Palabra – El celibato de los laicos: amistad que conduce a la decisión de ser como Jesús
Il n° di marzo di Palabra contiene un breve saggio sul mio libro “Come Gesù” che la medesima casa editrice ha tradotto e pubblicato in spagnolo da alcuni mesi. Ecco la breve spiegazione con cui introduce l’articolo che riporto qui sotto nell’originale italiano. “In genere si usa l’idea di sponsalità per spiegare il celibato dei sacerdoti e dei religiosi. Ma come si fa con i laici che si donano a Dio nel mondo senza altra consacrazione che quella del battesimo? La teologia deve ancora spiegare questa realtà. L’autore la spiega secondo il canone dell’amicizia. Come l’apostolo Giovanni, amico di Gesù e deciso ad essere come Lui, anche nell’aspetto della verginità”.
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Sono passati cinque anni da quando è stato pubblicato in Italia il libro Come Gesù, che è stato il primo tentativo di affrontare sistematicamente la questione di quei cristiani che vogliono vivere il celibato per amore di Dio rimanendo laici in tutto e per tutto (cfr E. Burkhart – J. López, Vida cotidiana y santidad en la enseñanza de San Josemaría, vol. I, Rialp Madrid 2010, p. 224 nota 734). Da allora c’è stata l’edizione spagnola di Come Gesù e presto dovrebbe esserci quella tedesca; sopratutto, però, c’è stato un fitto dibattito che è avvenuto attraverso il blog Come Gesù. Questo sito, che ora riguarda anche molte altre cose, per i primi due o tre anni ha davvero avuto nel celibato e nell’amicizia i suoi argomenti privilegiati.
Non è facile meditare sul celibato apostolico. La teologia ha vissuto e vive tuttora questa tensione nel desiderio di tradurre in ragioni e argomenti la realtà di laici che si danno a Dio nel mondo senz’altra consacrazione che quella battesimale. Cimentarsi con essa significa immediatamente mettersi in contatto con l’umile certezza di cui è pervasa: sapere di essere, dopo il celibato dei religiosi e dei sacerdoti, un altro dono – un dono diverso – di Cristo alla sua Chiesa.
La vocazione al celibato propria della vita religiosa viene prevalentemente spiegato attraverso il senso del richiamo escatologico e del rendere visibile la sponsalità della Chiesa dinnanzi a Cristo; d’altra parte, il celibato del sacerdote ha soprattutto il senso di simboleggiare Cristo-Sposo dinnanzi alla Chiesa-Sposa. Entrambi questi modelli, quindi, si rifanno al paradigma della sponsalità.
A quale modello si riconduce il celibato apostolico, come san Josemaría Escrivá chiamava quel celibato che, non essendo sacerdotale, tuttavia nulla ha a che vedere con la consacrazione religiosa? Cito non a caso il Fondatore dell’Opus Dei perché nelle mie riflessioni ho considerato che questo santo abbia avuto un ruolo profetico rispetto a questo nuovo modo di vivere. A mio parere egli ha avuto quella capacità interiore di ascolto, di percezione e di sensibilità spirituale che gli hanno consentito di cogliere il mormorio impercettibile dello Spirito Santo, di assimilarlo, di farsene fecondare e di offrirlo al mondo. I verbi che scelgo per raccontare quanto avvenuto in san Josemaría, sono rivolti a descrivere più un divenire storico – una vita di celibato vissuta da decine di migliaia di persone – che l’elaborazione di una teoria sistematica. Tra le parole del Fondatore del’Opus Dei in proposito, quelle che da sempre ho trovato più suggestive sono laddove esorta a volgere lo sguardo all’apostolo Giovanni. “Come ridevi, schiettamente, quando ti consigliai di porre i tuoi verdi anni sotto la protezione di San Raffaele! Perché ti conduca, come il giovane Tobia, a un matrimonio santo, con una moglie buona, bella e ricca – ti dissi scherzando. E poi, come sei rimasto pensoso, quando aggiunsi il consiglio di metterti anche sotto il patrocinio dell’apostolo adolescente, Giovanni: se mai il Signore ti chiedesse di più.” (Cammino 360). Queste espressioni non sono un aforisma tra gli altri ma raccolgono un insegnamento costante. San Josemaría Escrivá già nel 1935 suggeriva di contemplare il quarto evangelista per capire meglio il celibato apostolico: “… y san Juan, el Apostol virgen, amadisimo de Cristo, para que os enseñe el camino de un celibato apostolico fecundo” (Istruzione per l’Opera di san Raffaele 9.1.35 n. 124 in Pedro Rodriguez, Camino Edición crítico-histórica, Rialp, Madrid 2002, p. 524).
