Articoli / Blog | 27 Aprile 2017

Blog – Abuna Said Al-Hashem: gli arabi cristiani, i più poveri e dimenticati della Terra Santa

Nel suo discorso al TED Papa Francesco ha detto che “la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro.” Anche per me il viaggio in Terra Santa è stato tempo di incontri e per questo ho cercato di condividere qualcosa di ciò attraverso i video che ho pubblicato su Facebook e Youtube.
Oltre a quelli con i miei familiari, c’è stata l’assoluta sorpresa dell’incontro con la nostra guida, Said Al-Hashem.
Said è stato con noi dall’inizio alla fine ed è stato più di una guida: direi che è stato un amico e un fratello. Abbiamo scoperto poco per volta chi fosse, non perché lo volesse nascondere ma perché non voleva diventare il centro dei nostri discorsi: era infatti quello che accadeva regolarmente con gli altri pellegrinaggi allorché si veniva a sapere che Said, sacerdote, parroco di 350 persone di una località presso Nazareth è anche sposato e padre di tre figli, il più grande dei quali ha 16 anni.
Quindi, il nome completo di Said è “Abuna” Said Al-Hashem: “abuna” Said, cioè “padre” Said, come ci si rivolge ai sacerdoti in quei luoghi.
Said appartiene al novero delle persone più povere, umili e dimenticate della terra Santa: gli arabi cristiani. È così perché essi non hanno una casa: non sono ebrei, non sono musulmani e anche noi cristiani, come vi accorgerete, facciamo fatica a sentirli fratelli: perché per considerarli tali dobbiamo fare un sforzo di comprensione non piccolo ma che spesso preferiamo rimandare perché noi uomini istintivamente consideriamo estraneo e forestiero ciò che non conosciamo. Said è un israeliano di lingua nativa araba e di religione cristiana. Quando lo stato d’Israele venne fondato nel 1948, c’erano in quelle terre parecchie persone – ora minoranza – che parlavano l’arabo da sempre mentre l’ebraico che si parla attualmente in Israele è una lingua prodotta a tavolino dai linguisti che l’hanno creata a fine ottocento.
Said parla arabo ma non vuole essere chiamato “arabo”: perché Said è un israeliano. Non è un “israelita” e non è un ebreo: è israeliano come lo è ogni cittadino che abita in Israele. Said è cristiano, un cristiano cattolico, ma non un cattolico che appartiene alla chiesa di rito romano. Appartiene a una chiesa di rito orientale che è unita a Roma: per questo abbiamo potuto celebrare la Messa assieme al Dominus Flevit, la domenica della Misericordia.
Said parla perfettamente arabo e parla perfattemente ebraico: arabo ed ebraico sono le due lingue ufficiali dello stato d’Israele. Quando noi pensiamo a una persona la cui lingua nativa è l’arabo pensiamo che sia “un arabo” ma questo è sbagliato. Non è giusto legare la lingua araba alla nazione araba: ci sono tante nazioni diverse che hanno come lingua l’arabo. Per esempio si parla arabo in Arabia Saudita, in Giordania, in Siria, in Libano, in Egitto. La lingua araba esisteva prima dell’Islam: perché l’Islam fondato da Maometto nel VI secolo, è “una cosa recente”. I musulmani quando sono nati si sono appropriati dell’arabo e l’hanno fatto diventare la lingua sacra dell’Islam al servizio del loro progetto di riunire in un’unica nazione tutte quelle che parlavano arabo. Senza tener conto per esempio che nel secolo sesto in Arabia saudita c’erano già beduini arabi che erano cristiani: basti pensare ad Atti 2,9 dove nell’elenco delle persone che ascoltavano Pietro c’erano anche arabi: arabi, dunque, che diventavano cristiani. Ma Said, e molti come lui, vivono questo progetto di islamizzazione come una violenza perché loro hanno un’altra patria, Israele. Perciò Said non ha la dignità di vero cittadino in Israele – sulla carta sì ma nella realtà no e non racconterò particolari – perché non è ebreo; d’altra parte, non essendo né occidentale né cattolico romano, nella vita quotidiana non viene riconosciuto dai cristiani come cristiano perché quando noi pensiamo ai cristiani pensiamo agli italiani, agli spagnoli, oppure ai francescani o ai domenicani.
So di aver dato l’impressione di non essere stato molto chiaro ma proprio questa, vi assicuro, è la sensazione che spesso si sperimenta in Israele. Incontri persone, arrivi in certi luoghi, e ti accorgi di non capire, di dover cambiare categorie e allora cominci a chiedere e a ripensare a quanto ti hanno detto.
E alla fine capisci che per ritrovarti devi prima perderti.