Blog / Sandokan | 05 Marzo 2016

Le Lettere di Sandokan – Vaff… ma prego per te

Dopo il mio Tobia Antonio e l’uso politico della preghiera, Sandokan ha preteso venisse pubblicato un articolo che avevo insabbiato per vigliaccheria. Era la versione lubrica di una nostra telefonata piena di risate ma lui sostiene che nelle righe qui sotto ci siano le radici profonde di quanto ho poi scritto su L’Huffington Post facendolo passare per mio. Insomma mi accusa di furto con destrezza e pretende una sorta di risarcimento per il copyright. Sono costretto così a pubblicare un pezzo che qualsiasi blog serio rifiuterebbe con orrore e dal quale mi dissocio dalla prima all’ultima parola (soprattutto dalle parolacce che, si sa, in questo sito combatto con tutte le mie forze).
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Spero che la redazione del blog (che è formata da don Mauro, Dory, Polifemo e Tres … questo si sa) sappia trovare un titolo adeguato per questo articolo – come è noto, i titoli sono redazionali – sul dialogo, sulla spinta all’evangelizzazione che sollecita l’uomo toccato dalla grazia ad approcciare il suo prossimo per spingerlo alla conversione.

L’uomo, che prima che la grazia lo toccasse aveva un approccio un po’ basic verso l’altro, si trova catapultato in un mondo in cui tutti si vogliono bene, fraternamente. Ha lasciato il mondo cattivo ed è diventato apostolo e ha fretta che tutti se ne rendano conto e si complimentino con lui. “Minchia che apostolo che sei diventato”, questo vorrebbe ascoltare anche se non in questi termini (che volgarità!) ma col cuore (è diventato umile), o anche con un “like” su Facebook (vive in questo mondo e usa appropriatamente le tecnologie, senza farsene usare e senza demonizzarle).

Purtroppo spesso il mondo che ha abbandonato con disgusto non si accorge della sua apostolicità (è gente insensibile, senza cuore, che non distingue il peccato dal peccatore) e continua a sfancularlo come faceva prima che lui si convertisse. Lui sa bene quanto sia ingiusto tutto questo, ma cerca di trattenersi o di mantenere i toni su un certo livello di compostezza ed educazione scegliendo espressioni che non feriscano l’altro nel suo essere persona amata da Dio. Ma a un certo punto non ce la fa. Oggettivamente tra “le tue parole trasudano egoismo” e “vaffanculo” non c’è partita. E finisce per sfanculare il suo prossimo pure lui, l’apostolo, come faceva prima, però – questa è la differenza – senza dimenticarsi di aggiungere che prega per lui e chiede preghiere. Spesso anzi aggiunge che lo sfanculato andrà in paradiso, e in paradiso sarà molto più in alto di lui, dello sfanculatore (tradendo in questo di essere ancora legato ad una visione moralistica del cristianesimo).

Malauguratamente la richiesta di preghiere dopo lo sfanculamento genera irritazione, non si sa perché. Probabilmente è colpa del relativismo morale in cui ci troviamo. E quindi il dialogo può trascendere e il neo-apostolo e il più-peccatore (più peccatore del neo-apostolo, perché siamo tutti peccatori, questo si sa) si trovano più distanti di quando erano due semplici stronzi che si sfanculavano in allegria.

A questo punto che si fa? Si cerca di salvare il salvabile con un artificio semantico che cerca a un tempo di ottenere tre obiettivi: sfanculare, evitare lo sfanculamento di ritorno e mettere la relazione nelle mani di Dio.

Si fa così. Prima dello sfanculamento si piange sui propri difetti. Si dice “lo so, sono irascibile, sono permaloso, sono questo, sono quest’altro”. Queste espressioni servono ad autorizzare lo sfanculamento che segue. Si conclude poi con il solito “prego per te” che eleva tutto a Dio e, se possibile, si aggiunge la storiella dell’attico in paradiso.

Se avviene, la sfanculata di ritorno – che, nonostante le cure mostrate per renderla inoffensiva, potrebbe sempre arrivare – diventa una carognata, perché lui se l’era già detto da solo che era una merda d’uomo, che in paradiso magari manco ci va e, comunque, qualora ci andasse, starebbe in cantina rispetto all’attico dello sfanculato: e tu, calcando la mano, ti dimostri senza pietà e non noti i suoi progressi che stanno tutti in quel “prego per te” di cui l’altro, da ateo miscredente quale è, se ne fotte.

Agli occhi di altre anime pie poi, il neo-apostolo diventa un eroe (“tu solo ti metti in gioco”, si sente dire dagli altri che lo ammirano per come è bravo a disprezzarsi) e anche un santo (“grazie per le tue preghiere e la tua umiltà”, questo dovrebbe ascoltare, se il mondo non fosse quella valle di lacrime che è). Lo sfanculamento, così incapsulato tra elogi e pratiche di pietà, raggiunge solo il malcapitato a cui era destinato il quale, rispondendo “è vero, sei proprio una merda d’uomo” a ciò che lui percepisce come una offesa personale (per mancanza di formazione, certamente) si mostra lontano dal comprendere l’amore con cui Dio lo ama attraverso il suo fratello e rimane a marcire nei suoi peccati nell’odio e nell’ignoranza.
Preghiamo tutti per lui.

Sandokan è la Tigre della Malesia, questo si sa. In verità negli anni della sua giovinezza – quando il corpo esultava – le tigri, lui, le uccideva. Ma poi scelse la via di Lutet con i draghi. È l’eroe di sua figlia che, bambina, gli diceva: “Voglio essere anch’io una tigre, una tigre-femmina! Si può?”. “Certo che si può! Ma cosa credi che faccia una tigre tutto il giorno?”. “Lo so, lo so! Legge, studia e racconta favole!