La Chiesa è la Sposa di Cristo pertanto, in senso generale, ogni cristiano è “sposa di Cristo”. Non importa che sia celibe o sposato, laico o sacerdote o religioso. Un padre e marito con numerosi figli è, in questo senso, “sposa di Cristo” nè più né meno di una monaca di clausura. Poiché però Gesù stabilisce due modi di arrivare in Cielo, il matrimonio e il celibato, mi sembra riduttivo, allorché si entra nello specifico del celibato apostolico, voler illustrare il secondo con il primo dicendo che il celibato è un particolare tipo di «sposalizio».
Certo Cristo cancella l’etichetta di «impurità» che tante culture antiche, soprattutto quelle di stampo gnostico e manicheo, attribuivano alle realtà naturali, fisiologiche, e riafferma il valore del matrimonio, anzi lo nobilita ripristinando l’originaria indissolubilità e la simmetria dei ruoli tra marito e moglie e ne fa un sacramento. D’altra parte però, contemporaneamente, indica una via alternativa, un’altra via, che è quella da lui stesso seguita: la verginità, che è il modo di essere che ha vissuto fin da tutta l’eternità. Colui che anche nella sua vita terrena vedeva e ascoltava «quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo» (1 Cor 2,9) ha voluto vivere nel tempo la stessa verginità che ha vissuto nell’eternità. Per questo è rimasto celibe.
È senz’altro una bella spiegazione dire che il celibato mostra «fin da qui la vita che sarà» ma ce n’è un’altra, anch’essa molto bella, ed è che il Verbo è vergine. È vergine fin da sempre e per sempre, e tale è rimasto anche nell’Incarnazione. E il celibe a cui penso io, è un cristiano che sente la vocazione di vivere, nel mondo, una vita come quella di Cristo anche nell’aspetto della verginità: Come Gesù, da qui il titolo del mio libro. Questo cristiano vuole che cresca in sé una somiglianza particolare – libera, gratuita, non obbligatoria – con la vita di Cristo. La persona che ho in mente vive il celibato perché pensa «voglio essere Come Gesù» in un modo specifico: coltiva il desiderio di far vivere in sé stesso, in una vita nascosta e ordinaria come quella di Gesù a Nazaret, Cristo celibe. Solo Dio conosce il profumo del gesto di identificarsi con Cristo vergine. Ci si vuole comportare come Cristo. Si è affascinati da Cristo che quando si ri-dona al Padre al momento della Passione, è nudo e solo. Tutto il proprio corpo, integralmente, senza nessuna protezione, è offerto al Padre.
Da questi presupposti si è fatto strada in me il desiderio di spiegare il celibato apostolico con l’amicizia piuttosto che con la sponsalità.
Immaginiamo due amici, due ragazzi, che abbiano lavorato tutto l’anno per mettere da parte il denaro per regalarsi un viaggio estivo. Giunge il mese di giugno e a uno dei due avviene una disgrazia: i suoi genitori muoiono in un incidente ed egli, primogenito di quattro figli, si vede nell’obbligo di rimanere a casa. L’altro, nonostante il primo lo esorti a portare ugualmente a termine il progetto della vacanza, decide “per amicizia” di rinunciare e di aiutarlo ad affrontare ciò che la vita gli ha messo dinnanzi. Non esiste nessun obbligo da parte del secondo, nessun impegno, nessuna necessità: egli si comporta così liberamente, perché vuole. Per amicizia, appunto.
Quando parlo di essere discepoli di Cristo rimanendo per amicizia con Lui celibi come Lui, intendo qualcosa di simile a quanto ho appena raccontato con un esempio.
Forse non è balzato immediatamente agli occhi, ma quella che ho appena argomentato è la descrizione che corrisponde all’apostolo adolescente, Giovanni, il discepolo amato dal Signore: è la spiegazione del perché mi ha sempre colpito il chiaro riferimento all’apostolo Giovanni di san Josemaría – l’apostolo vergine e adolescente, così lo chiamava – quando parlava del celibato apostolico.
Mi sono sempre chiesto perché l’autore del quarto Vangelo indicasse sé stesso in questo modo: amato, preferito. Che senso avrebbe farlo se tra lui e il Signore fosse intercorsa solo una relazione, sì particolare, ma in fin dei conti qualsiasi, come avverrebbe se si trattasse di mera simpatia umana? Gente come Girolamo e Cassiano, Agostino ed Efrem erano convinti che il particolare amore di Gesù per Giovanni nascesse dalla scelta di essere come il Maestro anche nell’aspetto del celibato, scelta che non è per nulla chiara negli altri apostoli. Proprio questa unicità di Giovanni starebbe, secondo alcuni, all’origine della predilezione che Cristo aveva per lui: il discepolo prediletto sarebbe quello che, come i celibi di cui sto parlando, avrebbe scelto di assomigliare al Maestro anche nel suo essere celibe. Vuole essere come Gesù in qualcosa che, come ricorda Paolo ai Corinti quando parla delle vergini (cfr 1Cor 7,25), non è tassativo e necessario per essere cristiani. La scelta di Giovanni sarebbe all’origine del particolare amore di Cristo per lui, e far conoscere la causa della preferenza di Gesù sarebbe all’origine della decisione di autodefinirsi «discepolo amato» nel suo Vangelo. Sarebbe un modo di dire in maniera allusiva e discreta l’amore di predilezione di Gesù per chi compie la scelta del celibato.
