Amoris Laetitia / Blog | 03 Agosto 2016

Nunzio Galantino – Amoris Laetitia

Monteporzio Catone- Villa Vecchia – Simposio docenti di teologia, 21 maggio 2016

1. Premessa: “fare teologia” in una Chiesa chiamata a rinnovarsi
«Il luogo della teologia è la Chiesa, perché è da essa che il “pensiero della fede” nasce» 1). La Chiesa nella quale ci invita a vivere e la Chiesa che ci invita ad essere sempre di più Papa Francesco è una Chiesa chiamata, come da sempre ci è stato insegnato, a rinnovarsi continuamente.
A dispetto di quanto si possa pensare, un’Ecclesia semper reformanda ha bisogno estremo di riflessione critica sui contenuti della propria fede per evitare che l’invocato rinnovamento si riduca a maquillage occasionale e non invece a una seria e continua prassi di avvicinamento all’immagine di Chiesa che Cristo ha voluto.
Il rinnovamento richiesto dall’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, ed ora da Amoris lætitia , tocca tutti gli aspetti della vita della Chiesa. È un rinnovamento profondo, che non mira a rivedere una singola struttura ecclesiale, ma lo stile con cui si fanno tutte le cose e si incontrano le persone. Quella che ha in mente Francesco, e che descrive nei due testi evocati, è una Chiesa mai paga nel suo impegno evangelizzatore e sempre capace di uscire da se stessa per andare verso il mondo e le sue periferie, geografiche ed esistenziali. È una Chiesa che vive “in uscita”, chiamata ad andare verso tutti gli uomini, soprattutto i più poveri, per portare loro il messaggio evangelico; una Chiesa che, per essere tale, è chiamata a ripensare se stessa e gli strumenti che le sono necessari per un compito che ne definisce l’identità.
Francesco esorta la Chiesa, che è di per sé e nativamente missionaria e aperta a tutti, a divenirlo realmente e sempre di più. Tante modalità di annuncio, infatti, sono poco efficaci, perché provengono da persone, quali noi siamo a volte, nelle quali l’impulso missionario si è col tempo affievolito. Riteniamo di vivere in una società di tradizione cristiana più che millenaria, e potremmo ritenere che, in fondo, il messaggio evangelico già sia stato lanciato, e chi lo voleva accogliere già lo abbia fatto. Ci potrebbe sembrare che tutti abbiano, di fatto, l’occasione di far parte della comunità cristiana, se solo volessero, e che il nostro compito sia soprattutto quello di guidarla nel miglior modo e accogliere chi voglia entrarvi.

La prospettiva del Papa però è differente: egli vede la Chiesa non semplicemente come una struttura che deve mantenersi aperta ai nuovi arrivi, ma come un nucleo vivo di persone continuamente rinnovate dallo Spirito di Dio e mandate a predicare, consolare, guarire. Non esiste una Chiesa statica; infatti, nel momento in cui si bloccasse perché soddisfatta dei risultati raggiunti o sfiduciata dall’esito deludente del proprio annuncio, non sarebbe più se stessa; non più la comunità abitata dal Risorto e impegnata con lui nel salvare tutti gli uomini, ma un’aggregazione umana simile a tante, che si sforza di gestire al meglio la posizione e i risultati che ha conseguito.
È facile capire che solo una riflessione critica sulla identità della Chiesa, sulla sua vita e sul modo di vivere la sua missione può aiutarla a provare disagio vero per stili di vita poco o addirittura anti evangelici.
Insistere sull’importanza della teologia per una Chiesa in uscita – l’insistere cioè per una riflessione critica sui contenuti della fede – non intende derubricare a boutade quanto Papa Francesco disse durante l’omelia pronunziata a Santa Marta il 2 Settembre 2014. «Tante vecchiette – disse – parlano di Dio meglio di tanti teologi». La teologia della quale parlo e che ritengo capace di accompagnare il bisogno di vitalità apostolica e di rinnovamento che Papa Francesco domanda alla Chiesa è una teologia consapevole – come scriveva Lorizio su Avvenire a commento dell’omelia del Papa e come ho già detto all’inizio – è una teologia consapevole che l’attività teologica nasce nella Chiesa. È quindi nella Chiesa che si deve generare ed educare a una fede adulta e pensata. Una teologia della quale, oggi più che mai, si ha bisogno è quella che si esprime come pensiero sulla fede sostenuta dalla “vita spirituale”2. A questo proposito, le stesse istituzioni accademiche «o sono in funzione della vita della Chiesa e della società o diventano autoreferenziali e incorrono nei rischi di intellettualismo e di razionalismo che il papa cerca di evitare e dai quali cerca di metterci in guardia»3. L’elogio della vecchietta capace di parlare di Dio meglio del teologo non è quindi elogio dell’ignoranza e congedo rivolto ad ogni forma di rigoroso pensiero sulla fede. Quell’elogio – che d’altra parte riprende un’espressione usata da Tommaso d’Aquino in un Quaresimale napoletano del 1273 – intende mettere in guardia da una teologia e quindi da una scienza che non diventa sapienza. Della sapienza che aveva fatto scrivere a Seneca: «Maximum hoc est officium sapientiae et indicium, ut verbis opera concordent, ut et ipse ubique par sibi idemque sit»4).

