casi, infatti, l’elemento che dovrebbe dare maggiore credibilità al primo, e cioè aver “sperimentato sulla propria pelle” l’omosessualità, è presente anche nel secondo.
Fatta questa importate precisazione, passo, brevemente, a quelli che mi sembrano i tre punti discutibili di un video che, in ogni caso, si distingue per il tono tutto sommato equilibrato e rispettoso. Ritengo improprio il modo in cui Ponte interpreta le parole del sacerdote torinese sulla “fedeltà” oggetto del ritiro. Ponte afferma che l’aver definito la fedeltà fra partner omosessuali un “di più” nella loro relazione, ne implichi una svalutazione, dal momento che la fedeltà, dice Ponte, non è un semplice “di più”, ma un “valore assoluto”. Mi pare una forzatura, finalizzata a ritrovare, nelle parole di don Carrega, la posizione ambigua che si è ormai deciso di attribuirgli in ogni caso. A un’interpretazione più benevola, in effetti, un “di più” può ben significare non qualcosa di superfluo o accessorio, ma qualcosa che, aggiungendosi a una relazione fra due persone, ne migliora la qualità umana e cristiana. In caso contrario, che senso avrebbe avuto organizzare un ritiro per promuovere un “di più opzionale e superfluo”?
Ponte contesta a don Carrega anche l’uso dell’espressione “amore omosessuale”, precisando che per i cristiani l’amore è unico, ed è quello di “chi da la vita per i propri amici”. A ben vedere, l’unicità dell’amore cristiano non esclude, ma richiede, di essere aggettivato in base al contesto. Se così non fosse, non potremmo parlare nemmeno di “amore coniugale” o di “amore per i propri nemici”. Si dirà che l’amore omosessuale, a differenza di quello coniugale e di quello per i propri nemici, non può essere definito propriamente “amore”. Va bene, allora discutiamone. Ma è certo che, se proprio si vuole contestare, sul piano teologico, l’idea che esista un “amore omosessuale”, non lo si può fare dicendo che l’amore, essendo uno solo, non può essere né eterosessuale né omosessuale, altrimenti ci si troverà nell’impossibilità di giustificare le diverse forme di amore, come quello coniugale o per i nemici, a cui pure Ponte certamente non intende rinunciare. Anche qui, se ci lasciamo guidare dal beneficio del dubbio e assumiamo un atteggiamento più benevolo, l’espressione “amore omosessuale”, utilizzata da don Carrega, può ben avere un’accezione psicologica e sociologica, non necessariamente antropologica o teologica. Che Carrega possa essere vicino ad altre realtà che, invece, cercano una legittimazione biblica dell’amore omosessuale, è un altro discorso, che riguarda le amicizie, gli studi, le letture personali di don Carrega, non necessariamente la sua azione pastorale pubblica, che, come ha confermato anche il comunicato del vescovo Nosiglia, rimane apprezzata all’interno di una diocesi in piena linea con l’insegnamento della Chiesa in materia di omosessualità.
Infine, come ho ricordato in apertura, Ponte definisce il comportamento di don Carrega “volutamente ambiguo”. Ritengo anche questo un giudizio discutibile, perché trasforma quello che, oggettivamente, è un semplice dubbio sull’effettiva “ortodossia” dell’altro, in una certezza che egli stia assumendo un comportamento intenzionalmente ingannevole, contrario cioè alla dottrina della Chiesa pur lasciando intendere di non esserlo. Ciò che Tizio chiama l’ambiguità di Sempronio potrebbe essere, dal punto di vista di Sempronio, “flessibilità”, “apertura” ecc. Non basta che le parole e il comportamento dell’altro diano la “sensazione” di essere in contrasto con l’insegnamento della Chiesa. Finché tali parole e tale comportamento non sono un’aperta, intenzionale e diretta smentita di quell’insegnamento, ma anzi si presentano come una loro, per quanto discutibile, applicazione pastorale, ogni altro cattolico deve concedere il beneficio del dubbio. Un cattolico, infatti, crede sempre che a guidare la Chiesa, in ultima analisi, sia Dio stesso. La sua paura del peccato e dell’errore umani, dunque, non dovrebbe mai prevalere sulla superiore fiducia nella grazia di Dio.
Luciano Sesta, sposato e padre di quattro bambini, è docente di Storia e Filosofia nei Licei Statali Insegna Antropologia filosofica e bioetica all’Università di Palermo, ed è stato membro dell’Ufficio della Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo. Ha pubblicato numerosi saggi nell’ambito della teologia morale, della bioetica e dell’etica