Le Lettere di Sandokan – Padri e figli
La sera del 12 dicembre, via WhatsApp, poco dopo le 22, ho appreso della morte di monsignor Javier Echevarría, prelato dell’Opus Dei e, in quanto Prelato, “padre” di alcuni tra i frequentatori di questo blog.
Ogni membro dell’Opus Dei chiama “Padre” il Prelato, una consuetudine che è nata spontaneamente perché i primi membri dell’Opera così si rivolgevano a san Josemaría Escrivá quando l’Opus Dei non era “niente” nella Chiesa, ovvero era solo un gruppo di persone innamorate di san Josemaría Escrivá che cominciarono a vivere assecondando uno spirito che essi già avevano prima di conoscerlo e al quale san Josemaría diede una forma, dando seguito a sua volta – con i suoi talenti, il suo carattere, le sue scelte, la sua volontà e la sua educazione – a ciò che “vide” per grazia divina nel 1928.
E non solo chiamavano lui “Padre”, chiamavano sua madre “Nonna”, suo fratello “Zio” e sua sorella “Zia”.
Tutte le realtà nella Chiesa hanno un “padre”, ma nessuna istituzione che io conosca ha una “nonna” e degli “zii”. Ma questa era la realtà nata spontaneamente negli anni ’30 da un gruppo di persone per le quali quelle parole (“padre”, “nonna”, “zio”, “zia”) avevano più o meno lo stesso significato che hanno per tutti e che non c’è bisogno di stare tanto a spiegare. Poi questa realtà, come è logico, si è “istituzionalizzata” e non si è potuta istituzionalizzare la “familiarità” che, col tempo, è diventata per molti – soprattutto per i più giovani – “segno” e non “desiderio” o “bisogno”.
Per me, nato molto dopo, che non chiamo “Nonna” la madre di san Josemaría (perché non mi viene naturale farlo) e che alla parola “Padre” – con la quale ho chiamato monsignor Javier Echevarría e con la quale chiamerò il suo successore – do un significato molto più legato al ruolo che alla persona, è stato impossibile “piangere” per questa morte. Il pianto (inteso come dolore fisico) è un fatto che riguarda il corpo e io, in questi giorni, non ho neanche sentito il bisogno di essere presente fisicamente ai funerali del Padre e nemmeno di pregare davanti al suo corpo esposto.
Mi sono detto: ma tu sei “figlio”, dovresti. Ma a un certo tipo di dolore non ci si può forzare, così come a un certo tipo di amore. Se lo fai ti senti come se rubassi lo spazio a chi invece piange davvero, come sempre si piange per una persona che prima era attorno a te e che oggi non c’è più, indipendentemente dalle virtù che ha mostrato di avere in vita. E allora che vuol dire tutto questo? Che la parola “padre” che ho usato per tanto tempo è stata un inganno? Credo di no.
Lo stesso giorno è morta una ragazza di 26 anni. Si è gettata giù da un viadotto sull’autostrada. La conoscevo superficialmente, ma conoscevo bene sua madre (anche se non eravamo amici). Proprio ieri chiacchierando raccontavo di come la cosa mi avesse colpito e aggiungevo anche non chiamerò sua madre per un po’, perché il mio dolore è troppo diverso dal suo e mi sento fuori posto anche a portare le mie condoglianze. Gli amori e i dolori che non si “riconoscono” finiscono per “disturbare”, questo penso. Non posso stare accanto a una persona che “amo” e che non mi ama. Allo stesso modo non posso stare accanto a una persona che ha un dolore troppo diverso dal mio.
Però è successa una cosa bella la sera del 12 dicembre. Una persona che invece conosco e che per me è il Padre, perché lo rappresenta nel luogo in cui vivo, mi ha telefonato per raccontarmi della morte di monsignor Javier Echevarría. Lo sapevo già, però vi confesso che questa attenzione mi ha fatto piacere.
Ho risposto “grazie del pensiero” (ed ero davvero grato che avesse pensato a me) e poi mi sono pentito. Mi sono detto che non dovevo rispondere così e che non avrei detto a mio fratello carnale “grazie del pensiero” se mi avesse chiamato per annunciarmi la morte di mio padre. Però poi ci ho ripensato e, avendo rivelato sinceramente ciò che avevo nel cuore, ho compreso meglio me stesso e ho potuto spiegarmi qualcosa che non riuscivo a capire e che però interrogava la mia coscienza ovvero il motivo per il quale la mia reazione alla notizia della morte del Padre non sia stata quella che ci si aspetta da un figlio (così mi dicevo), con i lacrimoni e l’aumento dei battiti del cuore.
Per me monsignor Javier Echevarría era “padre” tanto quanto lo era per lui, perché siamo entrambi membri dell’Opus Dei. Ma lui aveva con il Padre una familiarità che io non avevo – non so quanto intima o quanto somigliante a quella che san Josemaría aveva con uno di quelli degli anni ’30 (in fondo questo non era un problema mio), ma certamente superiore alla mia.
Forse non arriverò a chiamare “Nonna” la madre di questa persona che mi ha telefonato, però ho capito che è questo il punto e il senso del governo e della paternità proprio dello spirito che cerco di vivere da qualche anno: deve essere possibile replicare in piccolo ciò che era lo spirito dell’Opera nel 1930 e che rendeva naturale, per molti, ciò che col tempo, per molti altri, è diventato consuetudine.
Dipende dai padri e dipende dai figli se tutto questo sarà possibile, nei vari luoghi del mondo nei quali si prova ad accendere un fuoco che riscaldi davvero: un fuoco vero e non un fuoco dipinto.