2. Amoris lætitia: la famiglia alla prova dei tre fondamentali mutamenti

Sulla base di questa premessa, fermiamo la nostra attenzione sull’Esortazione Amoris lætitia, con un’avvertenza: la “perfetta letizia” (Fioretti, VIII) non coincide certo con la giuliva gaiezza, sperimentata in qualche momento di evasione, né con la superficiale, spesso incosciente, allegria, meramente emozionale, bensì – come apprendiamo dal poverello d’Assisi – essa si radica e convive con le tribolazioni, cogliendo la rosa della fede e della ragione sulla croce del presente. La gioia dell’amore nella famiglia, che l’esortazione apostolica Amoris lætitia riflette ed annuncia, non elude né dimentica le ferite, le crisi, le difficoltà e i cambiamenti strutturali, non solo sociali ed economici, che le famiglie concrete vivono e sperimentano nell’oggi della storia.
Vorrei qui preliminarmente indicare tre fondamentali mutamenti che investono il vissuto e il tessuto familiare odierni, rimandando alla lettura dei nn. 50-57 dell’esortazione per la descrizione delle “sfide” presenti nel nostro contesto socio-culturale. L’attenzione alle metamorfosi che l’esperienza e l’istituto familiare vivono, non è determinata da un voler seguire le mode o legarsi al carro del sapere mondano, bensì sono le stesse Scritture a indicarci la complessità e la dinamicità della famiglia, come il nostro testo opportunamente richiama: “La Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di crisi familiari, fin dalla prima pagina, dove entra in scena la famiglia di Adamo ed Eva, con il suo carico di violenza, ma anche con la forza della vita che continua (cfr. Gn 4), fino all’ultima pagina dove appaiono le nozze della Sposa e dell’Agnello (cfr. Ap 21,2-9)” (AL, 8). Di qui l’invito a “tenere i piedi per terra” e quindi a leggere la Parola di Dio nell’oggi della storia, senza distogliere lo sguardo dalle fragilità e dalle ferite vissute e sofferte nelle nostre famiglie. In questo senso dobbiamo interpretare il vissuto della famiglia di Nazareth, il cui dinamismo è percepibile fin dal suo costituirsi in maniera del tutto anomala, nel suo emigrare e nel suo rincorrere il futuro, nel fanciullo che fugge per dialogare coi dottori del tempio.
2.1.Libertà e coscienza delle persone per un’autentica fedeltà familiare
Il primo epocale mutamento, nato nel grembo dell’Occidente cristiano, concerne il fatto che la stabilità del nucleo familiare e in particolare dell’amore coniugale è affidata non più al controllo sociale ed economico, bensì alla libertà e alla coscienza delle persone. Tale “affidamento”, peraltro oltremodo rischioso, finisce tuttavia col garantire l’autenticità dei rapporti ed è di fatto conditio sine qua non perché si celebri un matrimonio valido. E non si tratta soltanto dell’assenza di coercizione che va appurata prima della celebrazione e all’inizio del rito stesso, bensì anche della libertà come autodeterminazione, chiamata ad esprimersi nell’amore coniugale. Quanto alla prima dimensione della libertà-da mi sembra difficile da confutarsi l’idea secondo cui il processo (incompiuto in altri contesti) di liberazione dal matrimonio combinato nasce dalla tanto bistrattata cultura occidentale e dalle sue radici profondamente cristiane e da essa tenta, faticosamente, di espandersi, in modo che venga riconosciuta la persona in tutti i suoi diritti e doveri fondamentali. Quanto alla libertà-per si tratta del dinamismo che si orienta verso l’amata/o a partire da un’interiorità assoluta, che tende a viversi nella gratuità dell’atto amativo.
