Le Lettere di Maddalena – La Chiesa in uscita? Una sfida
Mi è venuto da ridere qualche giorno fa. Un amico mi diceva: “Piantala di scrivere che non sei teologa. Non gliene importa un accidente a nessuno”. Me lo ha detto con uno spiccato accento della sua città, e ho riso di gusto.
Beh, dicevo, quando mi muovo in bici, penso molto. Mi astraggo.
Ma a cosa, a chi penso? In effetti non alla “Summa” di San Tommaso.
Piuttosto alla mia famiglia. Ai miei ragazzi, ognuno con la sua personalità, il suo carattere. Ognuno con la sua sensibilità.
E’ bellissima questa diversità. Ho sempre pensato che davvero non possa esserci nessun discorso di omologazione. Ognuno va trattato in modo diverso. I principi educativi sono quelli, chiaro. Ma c’è chi davanti alla stessa frase ride, e chi si offende. C’è chi dimostra il suo affetto con il sarcasmo, chi con gli abbracci. C’è chi ti dice che non vuole parlare, ed è vero. C’è chi ti dice che non vuole parlare, e non è vero per niente. Pensavo che forse, aldilà di tutto il lavoro che i genitori sono chiamati a fare, la consapevolezza che non ci sia mai una causa-effetto così serrata sia un bene, in fondo. Non è schiacciando un tasto che si ottiene il risultato del figlio perfetto. C’è il discorso della libertà, in mezzo. In fin dei conti, quello che reputo sia veramente importante, è che si sentano capiti. In tutto. Che possano sentirsi liberi di venire a raccontare, a confidarsi. Che accettino il rischio di essere un po’ sgridati, quando sbagliano, ma anche perdonati. Sempre. Che non c’è nulla che mamma e papà non possano capire.
Sentirsi capiti.
Tutti vogliamo sentirci capiti. Il “tassello -base”, radicato nel cuore dell’uomo. Essere capiti e poi amati per quello che siamo. Ma va incarnata, questa cosa. Va vissuta. Me ne rendo conto di quanto sia vitale, come l’aria che respiro. Non può rimanere teorica.
Il cuore dell’uomo è il vero mistero, che urla al desiderio di felicità infinita. Non c’è cuore, non c’è uomo, che non abbia dentro di sé questo desiderio di infinito.
Tutto sembra dire il contrario, si sa.
A volte la vita è tragica, il dolore ha il sopravvento. A volte la sofferenza toglie il respiro. L’uomo si dispera, perché non gli basta vivere così, accontentandosi di guardare per terra, come fanno le galline nel pollaio, quando in cielo volano le aquile, come diceva Nembrini, e qualcuno prima di lui.
C’è tanto dolore, tanta sofferenza, tanta Croce, anche nelle famiglie più serene, “che non lo diresti mai”. C’è tanto dolore, si. Il dolore che spesso apre delle ferite talmente grandi che le cicatrici rimarrano sempre. A volte il dolore ce lo provochiamo noi. A volte no. A volte entrambe le cose.
Papa Francesco parla di Chiesa in uscita.
La Chiesa siamo noi, tutti. Non è solo una faccenda dei sacerdoti. Tutti noi, Battezzati. Tutti noi, che dobbiamo imparare a lasciarci condurre, a mostrare che si può avere una consapevolezza diversa, perché abbiamo incontrato Qualcuno che ci ha cambiato la vita. Che ci ha afferrato sotto le ascelle e ci ha estratto dalle sabbie mobili dello sconforto e della solitudine.
La Chiesa in uscita è una sfida.
Perché c’è un Amore grande che spinge oltre, sempre oltre. Che ti fa uscire, ti fa andare dove gli altri non vanno, che magari c’è un po’ di ” giusto sdegno”, per usare le parole del Papa.
“Saremo giudicati per il bene che abbiamo fatto, non per il giusto sdegno”. Mamma mia. Questa frase ha la potenza di una scure.
Mi sorprendo quando vedo alcuni che mollano tutti gli ormeggi dettati dalla ragionevolezza umana, per raggiungere con un gesto di amore e affetto la persona più complicata della terra, magari solo per fare una carezza. Questo può accadere ovunque. Non c’è bisogno di prendere nessun aereo, nessuna nave. Questo amore è più forte di qualunque ragionevole resistenza, non ha calcolo. Questo amore è di Cristo. Osteggiato, odiato, a sua volta non capito. Ma di una potenza irrefrenabile ed inarrestabile: una lacrima versata insieme vale più di mille parole. Il tuo dolore è anche il mio. Il tuo desiderio è anche il mio. Il tuo bisogno di affetto è anche il mio.
Che se siamo in due, è già diverso. Che se io sto male, sto piangendo perché ne ho fatte tante, e perché me ne hanno fatte altrettanto, quello che cerco non è un dito alzato, un perché e percome. E’ un Abbraccio. E se poi mi arriva da una persona che lo ha sperimentato prima di me, cambia la faccenda. Ricevo un Abbraccio che ha un sapore nuovo, una dolcezza nuova. Sento un calore sospeso tra terra e Cielo, che mi fa alzare lo sguardo, verso l’orizzonte. Sento salire le lacrime, perché questa cosa qui, non spiegabile a parole, a dottrina, a ragionamenti teorici, mi cambierà la vita.
Le lacrime sono un solvente potente: sciolgono anche l’acciaio più resistente. Forzano le serrature più blindate. Poi viene tutto il resto. Poi viene la spiegazione, l’inizio del cammino. Poi viene la Speranza, quella vera, che non molla.
Ma è necessario “mettersi nei panni”, entrare dentro la storia dell’altro. Sporcarsi le mani. Affondarle nella terra arida dello sconforto, senza paura. Per prima cosa per capire, per condividere. E poi consolare.
Che sfida.
Viene chiesto di sudare sangue per gli altri. Come Cristo. Accettando le persecuzioni, anche le più terribili. Perché la gratuità dell’amore fino a dare la vita sembra cosa da alieni. Perché sono più comodi i balletti del perfezionismo, in cui si sta attenti a dove appoggiare il piede, evitando le pozzanghere. E invece serve, a volte, sprofondare nel fango fino al polpaccio.
Il Papa vuole portare Cristo a tutti gli uomini della terra.
Anche a quelli “già condannati”. Quelli con i quali forse è meglio neanche parlare, perché se poi il linguaggio che usiamo si avvicina troppo al loro e si discosta dalle regole, ci dà fastidio. Turba. Quelli che se ci stai insieme rischi di non fare bella figura. Quelli che però… forse precederanno tutti, nel Regno dei Cieli, perché nessuno lo sa che cosa ci sia veramente nel cuore di ogni uomo, se non Dio.
Il Papa è attaccato su più versanti. E mi viene da dire che chi fa come lui, venga attaccato allo stesso modo. Forse anche peggio.
Il Papa scandalizza, perché non si scandalizza di niente. La sua preoccupazione è quella di cercare e dare speranza alle situazioni più dure, “senza speranza”.
E’ un atteggiamento diverso, quello che chiede.
Chiede di amare.
Fino allo spasimo.
Fino a sentire male.
Maddalena Fabbri è nata a Milano, il 5 settembre 1971. È sposata e ha tre figli. Laureata in giurisprudenza, ha svolto la pratica professionale per poco tempo. Ha preferito iscriversi all’albo ” delle mamme”. Vive a Milano.