Le Lettere di Pierluigi Bartolomei – A che servono i voti a scuola?
È arrivato l’ atteso giorno di ricevimento e la mia stanza resta aperta, spalancata in prossimità dell’aula destinata ai colloqui.
Qualche genitore passa, saluta in fretta e va ad iscriversi sul post-it appiccicato sulla parete. La voce della prima madre fin dall’inizio è di parecchi decibel superiore alla soglia della discrezione, in compenso il tono è così monocorde che lo si potrebbe trascrivere su un solo rigo del pentagramma, pagine e pagine di blablablablablablabla, senza pause, il fiato che ogni tanto tenta di emergere come un cane che annega ed io che purtroppo non posso non ascoltare vicino come sono dal luogo di ricevimento, fino ad incappare nella seconda madre, il prototipo della depressa sotto psicofarmaci, che per fortuna non potrò sentire con attenzione quando darà la stura alla sua impotenza perché nel frattempo debbo recarmi in segreteria a raccogliere l’ennesima stampa. E mentre la madre pazza sta arrivando all’epilogo (sospetta nel figlio, dislessia a parte, anche un paio di irreparabili traumi partiti dalla prima infanzia), finalmente riesco a distrarmi e ad abbozzare mentalmente, tra me e me un capitolo decisivo del progetto formativo per meccanici d’auto che parte prossimamente nel pomeriggio.
La madre pazza intanto si è dissoluta come un peto al vento.
Poi, ad un certo punto: “sono il padre di Tizio buongiorno” e come tutte, come tutti, si imbarca in una vaga chiacchierata a proposito di suo figlio che entrambi, lui e il docente conoscono poco e male ed il cui destino sfugge giorno dopo giorno dalle loro mani.
Alla prima pausa il docente incalza con una richiesta chiara e precisa:” suo figlio non ha ancora acquistato le scarpe antinfortunistica e non ha il camice da laboratorio come gli altri”.
Lui, il papà si capisce che è particolarmente imbarazzato tanto da allungare inverosimilmente la pausa che precede la sua risposta.
“Vede…, è che io sono separato e Vittorio vive con me, di sua madre non sappiamo più nulla, pare sia andata a vivere con il suo compagno in una comunità religiosa sikhismo nel nord dell’India. Io sono stato licenziato da sei mesi ed ogni tanto mi aiuta la Caritas ma non dite nulla a mio figlio, per favore. Non è cattiveria ma le scarpe non gliele posso proprio acquistare”. Poi col cuore rotto dall’emozione l’uomo scoppia in un pianto disperato.
Mi annoto su un foglietto l’accaduto e l’indomani, come immaginavo, i docenti trovano immediatamente il sistema di attivarsi oltrepassando con infinita generosità l’impellenza antinfortunistica fino a cercare un’occupazione lavorativa per il padre dell’alunno che gli restituisse presto una qualche dignità umana.
La solidarietà è “Madre” perché ci aiuta a riconoscere quanto il valore di ciascuno sia importante per il benessere dell’intera collettività.
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