“Le due case che Gesù descrive, costruite sulla roccia o sulla sabbia (cfr. Mt 7,24-27), rappresentano tante situazioni familiari, create dalla libertà di quanti vi abitano, perché, come scrive il poeta, «ogni casa è un candelabro» [cit. da Jorge Luis Borges, “Calle desconocida”, in Fervor de Buenos Aires, Buenos Aires 2011, 23 (trad. it.: Fervore di Buenos Aires, Milano 2010, 29]” (AL, 8). Tale mutamento è descritto come “antropologico” e ha visto le chiese attente ed impegnate nel tentativo di decifrarlo e darne ragione. A tal proposito, raccogliendo l’esperienza e la riflessione dell’episcopato spagnolo, papa Francesco così si esprime: “Nel contesto di vari decenni fa, i Vescovi di Spagna riconoscevano già una realtà domestica con maggiori spazi di libertà, «con un’equa ripartizione di incarichi, responsabilità e compiti. […] Valorizzando di più la comunicazione personale tra gli sposi, si contribuisce a umanizzare l’intera convivenza familiare. […] Né la società in cui viviamo né quella verso la quale camminiamo permettono la sopravvivenza indiscriminata di forme e modelli del passato». Ma «siamo consapevoli dell’orientamento principale dei cambiamenti antropologico-culturali, in ragione dei quali gli individui sono meno sostenuti che in passato dalle strutture sociali nella loro vita affettiva e familiare» [le citazioni dalla relatio finalis e dal documento dell’episcopato spagnolo su matrimonio e famiglia del 1979]” (AL, 32). Probabilmente l’affermazione circa la consapevolezza ecclesiale ed episcopale, diciamo pure “clericale”, di tale mutamento va problematizzata e quindi mi parrebbe opportuno concludere l’affermazione in tal senso con un bel punto interrogativo, magari da affidare alla ricerca e al dialogo di teologi e cultori delle cosiddette “scienze umane”. Tra i rischi impliciti in questo allargamento degli spazi di libertà, l’esortazione intravede quello della possibilità che si tenda a precludersi l’assunzione di responsabilità e il conseguente dono di sé in rapporti e vincoli duraturi, con la conseguente diminuzione dei matrimoni e quindi delle vite da single e dei cosiddetti rapporti liquidi (cfr. AL, 33).
Accanto a tale mutamento culturale ed antropologico, la riflessione del sinodo e la cristallizzazione che ce ne offre l’Amoris lætitia guarda alla coscienza, come al luogo in cui si gioca la persona con la maturazione delle proprie scelte e dei propri rapporti con se stessa, con gli altri, col mondo e con Dio. Si tratta di un altro punto nevralgico chiamato in causa più volte e a cui si rimanda per la morale e la pastorale. Il n. 37, la cui ultima espressione è stata molto citata, risulta a questo riguardo particolarmente significativo, anche perché nasce dalla constatazione relativa all’incapacità di comprendere e farsi carico da parte della comunità ecclesiale delle ferite e delle fragilità, ma anche delle potenzialità, che il ricorso alla “coscienza” implica: “Per molto tempo abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme. Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita. Stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al Vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle” (AL, 37). Come si può facilmente intuire si tratta di una tematica fondamentale per la teologia e per l’agire ecclesiale, ma che può essere indagata ed approfondita soltanto col contributo e l’ascolto della riflessione filosofica e delle risultanze proprie di altre aree disciplinari.