Non sto parlando di ciò che è costitutivo e obbligatorio nel cristiano. Non sto parlando del comandamento dell’amore, del mandatum novum (cfr Gv 13,34; 15,12), dell’amore alla Croce, o della fede nell’Eucarestia o nella Trinità. Giovanni vuole vivere il celibato non perché sia una caratteristica essenziale dell’essere discepolo di Cristo ma perché, amico di Gesù, innamorato di Gesù, vuole essere “come Cristo” in qualcosa in cui non è necessario essere “come Lui”. Sceglie di essere come Lui come segno di amicizia. In questo sta l’amicizia. E in questo modo, di amicizia in amicizia, si diffonderebbe il celibato cristiano; o, comunque, si è diffuso in questo modo se penso a quelle persone che hanno scelto il celibato vivendolo secondo il carisma dell’Opus Dei.
Se questa è la tesi del libro, direi che nei dialoghi scritti e orali che hanno riguardato il libro Come Gesù, un argomento che fin da subito è stato al centro delle discussioni è stato quello che riguardava la verginità di Cristo. Naturalmente non secondo le fantasiose categorie de Il codice da Vinci di Dan Brown ma, piuttosto, da un punto di vista teologico.
In che senso si può dire che Gesù è vergine? Gesù ha la stessa verginità del Padre ma che vuol dire questa espressione? Dal punto di vista terreno c’è un significato ovvio: poiché non era sposato, non ha avuto rapporti maritali. È il senso normale, negativo, della verginità. La verginità in quanto inesperienza – “non esperienza” – della vita sessuale in quanto genitale. Ma, dal momento che la verginità di Gesù è quella del Verbo Incarnato, e quella del Verbo è quella del Padre, in che senso si può dire questo del Padre, in che modo Dio Padre “è vergine”? Dice san Gregorio di Nissa: «Abbiamo bisogno di molta acutezza per poter comprendere l’eccellenza di questa grazia, che si contempla insieme al Padre incorruttibile. E ciò che è paradossale (paradoxon) è che si trovi la verginità in un padre che ha un figlio e che lo ha generato senza passione alcuna. E la verginità si contempla anche nell’Unigenito di Dio, dispensatore dell’incorruttibilità, e risplende allo stesso modo nella purezza e nell’assenza di passioni nella sua generazione: e ancora una volta si presenta lo stesso paradosso, cioè un Figlio conosciuto nella verginità. E la stessa forma si contempla nella purezza essenziale ed incorruttibile dello Spirito Santo, perché nominando la purezza e l’incorruttibilità non si indica altro che la verginità» (De Virginitate, 2,1-11: SC 119, pp. 262-264).
Si può capire quanto intende Gregorio di Nissa se si riflette su un particolare uso che – per lo meno in italiano – facciamo della parola “vergine”. Questo aggettivo non indica solo l’inesperienza sessuale ma anche l’integrità e la pienezza di vita. Per esempio, quando compriamo dei dvd nuovi, chiamiamo questi dischetti “vergini”. In questo caso non c’è nessun riferimento alla vita sessuale. Ci riferiamo piuttosto all’integrità, ad un’esistenza piena e nuova: insomma alla vita colma. Nella vita qui ed ora, quando ci si dona, inevitabilmente qualcosa va perso e diminuito. In questa vita essere nuovo significa essere integro ma per il cristianesimo, nella fede, non è così. Gesù dice “a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello” (cfr Mt 5,40) ed è chiaro che, in prima istanza, se io dò la mia tunica al bisognoso ne rimango privo: cioè darsi significa “rovinarsi”. Però so che, misteriosamente, in prospettiva di fede non è così. Se la tunica è quella senza cuciture di Gesù (cfr Gv 19,23), quando essa viene offerta e donata, proprio perché costitutivamente unica e “senza cuciture”, essa non si spezza ma si moltiplica. Miracolosamente rimane non solo integra e intatta – cioè vergine – ma anche “aumentata”. Viene in mente il pane spezzato della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Ecco la Vita del Padre. Il Padre dona la vita, dona sé stesso, pienamente e consustanzialmente al Figlio e in maniera partecipata alla sua creazione, e ciò non comporta nessuna compromissione, dell’integrità. Nessun venir meno.
