Blog / Don Sergio Fumagalli | 21 Luglio 2017

Le Lettere di don Sergio – Charlie e l’accanimento terapeutico

Sul caso del piccolo Charlie si è discusso già tanto, talvolta mescolando piani distinti: il ruolo dei genitori, dei medici, dei giudici, della società civile, diritti e doveri dell’individuo, della famiglia, dei medici, ecc…

Senza voler essere particolarmente originale e senza voler dire che cosa si debba fare in concreto in questa situazione, vorrei solo richiamare e commentare brevemente i quattro punti del Catechismo (2276-9), che costituiscono un orientamento morale per un cattolico che si dovesse trovare in una situazione simile, e che però possono essere accolti anche da chiunque condivida il convincimento che la vita di ogni persona è il primo bene da difendere e da valorizzare:

Coloro la cui vita è minorata o indebolita richiedono un rispetto particolare. Le persone ammalate o handicappate devono essere sostenute perché possano condurre un’esistenza per quanto possibile normale.
Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l’eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte. Essa è moralmente inaccettabile. Così un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un’uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore. L’errore di giudizio, nel quale si può essere incorsi in buona fede, non muta la natura di quest’atto omicida, sempre da condannare e da escludere.
L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’«accanimento terapeutico». Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente.
Anche se la morte è considerata imminente, le cure che d’ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate.”

Dopo aver chiarito che non c’è motivo per discriminare una persona malata o handicappata da una più sana e robusta, ma che ogni persona è degna di rispetto, attenzione e cure adeguate ai suoi bisogni, si evidenzia che un’azione o un’omissione che causino direttamente la morte di una persona sono equivalenti all’omicidio, qualsiasi siano i motivi e i mezzi impiegati (togliere la vita evidentemente comporta anche togliere la malattia e le sofferenze, ma noi ben possiamo e dobbiamo adoperarci per togliere queste ultime, senza togliere la prima).

L’accanimento terapeutico è definito come cura onerosa, pericolosa, straordinaria o sproporzionata rispetto ai risultati attesi. In tali casi è lecito rifiutare queste cure, sia da parte del soggetto, sia da parte della famiglia e dei medici, nel caso che il soggetto non fosse in grado di decidere personalmente. Dire che per il soggetto è lecito rinunciare, non significa dire che “deve” rinunciare o che ci sia un obbligo morale a farlo. Di fronte ad una certa cura onerosa o pericolosa, ci possono essere persone che decidono di provarla ugualmente ed altre che decidono di rinunciare: quando il malato non è in grado di decidere autonomamente, di solito la scelta la devono compiere quei familiari che lo curano e che gli vogliono bene. Evidentemente nella scelta sarà logico tener conto dell’opinione dei medici, ma tale opinione penso che non possa essere imposta, a meno che non ci si renda conto di una mancanza grave di giustizia, sia nel caso di in una scelta positiva sia nel caso del suo rifiuto.

L’ultimo punto parla di cure ordinarie: in questo ambito rientra non solo ciò che favorisce l’alimentazione, l’idratazione e la respirazione, ma anche l’assistenza ordinaria igienica e palliativa, anche se queste richiedono mezzi artificiali. In tali ambiti non avrebbe senso, né da parte dei familiari, né da parte dei medici, decidere di sospendere queste “cure” verso il malato: non si tratta di terapie, ma di bisogni di tutti, necessari alla sopravvivenza. Contemporaneamente alla non sospensione delle cure ordinarie, viene sottolineato come sia importante adoperarsi per alleviare le sofferenze, con analgesici anche forti se lo si vede necessario. Tornando al primo punto, le persone che hanno notevoli sofferenze richiedono un’attenzione, una cura ed un rispetto particolari, con una vicinanza ed un accompagnamento che spesso non sono facili né per i familiari, né per il personale sanitario, e la “carità di voler metter fine alle sofferenze di un altro” può mascherare il desiderio di metter fine alle proprie.