La libertà e la coscienza dunque non costituiscono delle minacce, ma piuttosto la scommessa che bisogna giocare, perché l’evangelo possa incontrare le donne e gli uomini del nostro tempo ed abitare i loro vissuti. È lo stesso Gesù di Nazareth a porre l’accento sull’adesione alla Parola di Dio, che avviene nella coscienza e nell’esercizio della libertà, allorché invita a ri-conoscere l’autenticità dell’esperienza familiare. Il loghion, appartenente alla triplice tradizione, risulta decisamente gesuano in quanto esprime una visione della famiglia in netto contrasto col proprio contesto culturale e religioso, superando una concezione meramente naturalistica della relazione-vincolo familiare: “Giunsero sua madre e i suoi fratelli; e, fermatisi fuori, lo mandarono a chiamare. Una folla gli stava seduta intorno, quando gli fu detto: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle là fuori che ti cercano». Egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?» Girando lo sguardo su coloro che gli sedevano intorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli!”(Mc 3: 31-34 || Mt 12:46-50; || Lc 8:19-21). Sarà proprio la dirompenza di questa parola, assunta nella versione matteana, a “scandalizzare” il rabbino Jacob Neusner e a fargli concludere, in maniera certo per noi non condivisibile, che Gesù è venuto non a compiere, ma a distruggere la Torah (si veda tutto il cap. IV del libro, cui Ratzinger ha riconosciuto una grande forza interpretativa, Un rabbino parla con Gesù). Questo rimando pone alla nostra riflessione teologica un problema di non marginale rilevanza, chiedendoci di approfondire ulteriormente la continuità/contiguità fra la concezione di famiglia propria delle due altre fedi monoteistiche e la differenza/specificità che anche in tale ambito il cristianesimo propone.
È comunque l’orizzonte della libertà e della coscienza a costituirsi come luogo in cui sia possibile un’autentica fedeltà, su cui fa perno l’indissolubilità del matrimonio, infatti lo stesso Gesù invita a non considerare il “tradimento” solo nel suo esprimersi concretamente attraverso esperienze di trasgressione, ma a rinvenire la radice dello stesso nell’adulterio della coscienza: “Voi avete udito che fu detto: “Non commettere adulterio”. Ma io vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5,27-28). Il riportare il tradimento, ed ovviamente anche la fedeltà, nell’orizzonte della coscienza e della libertà non viene dunque a significare un indebolimento, bensì un’espressione della stessa radicalità evangelica e cristiana, da cui come credenti non possiamo prescindere.
2.2.Ruolo e identità della donna nell’ambito familiare
Un secondo epocale mutamento di orizzonte è dato dalla nuova e sempre più profonda percezione dell’identità e del ruolo della donna nella chiesa e nella società. Ruolo ed identità che ovviamente si generano, si sviluppano e si esprimono nell’ambito familiare. Il magistero di questa esortazione riposa senz’altro sulle spalle della Familiaris consortio (che ha il suo stesso valore dottrinale), ma anche certamente non può dimenticare la Mulieris dignitatem, col suo richiamo al “genio femminile” e al necessario riconoscimento, che comporta insieme diritti e doveri, e che spesso risulta calpestato da pratiche aberranti, che la chiesa in diverse occasioni non omette di stigmatizzare come tali: dall’utero in affitto, all’infibulazione, alla violenza ecc.: “Il diminuire della presenza materna con le sue qualità femminili costituisce un rischio grave per la nostra terra. Apprezzo il femminismo quando non pretende l’uniformità né la negazione della maternità. Perché la grandezza della donna implica tutti i diritti che derivano dalla sua inalienabile dignità umana, ma anche dal suo genio femminile, indispensabile per la società. Le sue capacità specificamente femminili – in particolare la maternità – le conferiscono anche dei doveri, perché il suo essere donna comporta anche una missione peculiare su questa terra, che la società deve proteggere e preservare per il bene di tutti. Di fatto, «le madri sono l’antidoto più forte al dilagare dell’individualismo egoistico. […] Sono esse a testimoniare la bellezza della vita». Senza dubbio, «una società senza madri sarebbe una società disumana, perché le madri sanno testimoniare sempre, anche nei momenti peggiori, la tenerezza, la dedizione, la forza morale. Le madri trasmettono spesso anche il senso più profondo della pratica religiosa: nelle prime preghiere, nei primi gesti di devozione che un bambino impara […]. Senza le madri, non solo non ci sarebbero nuovi fedeli, ma la fede perderebbe buona parte del suo calore semplice e profondo […]. Carissime mamme, grazie, grazie per ciò che siete nella famiglia e per ciò che date alla Chiesa e al mondo»” (AL, 173-174). La cultura europea, che ha saputo cantare ed esprimere “l’eterno femminino” e il richiamo “metafisico” al “regno delle madri” (W. Goethe) dovrebbe innestare tali profondi riferimenti culturali e filosofici nella mentalità corrente attraverso la capacità di riflettere ed esprimere, nei vissuti, i propri convincimenti, che altrimenti resterebbero vuote espressioni poetiche o sterili astrazioni filosofiche. E tutto questo in relazione alle proprie radici religiose innestate nella tradizione ebraico-cristiana. Senza dimenticare – come certamente né il sinodo né l’esortazione vorrebbero – la crisi della figura paterna e le sue disastrose conseguenze non solo sul piano educativo, ma anche su quello sociale (cfr. AL, 176-177).
