
Le Lettere di Sandokan – Domande & risposte
Ancora sui Big Data, che secondo me rappresentano bene la realtà contemporanea, così piena di informazioni che faticano a generare una vera conoscenza.
Guadagnarsi il diritto a dare “risposte” era una fatica del passato.
Esistevano delle autorità, il cui diritto a “rispondere”, a introdurre “conoscenza”, era certificato da curriculum, esperienze, tradizioni e titoli di studio. Le autorità avevano delle “case” – luoghi certificati da autorità ancora più grandi – dalle quali pronunciavano le loro sentenze, benedicendo o maledicendo abitudini, libri, pensieri e comportamenti.
A volte queste autorità litigavano tra loro, ma nessuno poneva in discussione la loro utilità e il loro diritto a far ascoltare la loro voce.
Le domande alle quali queste autorità davano risposta erano dalle stesse autorità sempre in qualche modo “giudicate”. Erano, per esempio, da esse giudicate degne, rilevanti, proprio grazie fatto che esse meritassero la loro attenzione. Non potevano certo dar retta a tutti, perdere tempo dietro ai problemi di tutti.
Tra domande e risposte, non c’era dubbio che la conoscenza trovasse il suo luogo naturale nelle risposte. E proprio questo scegliere a cosa rispondere, assieme alla risposta che si sceglieva di dare, orientava il pensiero separando ciò che aveva più valore (a quello si rispondeva) da ciò che ne aveva di meno.
L’enorme mole di informazioni oggi resa disponibile a tutti, a poco prezzo e con poca fatica, ha cambiato radicalmente questo mondo passato. Oggi tutte le risposte sono a portata di mano e non sono più custodite in luoghi privilegiati. Tali luoghi ancora esistono e però fanno una gran fatica a sopravvivere, vuoti come sono di domande, che nessuno più rivolge a loro.
Uno potrebbe chiedersi: sono risposte vere le nuove risposte disponibili? Affidabili come quelle di un tempo? Questo aspetto, dico subito, non ha una rilevanza così grande come si crede. Non subito almeno.
Perché le risposte “vere” hanno bisogno di domande “vere”. E le domande “vere” maturano col tempo, vengono fuori se trovano spazio, accoglienza. Se si sentono attese. La “verità” solo allora acquista rilevanza. Quando risponde a domande vere, che toccano intimamente. Non è detto, per esempio, che siano tutti assillati dai problemi riguardanti “il senso immenso della vita”. E non è detto che io sappia spiegare, così su due piedi, a chi me lo chiede, il senso della sua vita o della mia.
Ho letto di recente un raccontino di Michele Serra che è forse utile a spiegare tutto questo, cioè il fatto che se la conversazione non è “vera”, dare risposte vere è inutile.
Era in taxi a Milano e discuteva di elezioni con il tassista che gli diceva che non avrebbe votato Sala come Sindaco perché “ha messo nella sua squadra Albertini, cha ha già fatto il Sindaco vent’anni fa”. Lui gli ha fatto presente che Albertini era nella squadra di Parisi (cioè di quello che il tassista avrebbe votato) e non di Sala. Il tassista ha risposto così: “Fa lo stesso, si vede che mi va di votare Parisi e basta”.
Alle autorità di un tempo non è più riconosciuto il diritto a scegliere di cosa occuparsi. Si trovano a inseguire, appesantiti come sono da secoli di abitudini, la conoscenza, entrando a forza in questioni che, se fosse dipeso da loro, avrebbero ignorato. Una scomodità per chi aveva sempre piena la sala d’attesa.
E dove poi sono costretti ad entrare? Nei meandri creati da sconosciuti sulla Rete: non tutti sono meritevoli di attenzione, si sa, ma sono tanti.
Si dice che furono i monasteri a salvare la cultura nell’alto medioevo. Ma contro i barbari di oggi, i monaci di oggi dove andrebbero a cercare ciò che merita di essere salvato, distinguendolo da ciò che può essere consegnato all’oblio?
Ho letto un pensiero del professor Derrick de Kerchove – un sociologo belga-canadese che oggi insegna Sociologia della cultura digitale all’Università di Napoli – riportato dal Corriere della Sera qualche tempo fa, che mi ha colpito: «Quando tutte le risposte sono a portata di mano è solo la domanda che conta. E la massa di informazioni dei Big Data fa emergere la conoscenza a partire dall’ignoranza».
Ora la possibilità che la conoscenza venga fuori dall’ignoranza non è così scontata. E non è certo una tecnologia in sé a creare dal nulla ciò che non esiste. Ma noi crediamo troppo spesso che la conoscenza sia nella “risposte” (e aggiungiamo le nostre risposte alle risposte degli altri) e invece la chiave è farsi interrogare dalla domande giuste. Essenziali sono le “domande”.
La tecnologia oggi consente di analizzare velocemente un mare di “risposte” ai problemi più disparati, nel formato in cui vengono generate (pdf, doc, xlsx, ppt, mp3, mp4, …), allo scopo di generare domande nuove: «Le domande non si pongono più all’inizio della ricerca, ma alla fine, perché emergono dai risultati che man mano affiorano».
Analizzando un dataset di vendite di libri molto grande, qualcuno scoprì che i lettori di Ken Follett abbastanza di frequente acquistavano i libri di Erasmo da Rotterdam. Perché? Forse è una cosa rilevante o forse no. Certo il “perché?” è una domanda che nessuno si sarebbe fatto se non si fosse messo ad ascoltare una certa realtà.
Non voglio certo esaltare i Big Data con questo articolo come se fossero la soluzione di tutto. Niente è la soluzione di tutto.
I Big Data per certi versi sono come un ricordo d’infanzia, un ritorno a un mondo nel quale si passava più tempo a domandare piuttosto che a spiegare. Ci aiutano a ricordare che migliorare le domande aiuta a migliorare le risposte.