Lettere – Le mie maestre del Feltre
Nella mia chiesa c’è un candeliere speciale, che credo nessuno altrove possa vantare così bello, ma è un peccato che sia così unico. Non è un vero e proprio candeliere è più che altro un antico portaceri in ferro battuto nero di quelli con le mollettine per reggere gli steli e la cassetta per le offerte dove entran solo le monetine.
In passato è stato molto pieno di candele che, in posizione eretta e senza sbrodolare, assolvevano al loro compito di rappresentare la luce e il calore della fede di chi le aveva accese.
Oggi sono rimasti solo pochi moccoletti, sparsi qua e là, che comunque imperterriti continuano a illuminare e a scaldare con la loro flebile fiammella. Vi ho detto che è speciale, infatti non è un candeliere che si possa vedere cogli occhi.
È l’immagine che mi coglie (quasi sempre alla sprovvista) quando vedo alla messa la mia maestra, le mie maestre delle scuole elementari, che consumano gli ultimi scampoli di vita che il buon Dio concede loro. Io ormai ho scavallato i cinquanta, vi lascio immaginare la loro, di età.
Erano giovani, ma non giovanissime, le mie maestre, quando arrivarono in gran copia al Feltre, in quella nuova scuola nata assieme al suo quartiere negli anni sessanta; quando accolsero anche fisicamente tra le loro braccia centinaia e centinaia di bimbi che nascevano dal boom economico e dalla serena fiducia che pervadeva il ceto medio di quegli anni non così lontani dalla guerra. Le chiamo “le mie” maestre, ma io ne avevo una sola, la Signora T.: in quei tempi le classi di trenta e più bimbi non facevano paura (anzi ricordo benissimo che a fine ciclo ci aveva tutti invitati con le famiglie a festeggiare a casa sua… oggi sarebbe fantascienza)
Però, per quello strano e fortuito caso di un quartiere sbocciato improvvisamente come un fungo nel primo autunno, ed improvvisamente popolato da centinaia di dipendenti statali e parastatali con le loro famiglie, divenuti subito comunità attorno alla loro piccola e scapestrata baracca di legno col tabernacolo, quelle maestre, che non venivano “da fuori” ma a loro volta avevano preso dimora nel quartiere, non passavano e non potevano passare inosservate. Così, senza farla lunga, io le conoscevo tutte, non dico come se fossero mie, ma quasi.
Non mi addentro nella giungla dei ricordi di quei tempi, che mi si affollano nella mente a dozzine adesso che ho deciso di scriver di loro: non ne uscirei più. Ma in queste tremolanti fiammelle che, chissà, sarà il fumo…, mi fanno luccicare gli occhi ogni volta che me le vedo passare vicine, c’è davvero la luce e il calore di una scuola e di una familiarità che han lasciato un segno profondo nel cuore di tanti scolari della mia generazione, ma che purtroppo non si trova più, se non residualmente e come se fosse un lusso che solo pochi possono permettersi.
Al recente funerale della maestra T. (mia moglie fu sua allieva), la chiesa straboccava di gente, e tutt’intorno alla cerchia dei parenti si riconosceva la schiera dei suoi alunni. Principalmente uomini in varie fogge vestiti, tutti a loro modo eleganti, che difficilmente si vedono in chiesa in una funzione feriale.
Uomini grandi e grossi che magari non piegano le ginocchia alla consacrazione, ma che dicono il Padre nostro ad alta voce, fieri e impettiti, come a voler sottolineare che se lo sanno lo devono a lei, per tutte le volte che, magari controvoglia, l’hanno recitato insieme.
Uomini che spaccherebbero una quercia a mani nude, ma che davanti a quella piccola bara leggera si sciolgono in singhiozzi che nessun pudore può fermare.
Uomini che magari domani, tra affari, birra e partite, se lo dimenticheranno, ma che oggi, davanti alla loro maestra delle elementari riscoprono che senza di lei non sarebbero quello che sono… Uomini che non pensano alle loro maestre come semplici lavoratrici della scuola: senza sapere cosa fosse un POF, senza computer, internet, senza obbiettivi psicopedagogicamente validati, ma coscienti e innamorate del loro compito educativo queste maestre sono state al tempo stesso donne, madri, educatrici, insegnanti, allenatrici, incentivatrici, aiutanti, confidenti, e, cristianamente, sorelle.
Quel che io sento ancor oggi quasi epidermicamente è che noi scolari, singolarmente e collettivamente, siamo stati presenti innumerevoli volte nelle loro preghiere. Siamo stati portati al tabernacolo, eravamo nel loro cuore mentre l’Eucarestia era ancora in bocca. Siamo stati affidati alla Provvidenza, per tutte quelle cose dove non era possibile agire di persona, e chissà quante implorazioni, perché non si spegnesse la nostra fede, e quanti sacrifici offerti perché il nostro lucignolo fumigante potesse ravvivarsi vicino alla loro fiamma persistente…
Quando riusciamo (io e mia moglie) ad andare insieme alla messa feriale o al sabato mattina spesso ci viene incontro la maestra D., una delle ultime che è ancora in grado di venire in chiesa con le sue gambe. Non ci vede più un granché, ma quando ci passa vicino, quasi avesse un sesto o settimo senso, ci riconosce.
Si capisce che ci vuole bene, perché si ferma sempre a salutarci e raccontarci qualcosa di bello. L’ultima volta ci ha detto, con aria solenne, ma con il tono della confidenza, come se fossimo i bambini a cui impartire una lezione importante: “Sapete, a questo punto ho una nuova preghiera: che il Signore mi dia una buona morte”. E ci ha sorriso, contenta che lo facessimo anche noi, mostrandole di aver compreso questo suo atto di definitivo affidamento al Cielo. Poi, mentre raccontava qualche suo bel ricordo che corroborava la sua convinzione di essere ormai arrivata alla dirittura finale, ho provato ad immaginarmela, la buona morte alla fine di una vita buona: non più quel parente antipatico e imprevedibile che bussa inaspettato e non gradito alla soglia di casa, ma una sorella che è stata lontana tutta la vita, e che ad un certo punto ti viene voglia di abbracciare, sapendo che ti accompagnerà attraverso cammini sconosciuti a scoprire il vero senso di tutto, verso quella compagnia definitiva per la quale hai consumato tutta la tua cera, brillando di una luce e di un calore che, tra l’altro, sono stati di guida e conforto per chi ha avuto la fortuna di incrociare il tuo cammino.
Grazie Maestre del quartiere e della scuola Feltre.
Come dicono gli americani, ma senza alcuna retorica, è stato un vero privilegio e un onore l’esservi stato allievo. Chi vi vede ora, curve su un bastone o sedute in una carrozzina, non può più riconoscere la vostra vera statura. Noi che la conosciamo, possiamo testimoniarla a parole, scavando nei ricordi. Ma non credo di sbagliare se affermo che vi farà più piacere se ci chineremo amorevolmente su di voi, per accendere ancora una volta il nostro stoppino, troppe volte spento, alla vostra fiammella cedua. Nel nostro infiammarci ed ardere, la vostra memoria e il nostro destino avranno un orizzonte d’eternità che nessuna parola è in grado di contenere. E proveremo di nuovo e definitivamente, quella gioia, che solo i cuori giovani conoscono, di aver fatto contenta la maestra.
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