Il grande tema del femminile, richiede sempre rinnovate energie da dedicare alla riflessione e all’approfondimento, nonché alla formazione, proprio in un contesto in cui domina la confusione e l’equivoco, per esempio così come si è manifestato nei media, soprattutto nostrani, a proposito delle espressioni pronunziate dal papa in occasione dell’udienza alle superiore delle religiose. Non vorremmo che nello stesso ambito teologico ed ecclesiale si alimentassero equivoci e confusioni, che risulterebbero dannosi per la stessa causa della partecipazione della donna alla vita della chiesa e della società.
2.3. Significato unitivo e procreativo della sessualità
Un terzo profondo mutamento, che non solo nel linguaggio, ma nelle convinzioni stesse presenti nell’Amoris lætitia, possiamo rinvenire è facilmente individuabile in una rinnovata, anche se certamente non inedita, concezione della sessualità, in continuità con la dottrina che le attribuisce il duplice significato unitivo e procreativo. Le pagine che il testo dedica innanzitutto al primo di questi significati, vedono nell’esperienza erotica una sorta di espressione della sacramentalità, concreta e vissuta in letizia, dell’amore che si dona e si riceve oblativamente ma non negandosi: “L’unione sessuale, vissuta in modo umano e santificata dal sacramento, è a sua volta per gli sposi via di crescita nella vita della grazia. È il «mistero nuziale». Il valore dell’unione dei corpi è espresso nelle parole del consenso, dove i coniugi si sono accolti e si sono donati reciprocamente per condividere tutta la vita. Queste parole conferiscono un significato alla sessualità, liberandola da qualsiasi ambiguità” (AL, 74 cfr. anche 150-152). Quanto al significato procreativo, l’esortazione introduce il sintagma “fecondità allargata” a significare tutte le possibilità di generare che vanno anche oltre la dimensione naturalistica di tale esperienza profondamente umana e cristiana (cfr. AL, 178- 184). Ed è in questo contesto che troviamo incastonati gli splendidi versi del Poemas de otros: “La famiglia non deve pensare sé stessa come un recinto chiamato a proteggersi dalla società. Non rimane ad aspettare, ma esce da sé nella ricerca solidale. In tal modo diventa un luogo d’integrazione della persona con la società e un punto di unione tra il pubblico e il privato. I coniugi hanno bisogno di acquisire una chiara e convinta consapevolezza riguardo ai loro doveri sociali. Quando questo accade, l’affetto che li unisce non viene meno, ma si riempie di nuova luce, come esprimono i seguenti versi: «Le tue mani sono la mia carezza i miei accordi quotidiani ti amo perché le tue mani si adoperano per la giustizia. Se ti amo è perché sei il mio amore la mia complice e tutto e per la strada fianco a fianco siamo molto più di due»” (AL, 181).
La letizia dell’amore, chiamata a viversi e innestarsi sui mutamenti culturali ed epocali, che la storia registra e alimenta, non può non indicare l’autentico senso della famiglia, che si situa nel mondo come segno (sacramentale) della profonda unione con sé cui Dio chiama l’umanità tutta. Ed è questo il senso di quella metafora sponsale, che troviamo nelle Scritture sante a significare l’esclusività (monoteismo) del rapporto che Dio vuol instaurare con Israele e di quello che Cristo realizza con la sua Chiesa. È la stessa metafora che ci viene richiamata dalla Dei Verbum, allorché il Concilio intende metterci di fronte al piano di Dio che si realizza nella storia, tendente a rendere noi uomini “divinae naturae consortes [invito a meditare sul testo latino]” (DV, 2). Perché il segno sia reale, concreto e carnale deve darsi profonda e “fisica” alterità fra coloro su cui si fonda il nucleo originario del matrimonio, ovvero i coniugi. Ed è per questo che l’esortazione non può non richiamare il senso del matrimonio come riferito esclusivamente al rapporto uomo/donna: “Nessuno può pensare che indebolire la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio sia qualcosa che giova alla società. Accade il contrario: pregiudica la maturazione delle persone, la cura dei valori comunitari e lo sviluppo etico delle città e dei villaggi. Non si avverte più con chiarezza che solo l’unione esclusiva e indissolubile tra un uomo e una donna svolge una funzione sociale piena, essendo un impegno stabile e rendendo possibile la fecondità. Dobbiamo riconoscere la grande varietà di situazioni familiari che possono offrire una certa regola di vita, ma le unioni di fatto o tra persone dello stesso sesso, per esempio, non si possono equiparare semplicisticamente al matrimonio” (AL, 52). Senza indulgere a nessuna forma di omofobia, qui si ribadisce con la necessaria chiarezza che, se le parole devono avere un senso e non trasformarsi in pietre- pericoli per la società e le persone, alla coppia che forma una famiglia e che celebra il matrimonio non si può non riconoscere la necessaria compresenza del maschile e del femminile e non solo a causa della procreazione, ma per lo stesso significato unitivo (fra vere e proprie alterità) che il matrimonio significa ed esprime.