Tutto, cioè nasce dalla comunicazione della pienezza di vita. «Incorruttibilità» significa infatti assenza di composizione, quindi appunto pienezza, «pienezza di vita». Poiché il Figlio viene generato dalla pienezza di Vita del Padre, che non solo «ha» la Vita ma «è» la Vita, questa generazione è verginale. Quindi «pienezza di vita» e «verginità» hanno lo stesso senso. «Come infatti il Padre ha la vita in sé stesso così ha concesso al Figlio di avere la vita in Sé Stesso» (Gv 5, 26). Il Padre genera il Figlio senza il concorso di nessun altro principio, cioè verginalmente, e così «anche il Figlio dà la vita a chi vuole» e opera come il Padre: «Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi vuole» (Gv 5, 21).
Viene anche alla luce, forse sorprendentemente, perché Gesù nell’ultima cena dice «vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).
Questa frase unisce inscindibilmente filiazione divina e amicizia perché le “parole” di cui parla il Verbo Incarnato non sono parole dette da un qualsiasi genitore al figlio, ma sono il Padre che mette l’intera Sua Vita nel Figlio e gliela dà come propria. È, all’infinito e nell’eternità, quell’affidare all’amico tutto il proprio cuore con tutto quello che ha dentro che definisce l’amicizia: per questo Gesù dice “vi ho chiamoato amici”. E per questo filiazione divina e amicizia si uniscono inscindibilmente. Perché gesù le unisce con quanto dice nell’Ultima Cena.
Quest’operazione, che avviene nell’eternità tra il Padre Vergine e il Figlio Vergine, è poi vissuta dal Figlio incarnato verso gli uomini e innanzitutto verso Giovanni, l’apostolo vergine che riposa sul petto di Gesù come Questi, fin dall’eternità, riposa nel seno del Padre (cfr Gv 1,18). Gesù chiama questo rapporto “amicizia”: “vi ho chiamati amici perché …”. Così, in maniera misteriosa, di amicizia in amicizia, a cerchi concentrici, si diffonde la filiazione divina. Attraverso l’Uomo-Dio quanto avviene in Cielo giunge a quegli uomini che vogliono essere figli nel Figlio, suoi amici e, in Lui, amici tra loro.
Il paradigma sponsale è una possibilità della vita umana, ma non è l’unica. A fianco della sponsalità e prima di essa viene l’amor complacentiae, cioè l’amicizia
– come spiega Giovanni Paolo II nella meditazione Il dono disinteressato che per questo è stata pubblicata, per la prima volta, nell’ Appendice di Come Gesù. Ha senso una vita umana vergine? Che amore vive un celibe che si nutre di amicizie? È vero o no che esercitare o meno la vita sessuale non cambia, di per sé, la qualità della vita? Questo è stato l’altro grande argomento di cui si è dibattuto nei mesi successivi alla pubblicazione italiana di Come Gesù. Penso che il difetto di cercare di ricondurre a qualsiasi costo la relazione umana, amorosa e amorevole al canone sponsale, sia un eccesso e una forzatura che nasce dalla misconoscenza pratica dell’amicizia. Ciò può avere effetti diversamente perniciosi, dovuti al rischio pratico di ridurre tutto al piano sessuale/genitale, con ricadute opposte: sia in senso rigorista sia, viceversa, lassista.
Se scrivo che una donna ama una donna, che una donna ama un uomo, che un uomo ama un uomo, che un uomo ama una donna, non è detto che stiamo parlando di sesso,
né nel sacramento del matrimonio né fuori. Magari stiamo parlando di amicizia e proprio per nulla di unione sessuale, perché ciò che unisce, propriamente, è l’amore. Non è il letto che unisce: il talamo è materia matrimoniale ma l’amore non è tutto matrimoniale. Diciamo la verità: quando ho scritto poco sopra «che un uomo ama, che una donna ama» quanti di noi hanno pensato all’amicizia? Pochi, vero?
Questo aiuta a capire quanto può essere utile leggere questo libro sul celibato anche a chi esclude che il celibato lo possa riguardare. Può non riguardarmi il celibato, ma credo che nessuna persona possa decidere di non essere toccata – “riguardata” – dall’amicizia.
Se quando parliamo di amore pensassimo più facilmente all’amicizia, quello che voglio dire si capirebbe meglio. Noi diciamo che «l’amore è tutto», ma non ci crediamo, questo è il problema. Invece è proprio vero che «tutto è tutto” e non è questo sì e questo no. È tutto. Invece noi diciamo «tutto» per dire tutto quello che ci serve, tutto quello che è previsto, tutto quello che pensavo. In questo senso il libro Come Gesù aiuta a riscoprire il significato dell’amicizia, della civiltà, della cultura. E quindi delle parole.