3. «E liberaci dalla … foga illuministica»
A Firenze, papa Francesco, mettendoci in guardia dallo gnosticismo, lamentava l’attitudine negativa di questa tentazione culturale che «porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro» e che «però perde la tenerezza della carne del fratello». Questo, ma anche quanto il Papa ha scritto nella Evangelii gaudium e lo stile stesso utilizzato dal Papa, al di là di aspetti e riferimenti particolari, suggeriscono con una insistenza sempre maggiore una revisione che interessi in maniera diretta quella che i tedeschi chiamano la christliche Bildung (cultura, formazione, educazione).
Una revisione tanto più urgente quanto più evidente si vanno facendo i limiti di una cultura – anche di quella religiosa – sempre più segnata da una sorta di “foga illuministica” e sempre meno attenta alla “qualità umana” del sapere.
Quando Papa Francesco afferma che «per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica» (Evangelii Gaudium, 198), indica una strada che la Chiesa deve percorrere e che la obbliga a considerare i poveri e l’opzione per i poveri come il vero criterio dell’ortodossia cristiana e il vero discrimine per decidere ciò che è cristiano.
Non si tratta cioè di fare qualcosa «per» i poveri quanto di arrivare a decidere a partire dalla opzione per i poveri la qualità del nostro essere Chiesa di Cristo.
Ma tutto questo, se non arriva a interessare in maniera decisiva quella che ho chiamato la christliche Bildung, non contribuisce a realizzare l’invocata «conversione pastorale».
Questo vuol dire liberare i nostri percorsi formativi e di evangelizzazione dalla “foga illuministica” che sembra caratterizzarli in maniera eccessiva.
Vedo praticato, nei nostri ambienti, una sorta di fanatismo dell’uomo illuministico ottimale, di corsa all’ottimizzazione del soggetto “consapevole”, dell’attore sociale/religioso razionale. Per raggiungere questi obiettivi nei nostri processi formativi si innesca un crescendo deleterio che si gioca su una conoscenza che deve diventare appartenenza e di una appartenenza che non può (subito) farsi rappresentanza («se hai capito e appartieni… devi portare altri!).
Si tratta, a ben vedere, di una logica (quella della rappresentanza) fondata, come dicevo, su un crescendo deleterio che ha poco di evangelico; è fondata su un protocollo illuministico.
Gesù ha reclutato in maniera diversa la Samaritana, Matteo, Zaccheo, una dei due ladroni! Guardando con più attenzione a quello che sta realisticamente accadendo al mondo della nostra Christliche Bildung, mi sembra appropriata l’amara nota con la quale introducono la loro Dialettica dell’Illuminismo i filosofi tedeschi M. Horkheimer e Th. Adorno: «… ma la terra illuminata risplende all’insegna di trionfale sventura» (Einaudi, Torino 1966, 11).
Se prendiamo sul serio lo stile che in maniera inequivocabile ci deriva dalle parole di Papa Francesco, non possiamo esimerci anche noi dal constatare che, spesso, tutto quello che abbiamo finalmente … illuminato … risplende di tragico!
Il tragico di un Cristianesimo che rischia di spiegare e di spiegarsi più di quanto non faccia, un Cristianesimo che rischia di mancare di “esercizio”; un Cristianesimo nel quale si fa fatica ad accomunare pratica e grammatica. La critica profetica rivolta a quella, che qui ho richiamato come “foga illuministica” e che il Papa nell’omelia del 20 maggio 2016 ha indicato nella figura dei “teologi illuminati” che credono di aver capito tutto, se da un lato ci pone in alternativa rispetto a quello che Antonio Rosmini chiamava il “nazionalismo teologico” non comporta un invito a demandare dall’esercizio di quella che lo stesso Roveretano definiva “carità intellettuale” affidato a quanti come voi sono chiamati a svolgerlo nella chiesa e nella società.
La necessità di una teologia capace di trasformare la storia in pensiero alto, che non vuol dire disincarnato; una teologia capace di insegnare che a nessuna affermazione sul soprannaturale è preclusa la possibilità di indicare un ordine di referenza naturale.
4. … per un processo di riflessione e di formazione: senso e obiettivo dell’incontro
L’incontro odierno, che si rivolge a docenti di diverse discipline intende attivare un processo di riflessione e di formazione a partire dalle istanze dell’esortazione e perché nel dialogo interdisciplinare e in iniziative da attivare nelle diverse istituzioni accademiche il magistero sinodale e del vescovo di Roma possa innestarsi nel pensiero e nel cuore dei credenti in Cristo Signore. La stessa esortazione ci invita a un proficuo lavoro di riflessione e chiama in causa la teologia e le diverse forme del sapere, sia perché ci avverte che non ogni soluzione va attesa dal magistero, sia perché ci sollecita a riflettere sulla molteplicità delle situazioni che i diversi contesti vivono, in modo da non offrire indicazioni omogeneizzate ed omogeneizzanti alle persone e alle società. A coloro che qui in Italia svolgono la professione teologica è quindi richiesto un lavoro attento e diaconico perché si accolga, nel contesto delle nostre chiese e della nostra società civile, l’appello dell’ Amoris lætitia a non accontentarsi di soluzioni preconfezionate e magari pensate in maniera avulsa dal reale concreto dietro le scrivanie di qualche dicastero pontificio. A tal proposito risultano decisive, e ad essi dobbiamo ispirarci nel nostro lavoro di oggi, ma soprattutto nel prosieguo di esso e nel processo che come Conferenza Episcopale intendiamo sollecitare ed accompagnare, le iniziali riflessioni che papa Francesco ci dona: “Il cammino sinodale ha permesso di porre sul tappeto la situazione delle famiglie nel mondo attuale, di allargare il nostro sguardo e di ravvivare la nostra consapevolezza sull’importanza del matrimonio e della famiglia. Al tempo stesso, la complessità delle tematiche proposte ci ha mostrato la necessità di continuare ad approfondire con libertà alcune questioni dottrinali, morali, spirituali e pastorali. La riflessione dei pastori e dei teologi, se è fedele alla Chiesa, onesta, realistica e creativa, ci aiuterà a raggiungere una maggiore chiarezza. I dibattiti che si trovano nei mezzi di comunicazione o nelle pubblicazioni e perfino tra i ministri della Chiesa vanno da un desiderio sfrenato di cambiare tutto senza sufficiente riflessione o fondamento, all’atteggiamento che pretende di risolvere tutto applicando normative generali o traendo conclusioni eccessive da alcune riflessioni teologiche. Ricordando che il tempo è superiore allo spazio, desidero ribadire che non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa de- rivano. Questo succederà fino a quando lo Spirito ci farà giungere alla verità completa (cfr. Gv 16,13), cioè quando ci introdurrà perfettamente nel mistero di Cristo e potremo vedere tutto con il suo sguardo. Inoltre, in ogni paese o regione si possono cercare soluzioni più inculturate, attente alle tradizioni e alle sfide locali. Infatti, «le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale […] ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato»” (AL, 2-3).
Non è quindi il dibattito, che è seguito alla promulgazione dell’esortazione post-sinodale e che a volte ha assunto toni di inaccettabile polemica, a spingerci nella direzione di avviare questo processo destinato alla riflessione accademica e alla formazione (soprattutto dei futuri, ma anche degli attuali pastori, vescovi compresi), ma la stessa vicenda dei due sinodi e lo stesso documento ci impone l’impegno in questa direzione. Si tratta di un lavoro che dovremo trovare il modo di restituire e riportare alle nostre comunità ecclesiali, non solo attraverso i servizi di pastorale familiare, ma in maniera più trasversale e coinvolgente tutte le componenti del popolo di Dio. Un lavoro che sarà interdisciplinare e dialogico, proprio perché nella traduzione del messaggio e nel suo innesto sulle situazioni si fa appello alla necessità del “discernimento”, che richiede, attenzione, competenze, sensus fidei e soprattutto sinodalità, perché non giunga alla gente l’impressione che ci si muove in forma sparsa e frammentaria, se non addirittura polemica, rispetto a quanto ci indica il magistero. In questa sede e negli incontri che seguiranno vorremmo cercare di attivare una sorta di “sinodalità espistemologica” fra le diverse forme del sapere qui rappresentate.
5. Quale discernimento?
Il “discernimento” è un processo difficile, a volte tormentato, certo non frettoloso, nel quale si incontrano e spesso “incrociano” (in senso etimologico) il messaggio della parola che non tramonta e i vissuti delle persone e delle famiglie. Esso è destinato ed ha come fine il per- dono, e dovrà tendere in maniera sapienziale (una sapienza nella quale convergono diversi saperi) al giudizio sull’amore, secondo il detto evangelico, cui si giunge tramite un vero e proprio percorso in cui viene coinvolto colui che giudica dall’esterno (Simone) e colei che verrà perdonata: “«Un creditore aveva due debitori: l’uno gli doveva cinquecento denari, l’altro cinquanta. Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due. Chi dunque di loro lo amerà di più?». Simone rispose: «Suppongo quello a cui ha condonato di più». Gli disse Gesù: «Hai giudicato bene». E volgendosi verso la donna, disse a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «Ti sono perdonati i tuoi peccati». Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: «Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati?». Ma egli disse alla donna: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!». (Lc, 7,41-50). Questo cammino che Gesù fa compiere ai commensali (una vera e propria pedagogia dell’amore e del perdono), tendente a discernere le espressioni amative autentiche rispetto a quelle superficiali o di convenienza, è lungo e faticoso. Esso andrà vissuto nella comunità ecclesiale, attraverso percorsi di autentica e profonda formazione delle coscienze, ma anche rispetto alle persone nella direzione
1spirituale e nel sacramento della riconciliazione. Inoltre proprio il ricorso al “discernimento” consentirà il passaggio da una pastorale delle strutture a una pastorale delle persone indicata nel Convegno di Firenze e sulla quale si gioca il nostro futuro.
Il “nucleo familiare” costituisce il luogo in cui potranno intrecciarsi autentiche alleanze fra maschile e femminile, anziani, adulti e giovani, cittadini e istituzioni, popoli e nazioni e appartenenze culturali e religiose che consentano all’umano di vivere in una terra più ospitale (alleanza uomo/natura) e in città meno violente. In questo senso il nostro lavoro dovrà ispirarsi e innestarsi nelle indicazioni che papa Francesco ha offerto al sapere teologico, in diverse occasioni, ma soprattutto nel messaggio inviato alla Facoltà Teologica di Buenos Aires: una teologia autentica non si fa a tavolino, né in accademia, ma dovrà modularsi nella forma di una cultura dell’incontro, capace di farsi carico dei conflitti e di abitare le frontiere dell’umano. In questo orizzonte la famiglia va considerata come luogo di incontro nel conflitto e luogo di frontiera sincronica (fra individuo e società) e diacronica (fra generazioni).
Il primo passo, nella forma di un tentativo sperimentale, che mettiamo in cantiere oggi, ci vede impegnati ad offrire il nostro contributo all’interno di tre macroaree epistemiche: quella della teologia speculativa, quella della teologia pratica e quella della filosofia e delle “scienze umane”, ciascuna delle quali è guidata da tre schede predisposte dalla segreteria generale della CEI. I risultati verranno raccolti e condivisi (la consulta che si riunisce in questi giorni comincerà a rifletterci su) in vista dei prossimi appuntamenti, che verranno comunicati. Intanto un grazie di cuore per la vostra generosa partecipazione e per il dono del vostro prezioso tempo, che certo non sarà sprecato.

Nunzio Galantino – Segretario generale della CEI Vescovo emerito di Cassano all’Jonio

1. 1 G. LORIZIO, Intervista ad Avvenire (03/09/2014), 17.
2 « Se sei teologo pregherai veramente, e se preghi veramente sei teologo» (EVAGRIO PONTICO, De oratione, 60).
3 G. LORIZIO, Ibidem
4 Seneca, Epistola XX
5 Metto qui in comune alcune suggestioni bisognose di ulteriori approfondimenti, maturate all’interno di un colloquio con Pierangelo Sequeri in occasione dell’incontro (Piacenza, 17 settembre 2015) dei Docenti di Teologia nelle diverse Facoltà dell’Università Cattolica.

Qui l’originale